Gerusalemme: senza pace. L'appello dei patriarchi
Chi comanda a Gerusalemme est? La pretesa di dare risposta coi fatti a questa domanda ha fatto scatenare di nuovo la guerra tra ebrei e palestinesi a fine settembre. Perché di guerra si è trattato, con i suoi morti e i suoi feriti, i suoi carri armati e mezzi blindati in circolazione per i territori, nuovamente in strada dopo il 1967.
All'origine degli scontri la riapertura di un condotto sotterraneo, vecchio di millenni, che consente di visitare le fondamenta sepolte di quello che fu il glorioso tempio di Gerusalemme. Gran parte dei 491 metri del tunnel sono già stati frequentati dai turisti per diversi anni, ma con un solo accesso, sito nel quartiere ebraico della città vecchia, che ovviamente fungeva da entrata e da uscita. Già nel 1988 l'apertura di uno sbocco nel quartiere arabo aveva provocato tra i palestinesi un fermento tale da far decidere per l'immediata chiusura. Ora il governo di Benyamin Netanyahu decide di riaprirlo, e lo fa all'insaputa di tutti, nel cuore della notte, sotto scorta della polizia. Un modo per riaffermare il controllo di Israele sulla città intera, compresa quella parte che i palestinesi sognano quale futura capitale del loro stato, e che gli israeliani hanno conquistato nel 1967.
In municipio sostengono che una nuova uscita faciliterebbe di molto il traffico nel cunicolo, soprattutto durante il periodo delle festività ebraiche, ma la motivazione dell'incremento del turismo non può non esacerbare gli animi da parte araba, dove l'economia è sempre più compressa a motivo dell'isolamento dei territori decretato da Israele. Una ulteriore complicazione nasce dal fatto che il passaggio corre a lato della "spianata delle moschee", terzo luogo santo dell'islam dopo la Mecca e Medina e viene giudicato da parte islamica come una minaccia all'area monumentale.
L'importanza della posta in gioco, Gerusalemme, spinge ora sia Arafat che Netanyahu a non arretrare dalle rispettive posizioni, e non è bastato l'incontro alla Casa Bianca, con la mediazione offerta da Clinton e da re Hussein di Giordania, a risanare la crisi e a rendere irreversibile l'accordo di pace. Per ora il tunnel resta aperto. Per ora la pace resta in questione.
Il 29 settembre scorso, su iniziativa dei patriarchi e dei capi delle chiese cristiane di Gerusalemme è stato celebrato un momento di preghiera comune, ecumenica, per la pace. Da quell'incontro, cui hanno preso parte, tra gli altri, il patriarca latino Michel Sabbah e alcuni esponenti palestinesi, è scaturita la seguente "dichiarazione dei patriarchi, dei vescovi, del clero e dei fedeli delle chiese cristiane di Gerusalemme", che pubblichiamo integralmente.
Appello dei patriarchi
"Carissimi fratelli e sorelle,
nel corso degli ultimi giorni abbiamo percorso la via della croce. Insieme abbiamo sperimentato sentimenti di dolore e amarezza attraverso gli eventi che hanno scosso Gerusalemme e l'intero paese, eventi che hanno portato alla morte di una ventina di persone e al ferimento di centinaia.
La nostra prima risposta, come cristiani, nel mezzo di questa crisi, è una risposta di preghiera. Noi imploriamo Dio di avere misericordia di tutti noi e di concedere saggezza ai responsabili di tutti i popoli di questa terra affinché possano prendere le giuste decisioni per mettere fine allo spargimento di sangue e condurci a una pace giusta.
Ma, levando la nostra voce in preghiera, vogliamo porre l'accento su tre principi che scaturiscono dal cuore della nostra fede in Dio e nascono dall'esperienza della chiesa cristiana, presente su questa terra da 2.000 anni.
1. Pace e sicurezza nel nostro paese non possono prevalere se non si fondano sulla giustizia. Noi crediamo che Dio è il Dio della giustizia e della rettitudine. Dio non può accettare l'oppressione, ma chiede a tutti noi, quali membri dell'unica famiglia umana, arabi ed ebrei, di fare giustizia e di amare la rettitudine. Dio rifiuta la prevaricazione del potente o la sua arroganza. La nostra fede ci conferma che ogni sforzo dell'autorità di governo nell'imporre al nostro paese una pace che non sia fondata sulla giustizia e sulla rettitudine, condurrà a un completo fallimento. Invitiamo dunque il governo israeliano a portare avanti il processo di pace con serietà e di farsi carico di ogni obbligazione nei confronti del nostro popolo. Sollecitiamo il governo israeliano a cambiare atteggiamento e a purificare le sue motivazioni. La pace non può essere imposta con la forza delle armi. La brutalità non ci porterà alla sicurezza. La stabilità non può essere perseguita con la via dell'ingiustizia e della negazione dei diritti. La giustizia deve venire per prima, e poi la pace seguirà; una pace che condurrà alla sicurezza. Come cristiani percepiamo che la formula del governo israeliamo è difettosa. Il suo slogan è: prima la sicurezza e poi la pace. Una tale formula mette la giustizia da parte e non porterà mai la pace. Come disse il profeta Isaia "Effetto della giustizia sarà la pace, frutto del diritto una perenne sicurezza" (Is 32,17).
2. La nostra fede ci insegna che non esiste alcuna differenza tra la vita di una persona e quella di un'altra. Agli occhi di Dio, non vi è alcuna differenza tra ebrei e palestinesi, tra arabi e stranieri. Dio è il creatore di tutti. Quali credenti nell'unico Dio noi affermiamo chiaramente che tutti dobbiamo vivere sotto la stessa legge. Di conseguenza invitiamo il governo israeliano a porre fine a ogni sua politica discriminatoria. I palestinesi devono avere dei diritti nel loro paese nella stessa maniera in cui gli ebrei hanno dei diritti nel proprio. Questo è l'unico modo in cui la pace potrà prevalere. Ogni volta che il governo israeliano privilegia gli ebrei sui palestinesi sparge i germi del disprezzo e della violenza ed è quindi responsabile della crescita di animosità verso il suo popolo. Sollecitiamo il governo israeliano ad astenersi dalla confisca delle terre, a restituire le terre confiscate ai legittimi proprietari, a fermare la demolizione delle case, a liberare tutti i prigionieri e i detenuti, a mettere fine al blocco delle strade, e a rispettare gli accordi firmati. Invitiamo il governo israeliamo a chiudere il tunnel recentemente aperto, ad astenersi dall'insultare e umiliare il popolo palestinese e a trattare i palestinesi come seri interlocutori, che stanno cercando una vita di libertà e dignità nel proprio paese e sulla propria terra. La discriminazione razziale non conduce alla pace o alla sicurezza. La discriminazione non può essere la base per generare fiducia tra i due popoli.
3. L'apertura del tunnel nella città vecchia di Gerusalemme è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Tuttavia, l'apertura del tunnel ha di per se stessa un grande significato in quanto ha ferito il sentimento religioso dei nostri fratelli e delle nostre sorelle musulmani, e nella nostra terra, questo sentimento religioso è più sensibile che altrove. Un governo giusto e democratico non violerebbe mai la sensibilità religiosa altrui in questo modo. Il fuoco più facile da accendere è il fuoco della sensibilità religiosa. Per i nostri fratelli e le nostre sorelle musulmani, l'apertura di questo tunnel è un preludio all'apertura di un altro tunnel che condurrà inevitabilmente a fare irruzione nel recinto della moschea e all'occupazione di una parte di esso. Ulteriori rivendicazioni archeologiche attorno al tunnel possono anche coinvolgere i luoghi cristiani e ridurre il numero di pellegrini che hanno accesso all'area. Si richiede pertanto la chiusura del tunnel, assieme alla garanzia per la comunità musulmana che il governo di Israele non consentirà mai una infrazione di una qualsiasi parte del recinto della moschea o qualsiasi violazione dei luoghi santi musulmani o cristiani.
"Gerusalemme, per prima" è ora una priorità. Essa è il cuore del conflitto e la chiave per la pace. Quando le barriere di Gerusalemme si solleveranno e le due parti condivideranno la sovranità su di essa, Gerusalemme diventerà la città della pace. Ma se Israele mantiene una sovranità esclusiva sulla città, e ne continua la "giudaizzazione", Gerusalemme non sarà mai la città della pace. Ogni pace imposta col pugno di ferro non sarà altro che una pace falsa e provvisoria. Gli ebrei non si sentiranno mai sicuri e i palestinesi non si sottometteranno mai a ciò. Insistiamo dunque su una Gerusalemme aperta, capitale per due stati, una città che possa essere un modello di coesistenza pacifica tra due popoli, quello palestinese e quello israeliano. Così Gerusalemme diventerà un simbolo genuino di autentica fratellanza e tolleranza tra le tre fedi: islam, ebraismo e cristianesimo.
Sollecitiamo tutte le autorità competenti a intervenire per porre fine alla violenza, a lavorare perché si abbia giustizia, cosicché la stabilità possa realizzarsi. Chiediamo a Dio di riempire i nostri cuori e le nostre menti di amore, forza e di tutto ciò che è buono, cosicché la nostra regione, il nostro paese, e la nostra Gerusalemme possano avere la pace per cui tutti lottiamo e preghiamo.
Gerusalemme, 29 settembre 1996,
Chiesa di Sant'Anna