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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Piero Stefani

La pace divisa

"Il Regno" n. 4 del 1997

Gli accordi firmati tra lo Stato di Israele e l'Autorità nazionale palestinese su Hebron (valico di Erez, 15.1.1997) prospettano la bipartizione della città e tre nuovi dispiegamenti militari ebraici in Cisgiordania.
La ridefinizione della politica di Netanyahu e la mediazione degli USA; lo scacchiere siriano ed egiziano.
In visita a Roma Netanyahu riceve la benedizione del papa su Israele.



Ogni medaglia ha sempre due facce; a volte però, specie nell'analisi politica, non è facile stabilire quale sia il dritto e quale il rovescio. Ciò vale anche per gli accordi relativi alla città di Hebron, firmati tra lo Stato d'Israele e l'Autorità nazionale palestinese il 15 gennaio 1997. È certo comunque che in virtù delle clausole sottoscritte questa località è ormai entrata nel novero delle non poche città che nel corso del XX secolo hanno conosciuto un destino di divisione più o meno duraturo: Berlino, Gerusalemme, Belfast, Nicosia, Beirut, Sarajevo. Quanto colpisce in questa analogia è però il carattere marcatamente sproporzionato proprio della bipartizione prospettata per Hebron: da un lato infatti vi è un pugno di quattrocento coloni israeliani, dall'altro una città palestinese di centoventimila abitanti. La tutela internazionale di una simile squilibrio basterebbe da sola a indicare che si è tuttora lungi dall'essere pervenuti a una completa normalizzazione della situazione.

Hebron è, dopo Gerusalemme, la città palestinese più dotata di valore simbolico. È infatti il luogo dove è situata la caverna di Macpela, cioè la tomba in cui fu sepolto Abramo (Gen 25,7-11). Non per nulla il nome arabo di questo agglomerato urbano conserva un'allusione a quel patriarca: si chiama infatti al-Khalil, la città "dell'amico" di Dio. Secondo la tradizione, qui oltre ad Abramo furono sepolti anche Sara, Isacco, Rebecca, Lia e Giuseppe.

Hebron è anche la città in cui nella festa di Purim del 1994 Barukh Goldstein uccise ventinove musulmani in preghiera (cf. Regno-att. 6,1994,175) Questa carneficina si inserisce in un ampio panorama di violenze presenti in questa città: esse vanno dal pogrom antiebraico compiuto a Hebron nel 1929 alle fucilate sparate all'impazzata contro una folla di arabi da un soldato israeliano il primo gennaio 1997. Eppure l'atto compiuto da Goldstein mantiene una sua tragica simbolicità, visto che la figura di quell'assassino è stata scambiata per una specie di martire protettore da parte di gruppi di ebrei oltranzisti, ivi compresi molti dei quattrocento residenti in Hebron. La tomba di Goldstein è ora meta di frotte di visitatori e nel suo nome si sono formati dei club all'interno delle scuole superiori religiose (jeshivot), fino al punto che un insegnante di una di queste ultime è stato abbandonato dalla metà dei suoi alunni quando, in conformità ai più sacri dettami dell'ebraismo, affermò che tutti gli uomini, quindi anche gli arabi, sono stati creati a immagine e somiglianza di Dio.

Israele: fratture interne

Non è certo la prima volta che in nome di una determinata religione si tradiscono nella realtà i suoi portati più veri; tuttavia questa osservazione nulla toglie alla gravità dello stravolgimento compiuto dagli oltranzisti israeliani. Né è segno rassicurante trovarsi di fronte a una serie di garanzie internazionali volte a tutelare la presenza di un manipolo di coloni la cui maggioranza condivide idee siffatte. In ogni caso la frattura che, entro lo stesso Israele, contrappone laici e iperosservanti si fa ogni giorno più lacerante. Secondo un recente sondaggio (da prendere peraltro con beneficio di inventario) ben il 35% degli israeliani paventa infatti la possibilità che, a più o meno a breve scadenza, scoppi una guerra civile incentrata sull'adesione o sul rifiuto dell'ideologia religiosa.

Il dritto e il rovescio della medaglia non riguardano però solo questi aspetti, concernono anche l'operato del primo ministro israeliano Netanyahu e il crescente credito internazionale da lui goduto. Un accordo a proposito di Hebron era già stato firmato nel settembre 1995 tra Arafat e il precedente governo a maggioranza laburista guidato da Rabin. Quando però nel maggio scorso Netanyahu venne eletto premier (cf. Regno-att. 12,1996,326) egli insistette per riaprire il negoziato al fine di ottenere migliori garanzie per la tutela della presenza ebraica a Hebron. Più in generale il capo del nuovo esecutivo dichiarò di essersi trovato sulle spalle la pesante eredità degli accordi di Oslo firmati dai suoi predecessori. In questa proposizione è già insito il nodo cruciale del problema. Una volta giunto al potere, Netanyahu non si comporta più come capo di un partito che si opponeva agli accordi di pace, ma come capo di un governo che, ben sapendo dell'irreversibilità della strada intrapresa, cerca di rinegoziare clausole più favorevoli alla presenza israeliana.

È indubbio che gli accordi firmati il 15 gennaio indicano che si è ripreso il cammino di pace e che il capo del Likud, il partito del "grande Israele", ha sottoscritto degli impegni che prevedono la cessione di parte di quel territorio prima dichiarato incedibile; ed è altrettanto fuori discussione che si tratta della prima volta in cui un capo della destra israeliana firma un accordo diretto con i palestinesi (a suo tempo Menachem Begin aveva restituito il Sinai all'Egitto, ma non si trattava né di una zona geografica che faceva parte della terra d'Israele, né di accordarsi con i palestinesi). È altrettanto certo però che le continue dilazioni rispetto ai tempi previsti dagli accordi precedenti concedono a Natanyahu, come dichiarato da lui stesso, "un più ampio margine di manovra": ogni giorno che passa nuovi coloni si installano in Cisgiordania, e si tratta di insediamenti che bisognerà in futuro "difendere contro i terroristi". In altri termini si trasformeranno in occasioni paragonabili a quella rappresentata dai quattrocento coloni insediati a Hebron.

I "piccoli passi" degli USA

La firma degli accordi è stata resa possibile grazie all'instancabile mediazione del diplomatico americano David Ross. Ebreo americano profondamente favorevole a Israele (negli anni settanta fu un degli architetti della relazione strategica tra gli Stati Uniti e Israele), Ross nella stretta finale dei colloqui che hanno portato alla conclusione dell'accordo di Hebron è stato accusato da parte degli arabi di una certa parzialità; non sono però mancati momenti di frizione neppure sul fronte israeliano. Come il resto dell'amministrazione Clinton, egli aveva scommesso sulla vittoria nelle ultime elezioni del laburista Peres. Visto l'esito diverso dall'atteso, non è restata altra via che riannodare, con la nuova leadership, il filo delle relazioni privilegiate che uniscono Israele con gli Stati Uniti, e lo si è fatto attraverso il ripristino della politica dei "piccoli passi" compiuta a suo tempo da Henry Kissinger. Per rilanciare la loro presenza nell'area gli Stati Uniti hanno così dovuto concedere a Netanyahu il credito di essere il vero capo del paese, ridefinendo la loro politica in modo più favorevole alla pretese accampate dal governo di destra. Gli esiti di questa operazione hanno avuto ripercussioni evidenti nella stipula degli accordi di Hebron.

Il documento centrale della recente intesa è rappresentato da una lettera di accompagnamento americana, non resa pubblica, relativa al ridispiegamento delle truppe israeliane in Cisgiordania, e agli impegni assunti dalle due parti per un positivo, ulteriore sviluppo del processo di pace. Per quanto è dato di sapere i contenuti della lettera si incentrano sui seguenti punti: Israele si impegna a tre nuovi ridispiegamenti militari in Cisgiordania, da attuarsi tra il marzo 1997 e l'agosto 1998. Ciascuno di essi sarà fissato da Israele in funzione delle proprie esigenze di sicurezza. La questione dei prigionieri palestinesi, all'incirca 5.000, sarà regolata prima della fine del maggio 1999; Israele si impegna a negoziare con i palestinesi passaggi protetti (previsti negli accordi firmati nel 1994) tra Gaza e la Cisgiordania. Si devono intavolare nuove trattative per l'apertura dell'aereoporto palestinese di Rafah e per il porto di Gaza; è stato sottoscritto un impegno per la ripresa delle trattative rispetto allo status di Gerusalemme est (aperte formalmente nel 1996 dal governo laburista e mai più proseguite); i palestinesi, da parte loro, danno assicurazione di portare a termine il processo di annullamento della carta dell'OLP del 1967 e di redigere un nuovo documento base che comporti l'esplicito riconoscimento del diritto all'esistenza dello Stato di Israele. Si impegnano inoltre a lottare contro le organizzazioni terroristiche e a rispondere alle domande israeliane di estradizione dei sospettati e terroristi. La clausola iniziale, secondo cui il ridispiegamento in tre tappe delle truppe israeliane sarà subordinato alle esigenze di sicurezza dello Stato, lascia tuttora nel vago quale sarà l'esatta estensione della parte di Cisgiordania che passerà entro l'agosto 1998 sotto effettivo controllo palestinese. Interrogato su questo specifico punto Uri Savir, l'architetto numero uno degli accordi di Oslo e di Taba, e stato categorico: "Alla fine dei tre dispiegamenti aggiuntivi Israele sarà presente nelle zone cruciali per la propria sicurezza... Ci resteranno territori molto importanti".

Questo spirito ha trovato un suo preciso riscontro su un altro scacchiere-chiave, quello relativo ai rapporti con la Siria e al connesso controllo delle alture del Golan. Netanyahu è stato assolutamente esplicito sulla non cedibilità di questa ultima zona, di cui il compianto primo ministro Rabin aveva prospettato una possibile evacuazione. Il negoziato tra Damasco e Tel Aviv, la cui ripresa era stata annunciata dalla stampa israeliana, non avrà in effetti luogo; anzi, per la prima volta dopo molti anni, il Mossad (servizio di sicurezza israeliano) nel suo rapporto annuale ha definito la Siria come il principale pericolo per Israele. Dal canto suo il governo siriano ha giudicato in modo assai negativo la firma degli accordi di Hebron.

Molte riserve a proposito di quest'accordo sono state avanzate anche dal capo dello stato egiziano Mubarak, il quale ha dichiarato di non vedere "la speranza per una giusta intesa globale", aggiungendo che "se non raggiungeremo una rapida e giusta soluzione, temo che il terrorismo e la violenza dilagheranno in tutta la regione". Il presidente egiziano ha inoltre criticato l'atteggiamento israeliano, definendolo "estremamente pericoloso, specialmente per quel che riguarda la mancata applicazione degli accordi già firmati" dal precedente governo laburista.

"Dio benedica Israele"

In questo quadro, ricco di chiaroscuri, il primo ministro israeliano Natanyahu è stato ricevuto, ai primi di febbraio, in Vaticano. Stabiliti ormai da tre anni i normali rapporti diplomatici tra Santa Sede e Stato d'Israele (cf. Regno-att. 2,1994,1; Regno-doc. 3,1994,81), l'incontro di Netanyahu con Giovanni Paolo II ha potuto tranquillamente proiettarsi verso il futuro fatidico anno 2000; infatti il premier israeliano ha rivolto un invito ufficiale al papa per visitare la Terra santa in quella data. Il papa dal canto suo ha risposto con una frase che, forse, in avvenire potrà diventare un ripetuto termine di riferimento: "Dio benedica Israele". Dalla visita in Vaticano del primo ministro israeliano si possono trarre quanto meno due conclusioni: la prima è un'ulteriore conferma del credito internazionale ormai goduto da Netanyahu; la seconda si trova nel fatto che ora anche lo Stato di Israele rientra nel nutrito novero dei paesi su cui Giovanni Paolo II ha invocato la benedizione divina. È una benedizione che, per l'occasione in cui è stata espressa, rimanda a una visione storico-nazionalistica più che a una visione religiosa di Israele.

articolo tratto da Il Regno logo

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