Tra Hebron e Assad
Alle prese con una forte crisi interna alla maggioranza e al suo stesso partito e con problemi giudiziari legati alle nomine del dopo-elezioni, il primo ministro israeliano Netanyahu affronta la fase attuativa degli accordi di Hebron. Le trattative con la Siria a uno stop.
Gerusalemme, marzo 1997. Nelle ore in cui queste righe vengono scritte, il governo di Israele è in seduta per decidere l'ampiezza del primo ripiegamento dalla zona rurale della West Bank (Cisgiordania), secondo l'accordo di Hebron "allargato", firmato a metà gennaio fra lo Stato ebraico e l'Autorità palestinese (cf. Regno-att. 4,1997,86). Secondo le indiscrezioni trapelate ancora prima dell'inizio della seduta, la proposta del primo ministro Benjamin Netanyahu interessa circa il 10% dell'area complessiva della West Bank (Gerusalemme esclusa), di cui circa l'8% riguarda la trasformazione della zona B (ad amministrazione palestinese e, di fatto, controllo militare israeliano) in zona A (a esclusivo controllo palestinese) e il restante 2% il passaggio dalla zona C (a esclusivo controllo israeliano) alla zona A. Benché l'approvazione della proposta del primo ministro da parte del governo sia praticamente scontata, una parte della coalizione governativa farà sudare a Netanyahu questo consenso, di cui il premier ha assoluto bisogno per poter tenere fede a un impegno internazionale, assunto sotto gli auspici degli Stati Uniti.
Nulla è più esemplare della situazione politica di Israele che la risoluzione che oggi sarà presa dal suo governo. Benjamin Netanyahu si è rivelato, nei primi otto mesi di governo, poco preparato al suo compito. Nelle passate legislazioni la nomina a primo ministro di un candidato con così poca esperienza politica, non cresciuto gradualmente all'interno delle strutture di un partito, sarebbe stata totalmente impensabile e soltanto la riforma elettorale – promossa dal defunto Rabin e da Netanyahu stesso durante l'ultimo governo Shamir – lo ha acconsentito.
La combinazione (unica nelle democrazie occidentali) dell'elezione diretta del primo ministro contemporaneamente e separatamente dall'elezione per liste su base proporzionale al Parlamento, invece di risolvere il problema della governabilità mantenendo intatta la rappresentatività ha reso possibile diverse distorsioni politico-istituzionali.
La pratica ha dimostrato che non solo non sono stati indeboliti i partiti piccoli, ma la possibilità di separare il voto al primo ministro da quello per il suo partito ha portato a una sensibile erosione della forza dei partiti grandi e a una fioritura di partiti settoriali (come quello degli immigrati dall'ex URSS), che hanno il dichiarato obiettivo di difendere specifici interessi e sono disposti a vendere il loro appoggio su tutto il resto al migliore offerente. E ancora: dal momento che le liste dei due partiti "grandi", Labor e Likud, non sono più formate da una commissione, bensì i candidati sono eletti dai membri del partito in elezioni preliminari, la fedeltà al partito, alla sua ideologia e al suo programma non è più in la testa ai loro interessi, poiché da sola non può assicurare la rielezione, ormai necessariamente frutto della notorietà del candidato, cioè della pubblicità che è in grado di farsi.
Questi sviluppi politico-istituzionali pesano su quanto succede nella politica israeliana, sul fronte interno, su quello del processo di pace, nei rapporti internazionali.
Il processo di pace con i palestinesi
Il processo di pace con i palestinesi, iniziato con le trattative segrete di Oslo, proseguito con la storica firma di Washington, poi con le trattative di Taba, quindi con la firma de Il Cairo (Oslo 2; cf. Regno-att. 18,1993,77; Regno-doc. 19,1993,640; Regno-att. 18,1995,527), è senz'altro da ascrivere a merito del coraggio politico e della lungimiranza di Yossi Beilin, Shimon Peres e Itzhak Rabin, che alla fine ha pagato con la vita la rinuncia alla retorica della "grande Israele" (cf. Regno-att. 20,1995,583). Il Likud storico, a partire da Menachem Begin, che ha ceduto al Sinai pur di riuscire a mantenere la fascia di terra fra il Giordano e il mare sotto l'esclusiva sovranità israeliana, fino a Netanyahu delle ultime elezioni, si è sempre tenacemente opposto a qualsiasi pretesa di autodeterminazione dei palestinesi, a volte adducendo motivi storico-religiosi, a volte motivi di sicurezza. Netanyahu ha abbondantemente sfruttato durante la campagna elettorale i feroci attentati perpetrati da Hamas nel 1994-95, per provare il fallimento del processo di Oslo e l'impossibilità reale di trattare con i palestinesi, di cui, in definitiva, "non ci si può fidare": gli slogan erano tutti concentrati sul pericolo rappresentato da Oslo per la sicurezza di Israele e sul fatto che, continuando, si sarebbe arrivati a uno stato palestinese e alla divisione di Gerusalemme. "Anche noi vogliamo la pace, ma una pace sicura", dicevano i poster elettorali del Likud, senza tuttavia spiegare come ci si sarebbe arrivati. Il leader del giorno dopo le elezioni parlava già una lingua diversa: Israele avrebbe rispettato tutti gli accordi internazionali firmati dal precedente governo, ma circa nuovi impegni avrebbe proseguito per la sua strada. Poi i mesi sono passati, la formazione del nuovo governo, l'estate (anche qui si va in vacanza) e forse anche il tentativo di trovare un'alternativa a Oslo hanno bloccato ogni avanzamento del processo di pace.
A questo punto il primo vero errore, da politico inesperto: l'apertura del tunnel sotterraneo fra il Muro del pianto e la Via dolorosa, a Gerusalemme, più volte rimandato in passato da Rabin e da Peres, che ha scatenato le frustrazioni dei palestinesi (cf. Regno-att. 18,1996,549). I moti di settembre, che hanno fatto 15 morti israeliani e almeno 72 palestinesi, contemporaneamente alla sospensione di tutti gli attentati di marca Hamas, in seguito agli accordi con l'Autorità palestinese (e all'attività dei servizi di sicurezza di Arafat), hanno provocato tali reazioni in Israele e all'estero da far capire a Netanyahu che tutti hanno preso sul serio i suoi slogan, e che gli israeliani non vogliono solo la sicurezza, ma anche la pace, o meglio, che non ci può essere sicurezza senza pace. A questo punto, in mancanza di alternative, non resta altro che andare avanti con Oslo, dando per sempre l'addio al sogno della "grande Israele". La firma dell'accordo di Hebron, che tratta anche degli ulteriori ritiri dal resto dei territori occupati stabilendo quantomeno un calendario, anche se non l'ampiezza del ripiegamento (la prima fase è effettuata appunto fra venerdì 7 e domenica 9 marzo 1997) rappresenta l'abbandono dell'ideologia del partito e l'adozione di una diversa strategia. La cosa non è resa possibile solo dalla palese volontà del popolo e dalle pressioni non proprio leggere di Bill Clinton, ma anche dalla posizione pressoché intoccabile del primo ministro, che ha svuotato il partito, come struttura ideologica e organizzativa, di ogni potere reale.
D'altra parte, però, il primo ministro è soggetto a pressioni di altro genere: gli alleati storici del Likud, cioè i vari partiti religiosi (nazionali e ultra-ortodossi), i partiti laici di estrema destra e l'ala destra del Likud (autodefinitasi "Forza 17" dal numero dei deputati che ne fanno parte e riprendendo il nome dei pretoriani di Arafat), devono essere in qualche modo tenuti buoni, per evitare moti di piazza ora che la via parlamentare è sbarrata: questo è il retroterra dell'intempestiva decisione di costruire nella zona di Har Homà (Jabel Abu Ghneim), fra Gerusalemme e Betlemme, un nuovo quartiere di alloggi a buon mercato, destinato alla popolazione ultra-ortodossa, e di chiudere quattro uffici palestinesi a Gerusalemme est, con il pretesto che sono organi dell'Autorità palestinese e che quindi non hanno il diritto di funzionare in quello che Israele considera proprio territorio sovrano (anche se l'annessione non ha mai avuto alcun riconoscimento internazionale). Entrambe le decisioni hanno fruttato condanne dure e immediate da tutto il mondo, a partire dalla Giordania e dagli USA, ma hanno risparmiato a Netanyahu le manifestazioni e i disordini che sono stati retaggio di Rabin e Peres.
L'equilibrio di "un colpo al cerchio e uno alla botte" è stato per il momento mantenuto, almeno fino a quando Arafat è all'estero, i bull-dozers non cominceranno a scavare ad Har Homà e le polizia non farà evacuare di forza i quattro uffici di Gerusalemme.
Il fronte politico interno
Sul fronte politico interno Benjamin Netanyahu ha commesso errori, che oggi sono al centro di una vicenda giudiziaria che, anche se non gli costerà il potere, certamente gli sta provocando e gli provocherà le critiche e le sfiducia di tutti coloro che anche nell'ala destra dello schieramento politico hanno a cuore la legalità e la democrazia.
Si tratta essenzialmente di errori grossolani nella nomina di ministri e collaboratori, che sono poi stati costretti a dimettersi per ragioni che a priori li rendevano inadatti a ricoprire le funzioni alle quali il primo ministro li aveva nominati. Tra le nomine che hanno sollevato più scandalo ci sono state quelle del primo ministro della giustizia scelto, costretto a dimettersi per avere testimoniato il falso alla Corte suprema e ora sotto processo, e quella dell'avvocato di stato (una carica che non esiste in Italia e che unisce le funzioni di consigliere legale del governo con quelle di capo della procura generale), costretto a dimettersi dopo sole 30 ore dalla nomina perché si è rivelato un avvocato di mezza tacca, dedito per di più al gioco d'azzardo.
Anche quella del nuovo ministro della giustizia non si poteva certamente definire "una nomina di buon gusto" – si tratta di un giovane leone con un passato da squadrista, che però è stato uno dei primi fedelissimi di Netanyahu – ma le critiche sarebbero rimaste dietro le quinte, se una giornalista televisiva intraprendente non avesse deciso di controllare che cosa ci stava dietro la nomina un po' troppo scandalosa dell'avvocato di stato, proposto al governo dal ministro della giustizia, che notoriamente aveva svolto il periodo di praticantato nello studio del suddetto avvocato. Il risultato di tale controllo è un'inchiesta giudiziaria che vede ora indiziati di reati diversi il primo ministro stesso, il ministro della giustizia, l'avvocato generale dimissionario, il direttore generale dell'ufficio del primo ministro (altra nomina controversa), nonché il capo di un partito ultraortodosso, ex ministro, già da anni sotto processo per corruzione, falso, peculato, che nel caso in questione avrebbe usato la forza politica del suo partito – il principale associato del Likud nella coalizione governativa – per far nominare un avvocato di stato disposto a "venirgli incontro" nelle sue vicissitudini giudiziarie. È ancora presto per stabilire se l'inchiesta si trasformerà in processo e il processo in condanna e se il primo ministro sarà incriminato; è chiaro tuttavia che Netanyahu è rimasto invischiato in queste vicende per la convinzione che, nella costellazione politica attuale, quando per legge sono necessari ottanta deputati su centoventi per rimuoverlo dal suo ufficio, non sarebbero state certamente un paio di nomine non troppo riuscite a procurargli la sfiducia del Parlamento.
Attribuire però la causa delle discutibili scelte del primo ministro soltanto all'inesperienza di un giovane (Netanyahu, 47 anni, è il più giovane capo di governo della storia quasi cinquentenaria di Israele) nuovo arrivato sulla scena politica è limitante e soprattutto non riflette le realtà delle forze che hanno portato alla sua elezione. Se da un lato Benjamin Netanyahu, a causa dell'investitura diretta, si ritiene in diritto di comportarsi un po' da presidente americano, sebbene Israele sia una repubblica parlamentare in cui gli impiegati dello stato sono "civil servants" di modello inglese e non nomine politiche, che cambiano con il cambiare dell'amministrazione, è altrettanto vero che fra le molte centinaia di migliaia di elettori che lo hanno votato c'è una larga maggioranza di persone che non si identificano con il vecchio sistema socio-politico, che vedono nei partiti tradizionali strutture spesso corrotte, che in ogni caso li hanno esclusi e che considerano il loro primo ministro direttamente eletto un quasi-re che li rappresenta, per la prima volta, personalmente. Il vecchio sistema, rispettoso di regole del gioco democratico che, in ogni caso, non sentono come proprio, viene automaticamente identificato con il partito laburista – sebbene negli ultimi vent'anni il Likud sia stato al potere per oltre quindici – a sua volta considerato socialista, comunista, o comunque legato all'Unione sovietica, disposto quindi "a vendere gli interessi nazionali" agli arabi per servire interessi estranei.
Per questi strati della popolazione l'odio causato dal conflitto nazionale si mescola con l'odio per i fondatori dello stato, questi sì socialisti, occidentali e laici, che hanno accolto i loro padri e i loro nonni con un paternalismo rivolto a cancellare i loro tratti religiosi, culturali, sociali e anche economici, affinché dal crogiuolo del rinato Stato di Israele potesse uscire "il nuovo ebreo". In questo odio sono accomunati quindi gli arabi, tutti i governi stranieri quando condannano Israele, tutti gli avversari politici – definiti "la sinistra" anche quando si tratta di liberali tatcheristi – e ovviamente i mezzi di comunicazione, i giornalisti, che nella loro ostinazione a frugare dietro le quinte sono considerati la longa manus della sinistra anche quando sono notoriamente Likud. È indubbio che Netanyahu si sente parte ed espressione di questi outsiders, ma è anche altrettanto indubbio che riesce a sfruttarli egregiamente per i suoi obiettivi politici, mentre la corrente "storica" del Likud, quella discendente dal movimento revisionista, con un forte bagalio ideologico, si oppone a questo deragliamento.
Non è un caso quindi che oggi l'opposizione interna di Benjamin Netanyahu nel Likud sia composta da coloro che per ideologia vogliono da un lato il rispetto totale delle regole del gioco democratico e dall'altro non hanno rinunciato all'ideale della grande Israele dal Giordano al mare: cioè la destra storica liberale. I rappresentanti di maggior spicco di questa opposizione interna sono il figlio di Menachem Begin, Benjamin Zeev, l'attuale ministro del tesoro Dan Meridor e il vecchio Itzhak Shamir, che per l'occasione ha deciso di riprendere l'attività politica a ottant'anni suonati.
All'ultimo Comitato centrale del Likud, convocato alcuni giorni fa come dimostrazione di appoggio a Netanyahu e forse come ammonimento agli inquirenti, oltre alle ovazioni spontanee al primo ministro, oltre alle claques organizzate, oltre alle solite grida "Morte ai media", per la prima volta il discorso critico di Benjamin Begin è stato interrotto più volte dalle grida "Begin traditore!". Questo grido, ignorato da Netanyahu, al comitato centrale di un partito in cui il nome Begin era sinonimo di re e messia, rappresenta oggi la pietra tombale del Likud. Per mezzo delle elezioni dirette, Benjamin Netanyahu è riuscito dove non sono riusciti politici molto più esperti di lui, come Shimon Peres, con i suoi oltre cinquanta anni di esperienza: ha messo in ginocchio, distrutto per sempre il Likud, lo ha privato della sua ideologia politica, delle sue dottrine economiche liberali (sostituite da un populismo economico che reagisce soltanto, ma non ha un vero programma), della sua vecchia classe dirigente.
Come il Labor non è più un vero partito socialista già da molti anni e a fatica può essere considerato un partito socialdemocratico, votato non dalle masse ma dalle élites economiche e intellettuali, anche il Likud esiste ormai solo di nome, e le masse che lo votano non hanno più nulla in comune con il revisionismo liberale di matrice europea, ma condividono la sensazione profonda di umiliazione e revanchismo dell'altro partito di massa, l'ultra-ortodosso sefardita Shass.
Le trattative con la Siria
A differenza del processo di pace con i palestinesi, le trattative con la Siria sono state totalmente bloccate dall'assassinio di Rabin e poi dalle elezioni anticipate indette da Peres. Si sa che il presidente Assad si è sentito imbrogliato dalla decisione di Peres di anticipare le elezioni per ottenere un mandato rinnovato, invece di concludere le trattative. D'altra parte il presidente siriano ha dimostrato una singolare incapacità di capire la controparte israeliana.
In Israele esiste un consenso abbastanza vasto contro il ritiro totale dall'altopiano del Golan, e non per motivi ideologici, ma per puro e semplice timore e mancanza di fiducia nei siriani. Assad, in questi anni di trattative, non ha fatto molto per creare questa fiducia; un gesto come quello compiuto da Sadat nel 1977, che gli conquistò la simpatia degli israeliani e li riconciliò con la necessità di restituire il Sinai, è totalmente estraneo al carattere del presidente siriano e forse anche alle sue possibilità politiche. Oggi Assad è disposto a riprendere le trattative dal punto dove sono state interrotte dall'omicidio di Rabin, cioè, secondo i siriani, dal presupposto che Israele si ritiri ai confini del 4 giugno 1967, mentre quello che resta da definire sono le modalità e i tempi del ritiro, gli arrangiamenti di sicurezza e le garanzie internazionali.
Non essendoci nulla di scritto e firmato, il governo di Israele sostiene di non sentirsi impegnato a nulla (ammesso che quanto i siriani sostengono sia vero), se non a un obbligo morale molto generico di fare di tutto per raggiungere la pace.
Se mi è consentito tratteggiare uno scenario per il prossimo futuro, e tenendo presente che secondo il Talmud dopo la distruzione del tempio la profezia è stata data agli stupidi, ritengo che, dal momento che Assad è veramente molto malato, Israele abbia deciso di aspettare a trattare con la Siria solo dopo il raggiungimento della soluzione permanente con i palestinesi, che in questo caso potrebbe coincidere con il dopo-Assad. Per questo Israele è disposto a pagare il prezzo di una guerra di attrito in Libano, contro le milizie degli Hezbollah, che ormai dura da quindici anni.