I diritti umani di cristiani e arabi. Lettera dei capi delle chiese.
Lo status di Gerusalemme, l'inesorabile tendenza all'estinzione delle comunità cristiane, la partecipazione dei cristiani alla vita pubblica e la collaborazione con i musulmani, e infine le situazioni in cui la pace è più a rischio: la chiara coscienza dei problemi è il dato caratteristico della lettera pastorale che i "capi delle chiese" cristiane del Medio Oriente hanno rivolto ai loro fedeli lo scorso 24 gennaio.
L'incontro da cui il testo ha origine ha costituito già di per sé un evento: è la seconda volta (il precedente è del 1985; cf. Regno-att. 12,1985,310) che il Consiglio delle chiese del Medio Oriente (CEMO), riesce a riunire i massimi rappresentanti di tutte le demominazioni cristiane della regione (ortodossi, ortodossi orientali, cattolici, evangelici). C'erano dunque i patriarchi greco-ortodossi di Antiochia, Alessandria e Gerusalemme, l'arcivescovo di Cipro (padrone di casa: l'incontro si è tenuto a Nicosia il 23-24 gennaio), i patriarchi copto, siriaco e armeno, i sette patriarchi cattolici e i quattro presidenti delle comunità evangeliche.
Ma se tredici anni fa l'agenda dell'incontro era prevalentemente intra-ecclesiale (fra l'altro, furono poste allora le premesse per l'ingresso a pieno titolo nel CEMO delle chiese locali cattoliche, concretizzatosi poi nel 1990) e la preoccupazione ecumenica era quella dominante, oggi, a partire dalla fede condivisa, il punto all'ordine del giorno è attrezzare una risposta comune rispetto alla presenza nelle rispettive società di cristiani, la cui ribadita identità "araba" appare riconosciuta e utilizzata solo nei contesti di contrapposizione a Israele e/o all'Occidente: un tema imposto con vigore dall'evolversi del quadro politico nell'intera area, con un particolare spartiacque rappresentato dalla "Guerra del Golfo" del 1991, e con il "caso unico" costituito dalla questione di Gerusalemme nel contesto del conflitto israelo-palestinese (fra i costanti riferimenti su Il Regno cf. in particolare, per un quadro d'insieme, Regno-att. 12,1995,321).
Solidali col popolo
Non è certo per caso che il riferimento a Gerusalemme si trovi in apertura della lettera: "Guardiamo alla Terra Santa per rinnovare la nostra solidarietà con il suo popolo e affermare il carattere unico e sacro della città di Gerusalemme. Richiamiamo l'attenzione delle chiese e della comunità internazionale nel suo complesso sui pericoli che si profilano per Gerusalemme e minacciano la pace mondiale". Dopo aver ribadito le origini apostoliche della presenza cristiana nell'area, la lettera prosegue indicando le cause dell'emorragia che le comunità patiscono e le ragioni, anzi la necessità di una permanenza: "Tutti noi crediamo in Cristo, vero Dio e vero uomo, Signore e Redentore, nostro pastore e guida, nelle tenebre e nelle difficili strade della vita. In particolare vogliamo affermare la nostra fede oggi, allorché vediamo che tra il nostro popolo sono tanti coloro cui vengono negati i diritti umani fondamentali, indirizzandoli poi verso una tragica emigrazione, come nella Turchia sud-orientale.Vediamo anche che tra il nostro popolo, in altri paesi, va crescendo il numero di coloro che abbandonano le loro case e vanno in Occidente, dove pensano di potersi costruire una vita migliore e assicurare un domani ai loro figli". Le difficoltà sono tali da "mettere in discussione l'esistenza stessa dei cristiani e la loro testimonianza". Ciò non deve tuttavia rendere i cristiani meno saldi nella fede e nella speranza: "dobbiamo fermamente credere che Cristo Signore ci ha posti, noi e voi, con un'eguale vocazione nell'Oriente: essere testimoni dei valori del Vangelo".
Da una piena espressione di tale testimonianza anche nella vita pubblica avrebbe da guadagnare, sottolineano i capi delle chiese, l'intera vita civile e politica: "I cristiani oggi hanno a che fare con molti problemi che spesso li allontanano dall'effettiva partecipazione alla vita pubblica. Questo allontanamento, a sua volta, fa crescere il senso di ansia e di paura. I cristiani non sono i soli ad avere la consapevolezza di tali paure e difficoltà. Anche molti musulmani riconoscono che le ansie dei cristiani rispetto al proprio futuro riguardano la società nel suo complesso, con tutti i suoi cittadini. Questa situazione ci investe di una doppia responsabilità: promuovere la partecipazione dei cristiani alla vita pubblica e operare in direzione di una cooperazione islamo-cristiana più efficace nell'edificazione di una società fondata sul rispetto per la diversità, sul raggiungimento della totale parità nella cittadinanza, sulla tutela della libertà e sulla difesa della dignità e dei diritti degli esseri umani".
E quasi a voler dare essi stessi un esempio di come va esercitata questa doppia responsabilità, i capi delle chiese pongono al termine della loro prima lettera pastorale congiunta una esplicita presa di posizione che è anche un appello alle chiese in tutto il mondo: "Non possiamo concludere questa lettera senza ribadire che noi condividiamo realmente le sofferenze del nostro popolo. Condividiamo in tutto il loro grido di giustizia, non ultimo nel cuore della loro resistenza causata dall'occupazione israeliana in Palestina, in Libano e in Siria, e dall'occupazione turca a Cipro. Dobbiamo anche volgere l'attenzione alle tragiche circostanze che la vita del popolo iracheno sta attraversando come esito di ingiuste e ingiustificabili sanzioni, che stanno causando un'estrema sofferenza fra i civili, perlopiù bambini, anziani e malati. Facciamo appello alle chiese in tutto il mondo perché si levino, in solidarietà col popolo dell'Iraq, a sostegno del suo diritto di vivere in dignità".