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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Francesco Strazzari

Israele fa la pace e fa la guerra. Intervista a mons. M. Sabbah

"Il Regno" n. 4 del 1998

Il patriarca latino di Gerusalemme, mons. M. Sabbah, interviene sul logoramento del processo di pace in Medio Oriente.
Solo Israele ha la forza d'imporre la pace o la guerra.
L'indebolimento di Arafat lascia a Israele ogni responsabilità.
Il ruolo di Stati Uniti e Santa Sede, una quotidianità difficile.



Amman, 18 gennaio 1998. Mons. Michel Sabbah appare provato. L'inconcludenza della non pace di questi territori, delle recenti iniziative americane, il rafforzamento della politica di Netanyahu fanno arretrare il processo di pace e tolgono speranza.

Eccellenza, a seguito degli ultimi fatti accaduti in Israele e in particolare a Gerusalemme, vi sono nuovi motivi di sconforto?

"A Gerusalemme c'è un mistero, quello di Gesù, che rimarrà per sempre. E sempre ci sarà la croce e qualcuno che la porterà a Gerusalemme. La pace vera, assoluta, quella del regno di Dio, non si avrà mai qui sulla terra. A questo proposito tutto il mondo si trova evidentemente nella stessa condizione, ma Gerusalemme in modo particolare. Malgrado tutto quello che si dice o si vuole dire, essa rimane la città della croce. La stessa gente che vi abita, che creda nella croce o no, rimane sotto il segno della croce. Lo ha detto il popolo che abitava qui al tempo di Gesù: "il suo sangue su di noi e sui nostri figli". Quei figli sono tutti gli abitanti di questa terra. Ogni uomo, ebreo o palestinese, di fede islamica, cristiana o ebraica, vive, lo voglia o no, sotto questo segno. La croce è quindi nella vita degli individui, dei popoli. Perciò la visione della pace, la visione umana della pace non è una visione adeguata per Gerusalemme. Lo statuto di Gerusalemme non potrà mai essere lo statuto di una qualunque città o capitale. Finché il governo israeliano vorrà trattare Gerusalemme come una qualsiasi capitale, non si arriverà da nessuna parte. È inutile, Gerusalemme è una città di Dio: è stato detto proprio al popolo ebraico, che dovrebbe saperlo, sentirlo e viverlo più di ogni altro. Gerusalemme non è una capitale come Parigi, Londra, Mosca e perciò non sarà mai soltanto la capitale d'Israele. Essa potrà essere capitale del mondo, dell'umanità, amministrata da Israele, da palestinesi, ma non capitale esclusiva per nessuno.

Sono dunque queste le realtà che viviamo. Abbiamo a che fare con Dio, non solo con gli uomini. La giustizia degli uomini non nego che esista: sì, ci sono i governi, la politica, gli accordi di Oslo, di Madrid. Un buon inizio, ma un inizio mancato, perché sottoscrivere dei principi sono un debole e un forte è inutile, vuol dire continuare la guerra o sottomettersi al più forte, ciò che sta accadendo adesso. In ogni caso tutto dipende dal più forte. E più forte è Israele, che vuole imporre la propria volontà, la propria visione e interpretazione degli accordi al più debole, il quale non può che accettare, o rifiutare e morire. Se rifiuta muore, scompare. Ciò che lascia speranza e che la maggioranza del popolo israeliano, così come i palestinesi, vogliano una pace onesta in cui nessuno sia vinto, umiliato, ma l'attuale governo vuole una pace in cui la parte palestinese venga umiliata, risulti perdente a vantaggio dell'altra parte".

La stanchezza di Arafat

– Lei ha mai avuto occasione di parlare con Netanyahu di queste cose?

"No, ma ho parlato col sindaco di Gerusalemme, che è un amico molto vicino a Netanyahu. Egli è stato da noi per gli auguri di Natale. Gli ho detto: "Dovete cambiare visione, altrimenti è inutile, non avrete la pace". Mi ha risposto che la pace dipende dalla volontà di Arafat. Ho ribattuto: "Non è Arafat che farà la pace, la questione è vostra: voi fate la pace o la guerra. Se ci sarà la pace, voi l'avrete fatta, se non ci sarà la pace, sarete voi i responsabili, non Arafat. È inutile domandare al più debole di fare la pace, vuol dire chiedergli di ubbidire alle vostre richieste. Voi fate la pace o la guerra. Se c'è guerra, voi siete responsabili, e così se c'è pace"".

– Il discorso si è chiuso così?

"Non è arrivata nessuna replica. Nella loro logica il palestinese deve scomparire. Per fare bella figura, dicono che bisogna rispettare, aiutare, dare un'autonomia, ma nel profondo pensano che debba sparire, che non c'è posto in questo territorio per i palestinesi".

– E dove dovrebbero andare i palestinesi?

"Loro dicono che i paesi arabi sono grandi, e quindi che vadano nei paesi arabi. E vorrebbero che questa teoria diventasse anche una prassi. Certo, questa visione non si potrà mai mettere in pratica a meno di compiere un genocidio. Come eliminare due, tre milioni di persone? Sicuramente gli israeliani si trovano in una empasse, e la pace con loro".

– Lei ha avuto occasione durante le feste di Natale di incontrare Arafat. Come l'ha trovato?

"L'ho visto a Natale, è venuto a cena il 24 dicembre. Era stanco, molto stanco, anche fisicamente. Per la situazione, che ammazza chiunque. Egli non può far altro che dire di no o di sì. Se dice sì, muore, ma anche se dice no è finito. Questa è la situazione impossibile in cui si trova adesso. E con lui tutta la popolazione palestinese: una situazione in cui non si può andare né avanti, né indietro".

– Gli americani che parte giocano?

"Nella questione tra Israele e i palestinesi la prima potenza del mondo è Israele, non gli USA. Perciò gli americani non possono fare niente. Non fanno niente. Ai palestinesi domandano semplicemente di accettare le proposte israeliane, ma non dicono agli israeliani di cambiarle".

– E se i paesi arabi, compreso l'Iraq, riconoscessero lo stato di Israele?

"Tutti sono pronti a riconoscere Israele. Adesso si domanda a Israele di fare giustizia: "date i diritti ai palestinesi, lasciate i terreni occupati, in Libano, eccetera". Israele dice: "No, voi volete ammazzarci e perciò noi non lasciamo niente, i territori erano nostri e solo nostri". Il problema è questo: la persistenza di una visione del mondo in cui tutti minacciano Israele; per questo Israele non vuole prendere la vera via della pace, ossia fare giustizia. Perché se i paesi arabi fossero nella stessa situazione di forza di Israele, allora potrebbero essere sì responsabili della pace e della guerra. Ma l'unico forte è Israele. È lui che fa la pace e la guerra".

– L'uscita dal governo del ministro degli esteri che cosa ha comportato?

"Sulla politica generale, non è cambiato nulla. Forse nei rapporti di forza all'interno dei partiti... ma sul corso degli eventi non è cambiato nulla.

– Crede che qualcun'altro seguirà la strada di Levi?

"Non so, ma questi non sono movimenti provocati dalla questione della pace, sono lotte politiche interne, spesso rispondono anche a interessi personali. Toccheranno la pace solo nell'eventualità che tutto il governo venga cambiato, allora sì, si avrà una ricaduta sulla pace. Ma oggi non si sa di che tipo".

Sorrisi dopo gli accordi

– Tutti questi accordi, compreso quello tra Santa Sede e Israele dello scorso novembre, che impressione le fanno come pastore?

"Nei rapporti tra la Santa Sede e Israele giocano due piani. Il primo tra chiesa cattolica e popolo ebraico. E su questo versante la strada compiuta per la riconciliazione è positiva. Poi c'è quello politico, tra Vaticano e Stato d'Israele. E qui la presenza della Santa Sede a livello dello stato è cosa buona, ma il problema è che la maggioranza della popolazione di questo paese non è cosciente di quello che si fa, e quindi a livello di ricaduta sulla vita quotidiana ci sono stati solo alcuni sorrisi di cortesia, ma al fondo nessun cambiamento, almeno finora. Abbiamo viceversa avuto un'occasione di scontro col governo per la diffusione radiofonica, in quanto senza alcuna ragione sono stati aboliti tutti i programmi che riguardano la chiesa cattolica latina. Hanno lasciato i programmi ai melkiti. È certamente un bene che i rapporti siano cordiali, ma quando si scende alle questioni della vita quotidiana le relazioni non sono sempre facili".

– In quest'atmosfera ci si avvia verso la celebrazione del grande giubileo del 2000.

"Sì, il duemila è una meditazione sulla profondità del mistero dell'incarnazione. Non solo celebrazione, non solo festività, non solo giochi o manifestazioni. È Gesù che salva e salva i peccatori. E i peccatori ci sono sempre, siamo noi. Ma viviamo un momento della storia che sembra essere pieno di ingiustizie e di peccato dei popoli: tutta questa egemonia, ingerenza... non c'è più la dignità umana del popolo".

– Neppure per questa occasione si può pensare a una visita del papa?

"Adesso una visita è certo desiderata, tutti la desiderano, ma sussistono ancora molti elementi che ne farebbero un motivo di disputa, non un pellegrinaggio. Speriamo che la situazione dei cuori, se non quella politica, possa cambiare per rendere questa visita possibile. Personalemnte penso che essa sia un diritto: ogni cristiano può fare il suo pellegrinaggio e dunque anche il santo padre deve avere il diritto di farlo, malgrado la situazione e tutte le interpretazioni che se ne possano dare. Aspettiamo e vediamo cosa accadrà".

Le chiese e le religioni

– Poi c'è anche l'aspetto ecumenico, che rende il tutto un po' complicato...

"È vero, perché i rapporti sono sostanzialmente buoni tra le chiese, ma c'è sempre una certa riserva dalla parte della chiesa ortodossa verso la chiesa cattolica. Questa settimana abbiamo un incontro di tutti i patriarchi ortodossi e cattolici del Medio Oriente a Cipro. Sono iniziative nuove, nel senso che vanno avanti solo da cinque o sei anni... C'è un risveglio della coscienza cristiana verso la necessità dell'unità, ma esiste ancora una varietà di visioni anche differenti. Ciascuno riduce Dio alla propria visione umana. Tutti siamo per Dio, ma prima di tutto siamo per noi stessi. Dio è per noi, questo è il problema. Ciascuno difende la sua istituzione, prima di difendere Gesù, Gesù diventa spesso una pretesa per i nostri diritti e per i nostri privilegi. La chiesa dei santi è sopra, è la Gerusalemme del cielo. Ma dal punto di vista ecumenico si può comunque sperare. Il cammino sarà lungo, ma almeno siamo già per via".

– E a questo punto?

"A questo punto continuiamo a vivere nelle mani di Dio e nelle nostre proprie mani, facendo la storia che continua. Ogni giorno preghiamo Dio, che è presente in ogni momento della storia, specialmente in questa terra santa, terra di mistero. Chi non crede in Dio non può capire tutto questo svolgimento degli eventi della storia, che noi non possiamo capire se non all'insegna della croce. Come comprendere altrimenti che tre popoli, tre religioni che lodano lo stesso Dio, amano lo stesso Dio, si offendano? Non è ragionevole, e per chi non crede la religione è causa della guerra. Ma per chi crede c'è un mistero, è il mistero della croce che non si comprende, e che malgrado tutto è per la salvezza del mondo. E forse da questa situazione illogica delle tre religioni insieme può scaturire anche una possibilità di salvezza".


articolo tratto da Il Regno logo

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