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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Piero Stefani

Rilanci di pace

"Il Regno" n. 16 del 1999

La successione di Barak a Netanyahu ha riaperto le trattative per l'attuazione dell'accordo del 1998.
Il Memorandum di Sharm el Sheikh (4 settembre).
Una pace in divenire tra arresti e riprese, la cui conclusione rimane comunque lontana, specie sulle questioni salienti.



Il giudizio più comunemente ripetuto in relazione al Memorandum firmato a Sharm el Sheikh la sera di sabato 4 settembre tra Stato d’Israele e Autorità palestinese (testimoni il presidente egiziano Moubarak, il segretario di stato americano Albright e il giovane re di Giordania, Abdallah) è stato: "un rilancio del processo di pace".

Una delle condizioni della sua effettuazione è stata ovviamente la successione del laburista Barak a Netanyahu a capo del governo israeliano con le elezioni del 17 maggio scorso (cf. Regno-att. 12,1999,393). Non a caso, uno degli impegni assunti, prima e dopo la vittoria, dal nuovo premier era appunto quello di riprendere sollecitamente le trattative con i palestinesi per poi aprire successivamente colloqui anche con la Siria. Tuttavia non tutto può interpretarsi solo alla luce del pur fondamentale cambio di maggioranza.

A rischio di sembrare eccessivamente analitici, se non astratti, vale ugualmente la pena di soffermarsi sulla frase "rilancio del processo di pace"; essa implica innanzitutto che si è di fronte a uno sviluppo in atto ("processo"), il quale, però, subisce ripetuti rallentamenti, o addirittura arresti, cosicché ha bisogno di periodiche riprese ("rilancio"). Ci si trova quindi davanti a una catena in cui ogni accordo (comunque parziale) dipende dai precedenti e implica sempre delle tappe successive. Questa procedura, attraverso fasi di stanca, involuzioni e rinnovati slanci, è in atto fin dal 1993, la data degli "storici" accordi di Oslo poi formalizzati a Washinghton (cf. Regno-att. 18, 1993,527; Regno-doc. 19,1993,640). Alcuni momenti salienti del suo successivo sviluppo sono stati gli accordi di Taba del 1995 (cf. Regno-att 18,1995,527), la firma del Protocollo di Hebron del 1997 (cf. Regno-att. 4,1997,86) e quella del Memorandum di Wye Plantation del 1998 (cf. Regno-att., 20,1998,661).

Gli accordi: dalla storia alla cronaca

Non senza qualche fondamento, Barak, in passato, aveva espresso giudizi non positivi su alcuni aspetti – peraltro regolarmente riproposti nelle successive tappe dell’itinerario sopra indicato – del trattato di Oslo; egli, in particolare, aveva giudicato i vincoli troppo rigidi in relazione alle date delle scadenze previste e troppo vaghi rispetto ai mezzi per conseguire le mete prefissate. In pratica molto spesso gli accordi adottano un discorso di questo tipo: entro la data x le due parti risolveranno il contenzioso y per far ciò avvieranno ulteriori colloqui. Per di più questo procedimento fu più volte adottato anche in relazione a problemi di particolare rilevanza la cui soluzione veniva legata a tempi particolarmente stretti. Si pensi, ad esempio, che in base agli accordi di Oslo lo statuto di Gerusalemme doveva essere discusso e risolto dalle due parti entro il 1996; mentre, come è noto, è ben lungi dal trovare soluzione, né, allo stato attuale, si riesce a individuare una via dotata di qualche possibilità di riuscita. Per questo gli ultimi accordi vanno giudicati un rilancio di un processo di pace di cui non è ancora dato di vedere la conclusione.

In questa intelaiatura generale propria delle trattative israelo-palestinesi, si inseriscono varianti specifiche relative all’esecuzione degli accordi di Wye Plantation, i quali, val la pena ricordarlo, risalgono solo a poco più di dieci mesi fa. Il fatto che i Memorandum si susseguano con tanta frequenza – in altre parole, che si passi sempre più dalla storia alla cronaca – potrebbe costituire anche un positivo dato fisiologico; ma ciò, è ovvio, avverrebbe solo se questo succedersi forse costellato di "sviluppi" e non già di "rilanci". Nel caso specifico non va infatti dimenticato che Netanyahu, dopo aver assunto, a fine ottobre, degli impegni a Wye Pltantion e aver proceduto alle primissime scadenze, già a dicembre aveva congelato l’intero pacchetto dando luogo così a una ennesima fase di stagnazione.

A partire dagli accordi di Taba il territorio cisgiordano è diviso in tre tipi di zone: A (sotto il controllo palestinese), B (sotto l’autorità palestinese, tuttavia in essa Israele conserva la responsabilità della sicurezza), C (sotto il controllo israeliano). Le successive tappe del processo di pace si concentrano, in buona misura, nel far passare progressivamente le zone C in B e B in A.

Oltre alla originaria discontinuità territoriale tra la striscia di Gaza e la Cisgiordania, bisogna dunque tener conto di questa situazione "a pelle di leopardo" che ostacola gli scambi e le comunicazioni e che viene ulteriormente aggrovigliata dalla presenza di numerosi insediamenti di coloni israeliani. La complicazione oggettiva della situazione induce, anche in questo caso, a imboccare la via della gradualità; tuttavia, pure qui, sembra di non riuscire del tutto a sottrarsi al paradosso che quest’ultima procedura sia, a propria volta, causa di ulteriori difficoltà.

Il Memorandum di Wye Plantation verteva in pratica su sette punti: ritiri militari israeliani dalla Cisgiordania; misure antiterroristiche; revisione della Carta dell’OLP (attuata); creazione di una zona industriale a Gaza e apertura di un "corridoio" tra questa zona e quelle poste sotto il controllo palestinese in Cisgiordania; liberazione di detenuti palestinesi da parte israeliana; apertura immediata di negoziati accelerati sullo "statuto definitivo" relativo alle frontiere, a Gerusalemme, ai coloni israeliani e ai rifugiati palestinesi; infine, impegno ad astenersi dal prendere misure unilaterali che modifichino lo status quo.

La dimensione realistica, ma anche i limiti oggettivi del Memorandum di Sharm el Sheikh stanno nel non aver affrontato gli argomenti contenuti nel penultimo punto dell’accordo precedente, cioè gli argomenti in assoluto più impegnativi (frontiere, Gerusalemme, coloni, rifugiati); essi continuano a essere rimandati in avanti, senza, però, venire neppure nominati in modo esplicito in quanto ora ci si limita a parlare di negoziati in relazione allo statuto permanente.

L'accordo di Sharm el Sheikh

Il Memorandum siglato da Barak e Arafat è articolato in undici punti principali. Il primo riguarda i negoziati relativi al raggiungimento dell’accordo per il conseguimento di uno statuto permanente e definitivo, dichiarando che essi verranno fatti tenendo conto delle risoluzioni espresse in proposito dal Consiglio di sicurezza; le parti si impegnano a concluderli entro un anno dalla ripresa dei colloqui che deve avvenire entro il 13 settembre 1999.

Il secondo punto riguarda ulteriori fasi del ridispiegamento: entro il 5 settembre 1999, il 7% della zona A deve passare a quella B, entro il 15 novembre di quest’anno, il 2% dell’area B diverrà A e il 3% di quella C diventerà B; entro il 20 gennaio del 2000, l’1% dell’area C diverrà A e il 5,1% della area B diventerà A.

Un altro punto degli accordi riguarda il rilascio ad opera degli israeliani di quei prigionieri palestinesi che hanno commesso i loro reati prima del 13 settembre 1999 (firma del primo accordo tra Israele e Autorità palestinese); entro settembre-ottobre di quest’anno si prevede il rilascio di 350 prigionieri.

Altri argomenti concernono la nomina di comitati per lo studio di ulteriori ridispiegamenti e di altri temi compresi quelli economici. Inoltre, si stabiliscono dei passaggi di sicurezza per collegare zone poste sotto controllo palestinese e si dà attuazione alla costruzione del porto di Gaza (già previsto l’anno scorso, ma mai passato alla fase esecutiva). Quest’ultimo, al pari dell’aeroporto, sarà posto sotto la responsabilità palestinese e dovrà essere aperto al traffico internazionale.

Un articolo specifico è dedicata a una delle città su cui negli ultimi anni si è registrata la maggior tensione, Hebron (cf. Regno-att., 6,1996,145; 8,1997, 212; 14,1997,423): esso stabilisce le tappe per cui una determinata strada possa essere aperta anche ai veicoli palestinesi; si parla poi dell’accesso palestinese a un determinato mercato e ci si impegna a rivedere lo statuto della Tomba dei patriarchi/Al Haram Al Ibrahimi (il luogo santo sia per ebrei sia per musulmani in cui nel 1994 un colono israeliano fece strage di musulmani in preghiera; cf. Regno-att. 6,1994,175).

Altro punto toccato è quello della sicurezza; in esso si ribadiscono disposizioni precedenti relative alla collaborazione reciproca nella lotta antiterroristica, Si passa poi a parlare di aiuti rivolti allo sviluppo economico palestinese, al riconoscimento della necessità di creare un ambiente favorevole ai negoziati, si ribadisce l’impegno a non variare unilateralmente lo status quo né a Gaza né in Cisgiordania e infine si afferma che gli obblighi concernenti le date saranno posticipati di un giorno se queste ultime cadano di sabato o in altro giorno festivo.

Nuove possibilità

In definitiva, questi ultimi accordi possono essere giudicati, sul piano dei contenuti, una messa in atto più concreta e puntuale del Memorandum pattuito dieci mesi fa, in larga misura finora disatteso. Naturalmente il loro significato può essere più ampio dal punto di vista politico, in quanto essi possono effettivamente far entrare in una fase nuova dando una forte accelerazione al processo di pace. Non a caso Barak ha subito sottolineato la necessità di aprire trattative anche con la Siria, lasciando intravedere, per la prima volta, una certa disponibilità in relazione alla restituzione del Golan.

Gli attentati immediatamente seguiti alla stipula sono apparsi, per certi versi, fin troppo solleciti e sicuramente maldestri nella loro esecuzione per rappresentare un vero pericolo. L’attentatore di Moubarak è stato giudicato dalle stesse autorità egiziane una persona "violenta", ma per nulla collegata all’estremismo islamico; mentre i due attentati in Israele hanno avuto come uniche vittime gli stessi attentatori. Questi ultimi, particolare non trascurabile, sono risultati arabi israeliani (cioè cittadini dello Stato d’Israele) e non palestinesi.

In un altro periodo tale circostanza sarebbe stata giudicata una pericolosa infiltrazione del terrorismo palestinese in seno a Israele; oggi si tende piuttosto a leggervi un segno di debolezza di Hamas e dell’intero fronte terroristico. Appare comunque certo che tutti questi attentati non appaiono dotati di capacità di rappresentare una controspinta al processo di pace il quale è nella situazione di poter essere effettivamente rilanciato. In attesa di saper affrontare i temi più spinosi: frontiere, coloni, rifugiati palestinesi (cioè coloro che hanno abbandonato le loro case fin dalla costruzione dello Stato d’Israele e che, secondo il diritto internazionale, dovrebbero potervi ritornare) e soprattutto Gerusalemme.

articolo tratto da Il Regno logo

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