Costretti a convivere
La pace e la guerra come questioni interne ai due popoli
Dopo circa tre mesi e mezzo dal suo divampare è ormai possibile tentare un raffronto tra la prima Intifada (1987-1993) e la seconda; da questo paragone escono tratti più di diversità che di somiglianza. Quando scoppiò la prima sollevazione popolare palestinese era stato firmato un solo trattato di pace nella regione: quello tra Israele e l’Egitto (1979) e la classe dirigente israeliana, sia laburista sia conservatrice, era ancora fortemente orientata a risolvere la questione attraverso un accordo tra stati (cf. la cosiddetta "opzione giordana"), misconoscendo l’esistenza stessa di un’entità palestinese considerata come soggetto politico autonomo. Uno degli scopi, per questo aspetto largamente conseguito, della prima Intifada fu dunque quello di spostare l’attenzione sui Territori occupati e di legittimare l’OLP come soggetto politico internazionalmente riconosciuto. Gli Accordi di Oslo del 1993 sono quindi, per più di un punto, un frutto anche di quella rivolta. Si può dunque sintetizzare questa vicenda, che, specie nelle sue prime fasi, suscitò una vastissima eco nell’opinione pubblica internazionale (assai superiore all’attuale), affermando che essa sorse a causa della mancanza di un processo di pace israelo-palestinese e terminò con il faticoso avvio di quest’ultimo.
La seconda Intifada
Il primo dato che colpisce della seconda Intifada è il tasso di violenza molto più alto rispetto alla prima, al termine della quale, dopo varie decine di mesi, si contarono 1.500 morti; ora in meno di quattro mesi i morti sfiorano ormai i 400 (cf. Regno-att. 16,2000,530). L’ultima statistica dettagliata a nostra disposizione risale ai primi di gennaio quando i morti erano 367, di cui 310 palestinesi, un tedesco, 56 israeliani tra cui – dato tutt’altro che trascurabile – 13 arabi israeliani.
In sette anni dal suo inizio, il processo di pace non ha dunque avuto la forza di impiantare nella regione, in modo stabile e diffuso, una cultura della pace. Constatazione del resto che non stupisce: non è certo facile credere che una serie di accordi parziali e, in una certa misura, neppure rispettati potessero incidere in profondità in una forma mentis propria di generazioni cresciute per più di mezzo secolo, dall’una e dall’altra parte, in contesti in cui era sempre palpabile la presenza di un’ostilità reciproca. In questo ambito, la pace ha sempre rappresentato l’opzione di una componente, più o meno consistente, dell’opinione pubblica sia israeliana sia palestinese e non già l’espressione della volontà generale dei due popoli.
Tuttavia rimane vero che la seconda Intifada è indice del fallimento di un processo di pace e non già della sua mancanza; il che si riflette nell’affermazione secondo cui la sua cessazione deve passare attraverso una ripresa dei colloqui. Le gravi violenze già avvenute e persino quelle, forse ancor più estese, che potrebbero verificarsi in un prossimo futuro possono infatti incrinare, ma non travolgere dalle fondamenta, il quadro di fondo tracciato ufficialmente a Oslo, stando al quale i due popoli sono costretti a convivere. La via dell’espulsione praticata o auspicata nei primi anni di vita dello Stato d’Israele, in cui i palestinesi potevano essere allontanati e confinati nei campi del mondo arabo e in cui gli ebrei israeliani avrebbero dovuti essere ricacciati a mare, si presenta attualmente come un’opzione non più proponibile neppure a livello della propaganda più radicale.
Lo scoppio della rivolta a fine settembre è uno dei non pochi esempi in cui la capacità di previsioni della diplomazia internazionale e degli stessi dirigenti politici locali è risultata non all’altezza della situazione. Il nulla di fatto dei colloqui estivi di Camp David, per quanto fattore certamente negativo, non bastava per immaginare a così breve scadenza uno scoppio di violenza tanto esteso. Le stesse considerazioni valgono per la provocatoria passeggiata del leader della destra israeliana Ariel Sharon sulla spianata del Tempio e delle Moschee, chiaramente progettata come un segno da situarsi nel contesto della politica interna israeliana e non per essere la miccia di innesco della seconda Intifada palestinese.
Le modalità improvvisa e spontanea con cui quest’ultima è sorta ne sottolineano due tratti iniziali: il suo carattere islamico e il presentarsi come una forma di protesta diretta anche contro l’attuale dirigenza dell’OLP. La qualificazione islamica qui indica una marcata diversità da un orientamento di tipo fondamentalista (o islamista come a volte si dice con un gergo tributario alla ricerca francese), il quale, almeno all’inizio, non ha giocato un ruolo significativo nella rivolta. La natura islamica dell’Intifada attesta piuttosto la presenza di un corale attaccamento da parte araba a un luogo simbolico, la spianata delle Moschee che, negli attuali frangenti, diventa funzionale pure alla rivendicazione nazionale palestinese.
In secondo luogo, lo scoppio della seconda Intifada all’origine è stato diretto anche contro Arafat, la cui immagine si è fortemente logorata nel corso di trattative di pace troppo lunghe e deludenti per non far giudicare eccessive e inopportune almeno alcune delle concessioni già compiute. Ciò è particolarmente vero a fronte di un livello di vita che, già prima della catastrofe economica di questi ultimi mesi, appariva in fase declinante. L’Autorità palestinese per il suo funzionamento dipende da una serie di finanziamenti di provenienza straniera, essenzialmente europea; si calcola che Arafat, per stabilire e mantenere la sua autorità e crearsi una clientela, abbia stornato, pur senza cercare un diretto arricchimento personale, in questa direzione una parte consistente degli aiuti internazionali (si parla di un 20-25%); operazione non nuova in campo politico, ma che può anche suscitare un forte malcontento specie in periodi di recessione.
Alcuni osservatori hanno inoltre notato che sullo scoppio della rivolta può aver avuto un certo influsso anche il ritiro, deciso da Barak all’inizio del 2000, delle truppe israeliane dal sud del Libano, a monte del quale vi è stata anche una prolungata opposizione degli abitanti della zona.
Il carattere inizialmente popolare della sollevazione non toglie che, con il passare del tempo, l’Intifada abbia assunto anche altri risvolti, tra cui si segnalano il ritorno sulla scena del terrorismo e gli scontri avvenuti tra polizia palestinese e esercito israeliano.
Il vicolo cieco
Le ragioni del vicolo cieco in cui è andato a finire il processo di pace sono molteplici e si affiancano al già citato fattore primario della scarsità dei benefici concreti registrati in questi ultimi anni nella condizione di vita dalla popolazione palestinese. Le autorità israeliane, a cominciare da quelle laburiste al governo allora, non dopo la guerra dei sei giorni (1967), seguirono il consiglio di quello sparuto numero di intellettuali che invitava loro a "liberarsi dai territori", anzi hanno costantemente favorito, o almeno consentito, un progressivo diffondersi di insediamenti ebraici nella Cisgiordania e nella striscia di Gaza.
La tutela di questa diffusa presenza a pelle di leopardo di 200.000 coloni ebrei nella zona su cui si dovrà costituire il futuro stato palestinese ha rallentato il processo di pace e ha appesantito gli accordi con una serie di precisazioni variegate e puntigliose; ed è ovvio che tanto più numerose sono le clausole tanto più difficile diviene osservarle nella loro interezza. D’altra parte la necessità di quasi tutti i governi israeliani di salvaguardare maggioranze sempre numericamente risicate e politicamente condizionate presenti in Israele si è sovente riflessa nella scelta tattica di non ottemperare nei tempi stabiliti a una serie di impegni già sottoscritti.
Inoltre il processo di pace ha dato luogo a una specie di paradosso obiettivo: da un lato l’acquisizione di una crescente autonomia da parte dei palestinesi comporta un’ulteriore separazione tra i due popoli, mentre dall’altro lo sviluppo economico della zona esige una loro crescente integrazione. Significativamente il blocco dei territori, misura presa dal governo israeliano in più occasioni e ininterrottamente in vigore fin dallo scoppio della seconda Intifada, ha ripercussioni economiche gravissime, bloccando l’accesso della numerosa manodopera palestinese che lavora nello Stato d’Israele. A questo fattore vanno aggiunti i danni ingentissimi causati per entrambe le parti dalla caduta verticale dell’afflusso turistico. Irrisolto resta anche il problema di una più equa ridistribuzione delle risorse naturali, specie quelle idriche, di capitale importanza in tutta la regione, rispetto alla quale la popolazione palestinese rimane tuttora fortemente penalizzata.
Sull’arresto del processo di pace ha certamente pesato anche il mancato completamento della serie degli accordi sottoscritti tra Israele e gli stati arabi confinanti. Infatti se quello con l’Egitto (1979), come si è ricordato, aveva preceduto la prima Intifada, quello con la Giordania lo ha seguito (1994); ma, nonostante vari tentativi, l’anello non si è completato sul fronte fondamentale della Siria.
Gerusalemme capitale
Un peso assai notevole va comunque attribuito all’attuale impossibilità di dilazionare ulteriormente i due capitoli simbolicamente più rilevanti del contenzioso: lo statuto di Gerusalemme e la questione dei rifugiati (non a caso proprio su questi due punti si erano incagliati i defatiganti colloqui di Camp David dell’estate scorsa). La specularità della simbologia di Gerusalemme è facilmente comprensibile; tuttavia va sottolineato che, oltre a una componente religiosa, ve ne è una fortissima di carattere nazionalistico, aspetto che, da parte israeliana, trova riscontro nella legge votata nel 1980 dalla Knesset, in base alla quale Gerusalemme è stata proclamata capitale unica e indivisibile dello Stato d’Israele.
Anche nel caso dei profughi palestinesi, però, la componente simbolica gioca un ruolo di alto profilo. Nessuno dal punto di vista pratico ritiene possibile il reinserimento nello Stato d’Israele di 3.700.000 persone (gli arabi scacciati o allontanatisi – secondo la retorica politica delle due parti – da Israele nel 1948 e i loro discendenti, una parte dei quali risiede ora entro i territori dell’Autorità palestinese).1
Si tratta di una questione di principio giocata su due versanti: uno sul piano della legittimazione internazionale in relazione alla risoluzione 194 dell’ONU, che sancisce il diritto al ritorno dei rifugiati; l’altro, meno formale (ma forse psicologicamente più influente), si trova nel fatto che il tema dei rifugiati è il corrispettivo palestinese che si può contrapporre a una delle leggi più qualificanti lo Stato d’Israele, quella del ritorno. Questa norma, risalente al 1950, stabilisce che ogni ebreo del mondo ha il diritto di immigrare in Israele e di diventarne cittadino. Mantenere aperta in linea di principio la questione dei rifugiati equivale perciò a rendere la Palestina – al di là dei confini effettivamente amministrati dall’Autorità palestinese o dallo stato futuro – la terra di origine pure in sede di diritto di tutti i palestinesi, anche di quelli che attualmente vivono nella diaspora.
La diplomazia internazionale
L’Europa, presenza economicamente rilevante nella regione, dal punto di vista politico è stata, in tempi recenti, assai poco rappresentativa. Gli Stati Uniti invece sono stati tenacemente attivi: in particolare il presidente Clinton ha tentato di chiudere il proprio doppio mandato presidenziale con un grande successo di politica estera proprio in quell’area. La stipula di un trattato si presentava anche come l’ultima carta da giocare da parte del premier israeliano Barak per avere qualche speranza di rielezione nelle prossime elezioni del 6 febbraio. Dal canto suo la leadership di Arafat, pur dovendo tenere per forza alto il prezzo dell’accordo, aveva anch’essa bisogno di un successo.
L’accordo però, che prevedeva tra l’altro una sovranità palestinese estesa a circa il 95% della Cisgiordania e al 100% della striscia di Gaza, non c’è stato. Una delle ragioni di questa mancata intesa è il parziale scambio, previsto dalla proposta americana, tra i due temi simbolici prima enunciati: la rinuncia totale da parte palestinese al ritorno dei profughi doveva essere compensata con una sovranità palestinese estesa su una parte di Gerusalemme che includesse anche la spianata delle Moschee.
La delicatezza di quest’ultimo punto è posta in rilievo dal fatto che la stessa bozza proposta dal presidente americano presentava in partenza due formulazioni alternative da sottoporre alle due parti. La prima prevedeva la sovranità palestinese sul Nobile santuario (cioè la spianata delle Moschee su cui è ubicato anche il non individuato luogo dove sorgeva l’antico Santo dei santi) e sul sottostante Muro occidentale (luogo santo per gli ebrei in quanto resto del Tempio, ma anche per i musulmani, che lo chiamano Muro di Buraq, leggendario cavallo collegato al viaggio notturno di Maometto); la seconda ipotesi contemplava una sovranità palestinese sul Nobile santuario, una sovranità israeliana sul Muro occidentale e una sovranità funzionale israelo-palestinese a proposito degli scavi sopra il Nobile santuario o dietro il Muro, il che avrebbe comportato che, prima ogni lavoro di scavo, fosse necessario un accordo reciproco.
Che i due popoli siano costretti, nonostante tutto, a convivere è dimostrato anche dal fatto che la violenza repressiva non riesce ormai più a venire a capo della questione. D’altra parte gli stessi interessi di Israele, compresi quelli economici, non consentono un blocco a tempo indeterminato dei territori. È stato giustamente osservato che, in altre aree, una situazione di questo tipo è avvenuta nelle fasi che precedettero immediatamente la decolonizzazione e il conseguente raggiungimento di una piena indipendenza delle popolazioni fino allora sottomesse. La creazione di uno stato palestinese dotato di piena indipendenza e sovranità è stata individuata da molto tempo come un passaggio obbligato per il conseguimento della pace nella regione; tuttavia, esso potrà reggersi solo se sarà dotato di risorse economiche adeguate, prospettiva a sua volta del tutto inattuabile senza la normalizzazione di un fitto e quotidiano scambio di risorse con la società israeliana.
Questo esito potrà essere conseguito solo se, accanto ai negoziati, si rafforzerà e si estenderà una cultura di pace che indichi strade concrete per il conseguimento di riconciliazioni personali e collettive in grado di togliere, poco a poco, l’odio dai cuori. Inutile sottolineare che proprio questo dovrebbe essere il terreno peculiare su cui le molte comunità religiose presenti nella regione sono chiamate a operare (senza con ciò nulla togliere al coraggio e al merito di chi si prefigge il raggiungimento di simili obiettivi attraverso vie "laiche"). Purtroppo però non è affatto certo che, nel loro complesso, esse siano in grado di assolvere in modo efficace a questo immane compito.
1 Al 30 giugno 2000 la distribuzione dei rifugiati palestinesi era esattamente la seguente: 1.570.192 in Giordania; 824.622 a Gaza; 583.009 in Cisgiordania; 383.199 in Siria; 376.472 in Libano.