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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Paolo Pieraccini

I Luoghi santi e la pace negata

Fonte: "Il Regno" n. 2 del 2002

Vi è una correlazione tra la geografia dei Luoghi santi, nella Terra santa, e la geografia del conflitto israelo-palestinese. I Luoghi santi, il loro possesso e la loro gestione, il richiamo strumentale o fondamentale al loro significato storico e simbolico contrassegna, dalla "Guerra dei sei giorni" ogni rapporto in Palestina e in Israele. Gerusalemme in particolare, luogo sacro per ebraismo, islam e cristianesimo, è al centro di questa relazione conflittuale. Ogni tentativo di accordo di pace e ogni rottura di quel processo trova qui la sua giustificazione.

Ripercorriamo i tratti significativi recenti, sino a oggi, di questa geografia del conflitto e dei tentativi di pace. Ne abbiamo fissato l'inizio nell'assassinio del premier israeliano Rabin, 4 novembre 1995.

Non è solo una data simbolica. È un giudizio storico sul mutamento dei rapporti tra Luoghi santi e la ricerca della pace.

Il 4 novembre 1995 si consumò una delle più grandi tragedie della storia d'Israele: l'assassinio di Yitzhak Rabin. L'omicida – appartenente a un movimento che si rifaceva all’ideologia kahanista – affermò di aver agito su comando divino, convinto che la legge religiosa consentisse di uccidere sia chi mette in pericolo vite umane ebraiche (Rabin firmando gli accordi era accusato di non essersi preoccupato della sicurezza dei coloni), sia chi si macchia della grave colpa di abbandonare in mano ai "gentili" la Terra d'Israele e i suoi Luoghi santi; un fattore, questo, che impediva al popolo ebraico il raggiungimento della vera fede, ostacolando in tal modo l'avvento del periodo messianico.1

L'intesa tra Beilin e Abu Mazen

Il crimine, probabilmente, mutò in maniera radicale la storia di questa tormentata regione. Quattro giorni prima, infatti, il vice ministro degli esteri Yossi Beilin e il numero due dell'OLP Abu Mazen avevano raggiunto un'intesa che avrebbe dovuto servire come base per i colloqui sullo status finale.2 Rabin e Arafat – con il consenso dei quali i colloqui erano iniziati un anno e mezzo prima – avrebbero fatto delle disposizioni di quest'intesa un'importante base per le future trattative di pace. Invece il nuovo premier Shimon Peres, temendo che l’accordo non sarebbe stato gradito all'elettorato israeliano, preferì mantenerlo segreto. Di fronte a questa reazione i palestinesi, quando trapelarono le prime indiscrezioni sull’intesa, dichiararono che quando Abu Mazen l’aveva sottoposta ad Arafat quest’ultimo aveva rifiutato di approvarla.

L’intesa prevedeva che stato ebraico e stato palestinese si riconoscessero reciprocamente, il primo con capitale Yerushalayim e il secondo con capitale al-Quds (art. 1). Gerusalemme sarebbe rimasta una città aperta e indivisa, con libero accesso per gli individui di ogni credo e nazionalità. I limiti municipali sarebbero stati estesi ad includere i villaggi arabi di Abu Dis, Eyzariya, ar-Ram e az-Zaim e gli insediamenti ebraici di Ma’ale Adumim, Givat Ze'ev e Givon. La "City of Jerusalem" così ottenuta – che avrebbe compreso la parte ovest di Gerusalemme e mantenuto la proporzione demografica di 2 a 1 in favore della popolazione ebraica – sarebbe stata amministrata da un "Joint Higher Municipal Council" eletto dai cittadini di entrambe le parti della città. Sarebbero state inoltre formate due sub-municipalità, elette separatamente dagli abitanti del quartieri israeliani e palestinesi, alle quali sarebbero stati delegati importanti poteri amministrativi, come la tassazione, i trasporti pubblici, la gestione del sistema educativo e la pianificazione abitativa e del territorio. L'OLP avrebbe riconosciuto la parte amministrata dalla sub-municipalità ebraica come capitale dello stato ebraico (Yerushalayim). Quest'ultimo avrebbe riconosciuto la parte amministrata dalla sub-municipalità araba come capitale dello stato palestinese (al-Quds).

La sovranità sulle restanti sezioni della città – in pratica la parte orientale della città – sarebbe stata determinata da un comitato israelo-palestinese da formarsi entro il 5 maggio 1999. Le parti avrebbero riconosciuto la specificità del ruolo religioso e spirituale di Gerusalemme per le tre religioni monoteistiche, impegnandosi a garantire libertà d’accesso e di culto ai Luoghi santi. Alla città vecchia sarebbe stato garantito uno speciale status, affidando alle due sub-municipalità la responsabilità per le questioni municipali riguardanti i rispettivi cittadini. Questi due organi avrebbero nominato un "Joint Parity Committee" per l'amministrazione delle materie relative alla preservazione del carattere unico di quest'area. Allo Stato di Palestina sarebbe stata riconosciuta "sovranità extraterritoriale" sull'Haram al-Sharif – con uno status simile a quello di un'ambasciata o di una basilica vaticana –, la cui amministrazione sarebbe stata affidata all'Awqaf di al-Quds. Sul sito sarebbe stato mantenuto lo status quo riguardo al diritto d’accesso e di culto. La chiesa del Santo Sepolcro sarebbe stata invece amministrata dalla sub-municipalità palestinese; tuttavia, il "Joint Parity Committee" avrebbe esaminato in seguito la possibilità di assegnare anche a questo santuario uno status extraterritoriale. Il controllo dei beni e delle persone sarebbe avvenuto ai punti di uscita della "City of Jerusalem" così creata (art. VI).

Gli insediamenti densamente popolati – tra i quali figuravano Ariel, Ma'ale Adumim, Efrat, Ma'ale Efraim, Beit El e Kiryat Arba – sarebbero stati annessi a Israele. I palestinesi sarebbero stati compensati con un territorio nel Negev, non necessariamente della medesima grandezza, contiguo alla striscia di Gaza. Gli insediamenti più piccoli sarebbero rimasti sotto sovranità ebraica per un periodo non superiore a 20 anni. I coloni che avessero scelto di rimanere entro le frontiere dello stato palestinese sarebbero stati soggetti alla sovranità palestinese. A coloro che avessero avuto il domicilio permanente entro lo Stato di Palestina al 5 maggio 1999 sarebbe stata offerta la possibilità di divenire cittadini palestinesi o rimanere "alien residents" (art. V). Riguardo ai rifugiati, i palestinesi prendevano atto che lo stato di fatto creatosi a partire dal 1948 rendeva impossibile il loro diritto al ritorno. Lo stato ebraico, dal canto suo, riconosceva il diritto alla compensazione e alla riabilitazione per le perdite morali e materiali dei profughi e al loro ritorno nel territorio del futuro stato palestinese (art. VII).3

Il governo Netanyahu e i primi gravi ostacoli al processo di pace

Nonostante la morte di Rabin, il processo di pace non si arrestò. Shimon Peres ordinò il previsto ritiro dalla Cisgiordania, che si concluse alla fine di dicembre con l'evacuazione da Betlemme e da Ramallah. I palestinesi annunciarono che quest'ultima città sarebbe divenuta la loro capitale provvisoria, in attesa di ottenere un loro stato indipendente con Gerusalemme come centro politico e spirituale. Anche l'anno 1996 si aprì lasciando adito alle migliori speranze. A metà gennaio le elezioni per il Consiglio nazionale palestinese diedero ai candidati di Arafat circa i tre quarti dei seggi. La legittimazione ottenuta dal leader dell'OLP sembrava un primo passo verso la formazione di uno stato palestinese.

Nel frattempo, in Israele era iniziata la campagna elettorale. All'inizio, il tema di Gerusalemme fu di gran lunga il più dibattuto, date le molte indiscrezioni filtrate sull'intesa Beilin-Abu Mazen. Tuttavia, una serie di sanguinosi attentati dei fondamentalisti islamici nel cuore di Israele fecero divenire dominante il tema della sicurezza e la destra – che parve meglio garantire questa esigenza – il 29 maggio vinse le elezioni. Il nuovo primo ministro – Benjamin Netanyahu – strinse un patto di ferro con le varie formazioni nazionaliste e religiose. Nel suo primo discorso il premier affermò che il governo avrebbe agito basandosi sulla premessa che il diritto del popolo ebraico alla Terra d'Israele era eterno e incontestabile. Gerusalemme unita sarebbe rimasta per sempre sotto la sovranità israeliana, con garanzia di libertà d’accesso e di culto ai seguaci di tutte le fedi religiose. Gli insediamenti nei territori occupati sarebbero stati ampliati e sviluppati; il loro collegamento con lo Stato d'Israele sarebbe stato garantito e il governo avrebbe continuato a ritenersi responsabile per essi e per i loro residenti. Le trattative di pace con l'Autorità palestinese non avrebbero portato alla nascita di uno stato palestinese né al ritorno della popolazione araba in Terra d'Israele.4

Un importante test delle intenzioni della nuova coalizione fu la questione di Hebron. La città, secondo gli Accordi di Oslo II, già alla fine di marzo avrebbe dovuto passare in parte sotto il controllo palestinese. Ma Shimon Peres aveva deciso di ritardare l'evacuazione, nella speranza di orientare in suo favore l'elettorato religioso. Alcuni membri del nuovo governo dichiararono che Israele non avrebbe abbandonato la città dei patriarchi, perché si sarebbe trattato di un crimine nei confronti del giudaismo, degli interessi nazionali e della sicurezza dello stato. Nei mesi successivi – nonostante il premier assicurasse di voler rispettare gli accordi ereditati dalla precedente compagine governativa – risultarono vane perfino le reiterate pressioni dei dirigenti statunitensi.

Questo intransigente atteggiamento – che si aggiunse a una forte accelerazione della politica di colonizzazione,5 alla continua requisizione di terre e alle gravi difficoltà economiche determinate dalla chiusura dei territori occupati –,6 portò presto la popolazione araba all'esasperazione. Arafat organizzò preghiere pubbliche e scioperi di protesta. Alla fine di agosto invitò tutti i palestinesi a partecipare in massa alla preghiera del venerdì sulla spianata delle moschee e alla messa domenicale al Santo Sepolcro. Egli intendeva dare un segnale della capacità di mobilitazione e dell'unità del suo popolo e dimostrare al mondo che gli israeliani, continuando a tenere chiusi i territori occupati, impedivano agli arabi il diritto d’accesso ai Luoghi santi. Tuttavia, questa strategia non ebbe successo. Il 4 settembre, quando Netanyahu si risolse a incontrare Arafat, la questione del ridispiegamento da Hebron non fu nemmeno presa in considerazione. Il leader israeliano presentò una lunga serie di richieste al rais, al quale non fece intravedere la minima speranza di poter raggiungere un accordo di pace.

L’apertura della seconda uscita al tunnel archeologico

La frustrazione dei palestinesi esplose quando Netanyahu decise di aprire, la notte tra il 23 e il 24 settembre, una seconda uscita al tunnel archeologico lungo il Muro occidentale. I lavori erano stati completati da due anni ma Rabin, conscio della delicatezza della questione – desideroso di non urtare la sensibilità religiosa dei palestinesi nel momento in cui erano in corso le trattative di pace – aveva preferito congelare la situazione. Nel gennaio 1996 il governo Peres aveva raggiunto un accordo con le autorità musulmane del Waqf: in cambio dell'acquiescenza palestinese all'apertura del tunnel sarebbe stato permesso il completamento dei lavori per una nuova moschea nel sotterranei dell'Haram al-Sharif.7 Ma gli attentati che seguirono consigliarono di nuovo di soprassedere, nel timore di un'ulteriore escalation di violenze. Appena formato il governo di destra, importanti esponenti nazional-religiosi avevano iniziato a far pressione su Netanyahu affinché sbloccasse la situazione. Il premier raccolse subito l’invito e affermò che con quel gesto intendeva di far comprendere ai palestinesi che lo Stato d'Israele godeva di sovranità esclusiva su tutta Gerusalemme.8

Arafat replicò che con quell'atto erano stati violati gli accordi di pace, secondo i quali nel periodo interinale non si sarebbero potuti apportare mutamenti alla fisionomia della Città santa. Poi diede alla questione una connotazione puramente religiosa, dichiarando che non era possibile assistere inerti alla giudaizzazione di Gerusalemme e gridando al sacrilegio della religione musulmana e dei suoi Luoghi santi.9 Venne anche riesumato l'antico tema della volontà ebraica di distruggere i santuari islamici per riedificare il Terzo tempio. Fu ancora una volta la religione – unita stavolta a un uso spregiudicatamente politico dell'archeologia – a provocare la scintilla che diede il via a nuovi sanguinosi scontri. I palestinesi attaccarono gli insediamenti, i Luoghi santi isolati e gli avamposti dell'esercito. In risposta, le forze di sicurezza israeliane penetrarono con mezzi militari di ogni tipo nei territori dell'Autonomia, aprendo il fuoco sugli assalitori.

La tomba di Giuseppe e l'attigua yeshiva – simbolo concreto dell’occupazione militare israeliana – furono prese d'assalto dalla popolazione araba di Nablus e dagli stessi poliziotti palestinesi che avrebbero dovuto garantirne la sicurezza. La guarnigione militare, asserragliata all'interno, si difese accanitamente rispondendo al fuoco. I tentativi di soccorso si scontrarono con infinite difficoltà, a causa del pesante fuoco palestinese sui militari, sei dei quali rimasero uccisi. I palestinesi penetrarono all'interno del complesso, profanando libri di preghiera e altri oggetti religiosi e issando la loro bandiera sulla sua sommità. Infine, dopo la minaccia israeliana di invadere Nablus con i carri armati, la polizia palestinese impose il coprifuoco alla città e rilasciò i militari israeliani. L'ordine iniziale del ministro della difesa Yitzhak Mordechai di evacuare la tomba non fu eseguito, a causa delle pressioni degli altri ministri su Netanyahu. Così gli israeliani, imponendo il rispetto degli accordi di pace, insediarono un nuovo distaccamento militare nel santuario.

Anche la Tomba di Rachele fu teatro di gravi scontri. Tuttavia la situazione non degenerò in tragedia, perché quel luogo santo era meglio raggiungibile e difendibile. Gravi incidenti, simili a quelli verificatisi sei anni prima, avvennero invece sulla spianata del Tempio, dove persero la vita due israeliani e sei palestinesi. In tre giorni di violenti scontri il numero dei morti arrivò a 85 (70 dei quali palestinesi), mentre oltre 1.500 furono i feriti; il bilancio più tragico dalla guerra del 1967.

Il 27 settembre, in un discorso all'ONU, il ministro degli esteri israeliano David Levy affermò che il tunnel non aveva alcun significato politico o religioso. L'attribuzione di una connotazione religiosa alla sua apertura aveva avuto il solo obiettivo di infiammare gli animi, per costringere Israele a fare concessioni in sede di trattative di pace. Il governo israeliano aveva aperto una seconda uscita solo per permettere a molti più turisti e pellegrini di visitare il sito; un provvedimento che avrebbe portato benefici anche agli abitanti del quartiere musulmano, dove sarebbero usciti centinaia di visitatori al giorno. Il Waqf era stato preventivamente informato delle intenzioni del governo. Il tunnel – volle anche precisare Levy – non correva affatto sotto il monte del Tempio e non toccava in nessun modo le moschee e le loro fondamenta.10

Il giorno successivo il Consiglio di sicurezza dell'ONU adottò la risoluzione 1073, i cui toni molto moderati permisero anche agli Stati Uniti di votarla. Il documento manifestava preoccupazione per i Luoghi santi, per le difficoltà che incontrava il processo di pace e per il deterioramento della situazione, incluso l'impatto sulle condizioni di vita del popolo palestinese; domandava l'immediata revoca di tutti gli atti che avevano contribuito ad aggravare la situazione, chiedeva che fosse assicurata la sicurezza e la protezione dei civili palestinesi e auspicava l'immediata ripresa dei negoziati.11

L'accordo su Hebron

In seguito a questi eventi e alle conseguenti pressioni internazionali, Netanyahu si vide costretto a firmare l'accordo su Hebron (15 gennaio 1997). Israele avrebbe mantenuto l'esercito nel 20% della città (area H-2), che oltre a 450 coloni comprendeva anche quasi 20.000 abitanti palestinesi. In questa zona rientravano gli insediamenti e la maggior parte dei Luoghi santi: la sinagoga Avraham Avinu, le sacre tombe di Ruth e Jesse, la tomba di Avner e, soprattutto, quella dei patriarchi. Riguardo a quest'ultimo santuario, neanche questa volta fu possibile raggiungere un'intesa. Arafat, infatti, insisteva affinché il controllo interno ed esterno fosse spartito tra militari palestinesi e israeliani, mentre Netanyahu non intendeva cedere su questo punto. Così si decise di lasciare per il momento ambedue gli accessi della tomba sotto il controllo dell'esercito israeliano e di discutere della questione tre mesi dopo il ridispiegamento.

Riguardo ad alcuni Luoghi santi ebraici posti all'interno della zona palestinese (H-1) – il sito delle querce di Mamre e la tomba di Otniel Ben Kenaz –, il libero accesso sarebbe stato garantito mediante l'impiego di pattuglie miste. Queste avrebbero anche controllato una larga fetta di territorio prospiciente la zona di confine tra le due parti della città, in particolare le colline sovrastanti gli insediamenti. Sarebbero stati riaperti l'importante mercato all'ingrosso Hasbahe e l'arteria principale di Hebron – la via Shuhada –, che correva in prossimità degli insediamenti posti nel centro della città.

Molti palestinesi considerarono questo accordo una totale resa. Esso poteva costituire un modello per successive intese che, lasciando sussistere gli insediamenti israeliani nella Cisgiordania, avrebbero fatto del loro futuro stato un'entità disomogenea e frammentata. Inoltre, per mantenere forzatamente un manipolo di coloni armati a Hebron, era stato lasciato al controllo israeliano il cuore religioso e commerciale della città e un elevato numero di abitanti palestinesi. Dallo schieramento nazional-religioso ebraico si udirono alti lai per la divisione della città. Molti rabbini vollero ribadire che il significato spirituale di Hebron era appena inferiore a quello di Gerusalemme e accusarono Netanyahu di aver prefigurato un modello per la futura divisione della Città santa.12

La politica degli insediamenti a Gerusalemme

Netanyahu, di fronte alle proteste della destra religiosa e nazionalista per la perdita di gran parte della città del patriarchi, fu costretto a mostrare fermezza sulla questione di Gerusalemme. Il 22 gennaio 1997 il suo governo decise di dare il via libera alla costruzione di un grande insediamento a Jabal Abu Ghunaym, una collina posta all'interno dei confini municipali di Gerusalemme, a metà strada tra Betlemme e la parte sud-orientale della città. Il nuovo grande quartiere13 – denominato Har Homa – avrebbe completato l'accerchiamento della parte araba della Città santa, isolandola definitivamente dal resto dei territori occupati.

I palestinesi definirono l'iniziativa l'ennesima espressione della politica del fatto compiuto, che mirava a mutare il carattere demografico e geografico di Gerusalemme. Essa violava gli Accordi di Oslo e aveva il chiaro intento di escludere la parte orientale della città da qualsiasi accordo finale.14 Arafat cercò il sostegno della comunità internazionale e del mondo arabo. Forzando un po' le argomentazioni egli dichiarò che Jabal Abu Ghunaym – oltre a essere la porta d’accesso a Betlemme – era adiacente ai Luoghi santi islamici della spianata, che gli israeliani volevano isolare per potersene impadronire più facilmente. Il rais rievocò ancora una volta lo spettro della distruzione della "prima Qibla e della terza sacra moschea" e aggiunse che, tra gli altri obiettivi, Israele aveva quello di attentare all'integrità dei Luoghi santi cristiani.15

La risposta di Netanyahu fu l'avvio del cantiere ad Har Homa (18 marzo). Contemporaneamente, riguardo alla prima fase del ridispiegamento prevista negli accordi su Hebron, il premier avanzò una proposta completamente inadeguata rispetto alle aspettative palestinesi. Tutto ciò provocò una grave crisi nelle trattative di pace. Manifestazioni di protesta sfociarono presto in gravi scontri tra dimostranti e soldati israeliani, che durarono oltre due mesi e causarono la morte di otto palestinesi e tre israeliani, oltre a un migliaio di feriti.16

Di fronte alla paralisi del Consiglio di sicurezza – bloccato dal veto degli Stati Uniti – l'Assemblea generale il 25 aprile votò la risoluzione ES-10/2, estremamente critica verso lo stato ebraico. Essa dichiarava che le ripetute violazioni del diritto internazionale e il mancato conformarsi di Israele agli accordi raggiunti minavano il processo di pace; riaffermava che tutte le misure amministrative e legislative prese per alterare lo status e la composizione demografica di Gerusalemme erano prive di validità, domandandone l'immediata e piena cessazione; sottolineava il bisogno di preservare l'integrità di tutti i territori palestinesi occupati e di garantire la libertà di movimento di persone e beni su tali territori; raccomandava infine che una giusta e durevole soluzione della questione di Gerusalemme includesse garanzie internazionali in grado di assicurare libertà di religione e di coscienza dei suoi abitanti e libero accesso ai Luoghi santi per i fedeli di tutte le religioni e nazionalità.17

Nel corso dell'estate i fondamentalisti islamici scatenarono i primi gravi attentati terroristici dell'era Netanyahu. Il segretario di stato americano Madeleine Albright domandò ai palestinesi di lottare seriamente contro il terrorismo e a Israele di porre termine alla politica degli insediamenti, alla confisca di terre, alla demolizione di case e alla requisizione di carte d'identità.18 Netanyahu – che desiderava far cadere l'impalcatura degli Accordi di Oslo e avviare immediatamente i negoziati sullo status finale – rispose negativamente a ognuna di queste richieste. Gli israeliani non avrebbero effettuato nemmeno il primo dei tre ridispiegamenti previsti nella parte finale dell'accordo su Hebron, fino a che i palestinesi non avessero dimostrato la volontà di lottare seriamente contro il terrorismo.

All'indomani della fallimentare visita del segretario di stato americano la Commissione distrettuale per la pianificazione urbanistica diede il via libera definitivo al progetto di Ras al-Amud, che prevedeva per la prima volta la costruzione di un insediamento ebraico all'interno di un centro abitato palestinese (132 appartamenti). Per giustificare quest'impresa dal punto di vista religioso i coloni affermarono che il sobborgo di Ras al-Amud era situato sulle pendici meridionali del monte degli Ulivi e fronteggiava il monte del Tempio. Esso doveva considerarsi un'estensione dell'attiguo cimitero, il più grande e il più sacro agli ebrei perché costruito in prossimità del luogo che sarebbe stato teatro del giudizio universale. Al di là delle motivazioni religiose, tuttavia, il sito era ritenuto importante perché s’interponeva tra il villaggio di Abu Dis – che secondo l'intesa Beilin-Abu Mazen sarebbe dovuto divenire la capitale del futuro stato palestinese – e il monte del Tempio, che il medesimo accordo avrebbe dovuto lasciare in mano islamica.

Questa nuova provocazione fu resa possibile dagli "investimenti politici" del milionario americano Irvin Moskovitz – grande finanziatore di Ateret Cohanim –19 e grazie all'approvazione del sindaco Ehud Olmert, smanioso di sfidare la leadership di Netanyahu. L'iniziativa, perciò, non rientrava in un quadro di programmazione centralizzata com'era nel caso di Har Homa. Questo nuovo insediamento era solo parte di un grande schema elaborato da partiti e organizzazioni dell'estrema destra israeliana, il cui obiettivo era stabilire una presenza ebraica costante e ininterrotta a Gerusalemme Est. Il successivo obiettivo fu, infatti, l'insediamento di 350 famiglie in Abu Dis. Alle abitazioni che già da tempo possedeva nel villaggio l'onnipresente Moskovitz, si sarebbe dovuto aggiungere un insediamento di 280 unità abitative, per la costruzione delle quali il Consiglio municipale di Gerusalemme aveva già stanziato 90.000 dollari il 1° aprile 1997.20

I Luoghi santi di Gerusalemme

La vittoria della destra alle elezioni diede ulteriore forza ai gruppi che miravano a ottenere un mutamento dello status quo sul monte del Tempio. Alla fine del 1995 Netanyahu aveva scritto a Yehuda Etzion che, nel caso fosse stato eletto, avrebbe riconosciuto il diritto di culto ebraico sul sito. Il fatto che la costante giurisprudenza della magistratura israeliana prevedesse che spettava esclusivamente al governo garantire tale diritto dava piena facoltà al nuovo gabinetto – come l'aveva data a Begin nel 1977 – di decidere liberamente su tale questione. Tuttavia Netanyahu non prese alcuna decisione in merito. Nemmeno nel programma di governo egli ebbe il coraggio di dichiarare esplicitamente la volontà di perseguire quell'obiettivo,21 al quale era comunque offerto un implicito sostegno nell'affermazione che agli ebrei sarebbe stato garantito il diritto di pregare in tutti i luoghi a loro sacri. Il premier si limitò semplicemente ad affermare che avrebbe inserito la questione nei colloqui per lo status finale.

Tuttavia, non pochi episodi allarmarono la popolazione musulmana.

Alla fine del 1997 alcune provocazioni religiose causarono violente reazioni nel mondo islamico. Due ebrei intenzionati a seppellire definitivamente il processo di pace furono arrestati perché progettavano di gettare da un dirigibile, sulle centinaia di migliaia di fedeli riuniti in preghiera nella spianata in occasione del Ramadan, la testa di un maiale avvolta nelle pagine del Corano.22 Nell'agosto del 1998 sulla stampa ebraica apparvero preoccupanti indiscrezioni provenienti da fonti dei servizi segreti israeliani: alcuni gruppi radicali ebraici stavano pianificando uccisioni di arabi nella Cisgiordania e attacchi ai Luoghi santi islamici della spianata, per provocare rappresaglie palestinesi e una spirale di violenza capace di sabotare una volta per tutte il processo di pace. La fonte affermava che il terrorismo ebraico era molto più pericoloso di quello islamico, dato che un attacco alle moschee dell'Haram al-Sharif avrebbe indotto l'intero mondo musulmano – gran parte del quale in quel momento era indifferente al conflitto arabo-israeliano – a dichiarare la guerra santa contro Israele.23

La battaglia demografica

La lotta per Gerusalemme, oltre che attraverso l'uso della religione e dell'archeologia, si combatte anche mediante la conquista della terra e delle abitazioni, con i conseguenti risvolti demografici che il loro possesso implica. L'ulteriore intensificarsi di questo tipo di battaglia è dimostrato anche dal tributo di sangue pagato negli ultimi anni da Ateret Cohanim. Diversi componenti di questo gruppo sono caduti per mano palestinese all'interno della città vecchia. Due di essi sono stati uccisi nei sei mesi compresi tra il novembre 1997 e il maggio 1998. Nella prima di queste occasioni Netanyahu manifestò una solidarietà senza precedenti nei confronti del movimento. S’inginocchiò sul luogo dell'attentato e dichiarò che il miglior modo per onorare la memoria della vittima era affermare la sovranità d'Israele a Gerusalemme Est e a Hebron, favorendovi l'insediamento del maggior numero di ebrei possibile.24

Ateret Cohanim e El Ad – due organizzazioni dalle medesime finalità – hanno continuato imperterrite a insediare famiglie a Gerusalemme Est. Esse hanno dimostrato particolare attivismo a partire dalla metà degli anni ottanta nel quartiere di Silwan dove, fin dall'Ottocento, sono venuti alla luce numerosi resti archeologici del periodo del primo Tempio. Campagne di scavo più accurate compiute a partire dal 1967 hanno approfondito la conoscenza del sito, conducendo all'apertura di uno dei parchi archeologici più importanti della città. I membri dei due gruppi, oltre a considerare il quartiere un luogo altamente simbolico – in quanto sede dell'antica città di David – affermano che fino ai pogrom degli anni venti i due terzi della popolazione del quartiere era ebraica. Considerano perciò un sacro dovere ristabilire il carattere originario dell'intera area, mutato con la forza dagli arabi solo negli ultimi decenni. Nel giugno 1998, altre quattro abitazioni acquistate da El Ad si sommarono alle diciassette già in mano all'organizzazione a Silwan.

Ma l'azione dei due gruppi procedeva instancabile anche in altre zone della città. In quello stesso mese, infatti, con l'approvazione del Ministero dell'interno, Ateret Cohanim ottenne che fosse mutata destinazione d'uso alla terra circostante la yeshiva Beit Orot sul monte degli Ulivi – anch'essa acquistata a suo tempo da Moskovitz –, per costruirvi degli appartamenti. L'espansione della yeshiva, affermarono alcuni attivisti dell'estrema destra, marcava il definitivo recupero di un'area tra le più sacre alla storia ebraica. Quasi in contemporanea, altri membri di quell'organizzazione iniziarono la costruzione di un insediamento di 12 appartamenti e di una yeshiva su un terreno acquistato da Moskovitz nei pressi della porta di Erode, all'interno della città vecchia. Il sindaco Ehud Olmert, però, fu costretto a emettere un ordine di demolizione e a far evacuare le strutture. Egli dovette infatti ottemperare a una sentenza del tribunale emanata su richiesta dell'Israel Antiquities Authority, che temeva danni i resti archeologici sottostanti. Tuttavia, pochi giorni dopo, la municipalità diede il via libera all'edificazione di alcune abitazioni provvisorie per i membri del gruppo, che fu autorizzato a partecipare agli scavi che l'Antiquities Auttority avrebbe intrapreso sul sito.

Di fronte all'inarrestabile incedere di questi gruppi25 i palestinesi non rimasero inerti. Nel maggio 1997 il muftì Ikramah Sabri riesumò una fatwa emanata settant’anni prima da Hajj Amin al-Husseini, che proibiva ai musulmani la vendita di terre agli ebrei pena l'espulsione dalla comunità dei credenti. Al momento della morte, il corpo di questi traditori dell'islam non sarebbe stato purificato, non si sarebbero recitate per essi le rituali preghiere, né sarebbe stata permessa la loro inumazione in un cimitero musulmano.26 Non meno drastica la presa di posizione dell'Autorità palestinese, il cui ministro della giustizia affermò che tali transazioni erano da considerarsi il peggiore dei tradimenti e avrebbero dovuto essere punite con la condanna a morte "in modo sommario". Nel frattempo, dai minbar delle moschee molti imam inaugurarono un’aspra campagna contro coloro che vendevano "terra islamica" agli ebrei. Agli inizi di giugno il Consiglio supremo musulmano emise una nuova fatwa: i veri credenti avrebbero dovuto adottare un atteggiamento di totale ostracismo contro mediatori e collaboratori – che dovevano essere completamente emarginati dalla comunità –, anche se si fosse trattato di loro familiari.27

I palestinesi, comunque, nella loro battaglia per Gerusalemme non si limitarono ai pronunciamenti religiosi. Essi iniziarono anche una frenetica attività edilizia, dietro la quale – secondo certa stampa ebraica – stavano lauti finanziamenti di alcuni paesi arabi del golfo. L'espansione araba, tuttavia, a differenza di quella israeliana, rimaneva però in gran parte illegale.28 Per i palestinesi, infatti, costruire nel rispetto della legge significava affrontare una serie infinita di ostacoli legali, burocratici ed economici.29 Essi erano però favoriti dal fatto che la municipalità – benché sbandierasse la sua volontà di stroncare il fenomeno delle costruzioni illegali mediante demolizioni su larga scala – era frenata dai servizi di sicurezza israeliani, i quali avvertivano che l'attuazione di quel programma avrebbe portato alla deflagrazione di proteste incontrollabili.

Le sacre tombe ebraiche e il nazionalismo religioso

La situazione era mantenuta incandescente anche da alcune infelici clausole degli accordi, tra le quali quelle relative alla città di Hebron e alle tombe di Rachele e di Giuseppe. Attorno a questi siti, colmi di simbolismo religioso, i palestinesi scaricavano spesso rabbia e frustrazione. Per ovviare a questi problemi gli israeliani fortificarono la tomba di Rachele, situata proprio sul confine con i territori amministrati dall'AP. Il sito fu reso irriconoscibile rispetto alla sua fisionomia originale, trasformato in un grande bunker debordante sulla strada Gerusalemme-Betlemme. I lunghi lavori terminarono nella primavera del 1997, dopo un'infinita serie di polemiche e di manifestazioni palestinesi contro un'opera considerata un flagrante mutamento dello status quo, operato per giunta in violazione degli accordi di pace. Gravi e prolungati scontri al santuario si registrarono in seguito alla vicenda di Har Homa e alla deliberazione del Congresso statunitense in favore del trasferimento dell'ambasciata USA a Gerusalemme (giugno-luglio 1997). In queste occasioni la regione di Betlemme fu dichiarata zona militare chiusa e ai pellegrini ebrei non fu permesso recarsi al sito. Anche nel febbraio 1998 per molti giorni la tomba fu teatro di violenti scontri, in seguito a prolungate manifestazioni palestinesi in favore dell'Iraq. Nell'ottobre 1999 un soldato israeliano di guardia al santuario uccise un palestinese che lo aveva assalito alle spalle con un coltello. Ne scaturì un'altra settimana di proteste, con i consueti lanci di sassi e bombe incendiarie verso i militari israeliani, i quali risposero sparando pallottole di gomma.

La tomba di Rachele è un santuario frequentato da un gran numero di pellegrini ebrei di ogni estrazione e tendenza, che vi rimangono solo il tempo necessario per le preghiere. Ben diverso il caso della tomba di Giuseppe. Essa – che non è un luogo tradizionale di pellegrinaggi ebraici – è frequentata quasi esclusivamente da coloni e studenti nazional-religiosi, guidati da alcuni dei rabbini più estremisti di Israele. Dopo i tragici avvenimenti del settembre 1996, i circa 70 studenti che la frequentavano poterono rientrare gradualmente al santuario, che ricominciò a funzionare a pieno ritmo nel mese di dicembre. Con la differenza che il piccolo reparto di sei soldati demandati alla sicurezza del sito era stato quadruplicato. Nei mesi successivi la tomba fu chiusa numerose volte per ragioni di sicurezza. La prima chiusura – seguita all'inizio dei lavori a Har Homa – fu revocata dopo pochi giorni. Tuttavia, le manifestazioni arabe durarono ancora a lungo e la folla inferocita fu trattenuta a stento dalla polizia palestinese che stavolta, tra l'incredulità e il compiacimento di certa stampa ebraica, non si unì nell'assalto al santuario né sparò un solo colpo all'indirizzo degli ebrei asserragliati all'interno.30 La polizia di Arafat si comportò correttamente anche dopo la sciagurata deliberazione del Congresso USA sul trasferimento dell'ambasciata a Gerusalemme, quando circa 10.000 palestinesi tentarono di manifestare al sito. Tuttavia, essa si rivelò molto meno conciliante ogni volta che si trattò di riammettere gli ebrei al santuario. Anche il giornaliero trasporto dei coloni e degli studenti religiosi alla tomba – effettuato mediante pullman scortati da jeep della polizia di frontiera dotate di vetri anti-proiettile e corazzati con griglie di protezione contro il lancio di sassi – fornì ottime opportunità per perpetrare attentati. La tensione continuò a esser mantenuta alta dai palestinesi, che il 10 dicembre 1997 su al-Hayat al-Jadeeda – quotidiano affiliato all'AP – invitarono la popolazione araba a stare all'erta e trattare "la tomba di Giuseppe e la tomba di Rachele come parti di territorio palestinese che devono essere liberate".

Nell'agosto 1998 vennero uccisi due studenti religiosi della tomba mentre pattugliavano l'insediamento di Yitzhar. Marwan Barghouti – capo di Al Fatah della Cisgiordania – dichiarò che i palestinesi avevano tutto il diritto di attaccare gli insediamenti. La politica di colonizzazione – secondo lui – era puro e semplice terrorismo e come tale doveva essere combattuta.31

L'IDF, d'intesa con la polizia palestinese, riuscì a ottenere che i parenti dei ragazzi uccisi e i coloni potessero rimanere un'intera settimana di notte al santuario, per le rituali preghiere di lutto. Presto, però, i palestinesi realizzarono che quel temporaneo cambiamento dello status quo rischiava di mutare la fisionomia del santuario, trasformandolo in un vero e proprio insediamento. Così, quando gli israeliani intesero concedere altri giorni per le preghiere notturne, ne nacque un'aspra disputa sulle regole relative alla tomba. Per i palestinesi l'eventuale prolungamento delle preghiere notturne sarebbe stata una patente violazione degli Accordi di Oslo, mentre gli israeliani ritenevano che tali accordi non contenessero uno specifico divieto per gli ebrei di restare nottetempo nella tomba. In quei giorni la polizia palestinese impedì l'introduzione del materiale necessario per le riparazioni del santuario – sospettando che i coloni volessero creare nuove strutture per insediarvisi stabilmente –, e l'accesso degli studenti e dei visitatori al sito. Il governo emise un comunicato in cui definiva il comportamento dei palestinesi una violazione degli accordi di pace, che obbligavano l'AP a salvaguardare i Luoghi santi e ad assicurarvi libertà di accesso e di culto. Alla fine i palestinesi si risolsero a negoziare un compromesso: coloni e studenti avrebbero potuto prolungare i giorni di preghiera notturna solo fino al 3 settembre, data del trentesimo giorno di lutto.

L'accordo relativo alla città dei patriarchi fu il primo a mostrare le pecche più vistose. A parte l’assurdo spiegamento di duemila militari – costretti a rischiare giornalmente la vita per proteggere 450 coloni e a imporre frequenti coprifuoco sulla popolazione araba rimasta nell’area israeliana – a rasserenare il clima non contribuì il fatto che alcune delle clausole dell’intesa non furono messe in pratica. La centrale via Shuhada, infatti, rimase chiusa al traffico privato palestinese e parimenti sbarrato restò il grande mercato Hasbahe, mentre nemmeno a proposito della tomba dei patriarchi si riuscì a trovare una soluzione. Se si ebbe un certo miglioramento delle condizioni di vita dei palestinesi nell'area H-1, lo stesso non accadde per la restante popolazione araba costretta a rimanere sotto il controllo israeliano. Inoltre, gli insediamenti divennero più che mai dei ghetti per i coloni, il cui grado di sicurezza si deteriorò ulteriormente. La violenza in città – perpetrata attraverso lanci di sassi e bombe incendiarie, sparatorie, attentati e coprifuoco infiniti – aumentò ulteriormente. Tra l'ultima settimana di marzo e la prima di aprile del 1997 si contarono 178 attacchi palestinesi ai coloni.32 Nel corso di uno di questi un palestinese rimase ucciso. I gravi incidenti che seguirono causarono la morte di altri quattro arabi e un centinaio di feriti. Uno dei punti più caldi si rivelò la strada che da Hebron conduceva all'insediamento di Kiryat Arba. Le auto dei coloni furono spesso fatte oggetto di attentati di cecchini palestinesi, pronti a far perdere le loro tracce nell'area H-1. Dalle colline di quest'area, inoltre, altri cecchini spararono sovente verso le finestre degli insediamenti. L'escalation di violenze ebbe uno dei suoi momenti più drammatici a metà agosto 1998 quando nottetempo, nel suo alloggio di Tel Rumeida, fu ucciso a coltellate il rabbino Shlomo Ra'anan. Come d'abitudine, i coloni reagirono compiendo raid in città ai danni dei palestinesi e delle loro proprietà. Netanyahu invece promise che le sette roulottes di Tel Rumeida sarebbero presto state sostituite con strutture permanenti e che l'insediamento sarebbe stato ampliato.

Gli accordi di Wye Plantation e le preoccupazioni dei coloni

Il 23 ottobre 1998 Netanyahu, ancora una volta pressato dagli Stati Uniti, fu indotto a sottoscrivere un nuovo accordo con i palestinesi. Siglata a Wye Plantation (Maryland), questa intesa stabilì che gli israeliani si sarebbero ritirati da un 13,1% di territorio in una prima fase e dal 14,2% in una seconda, con tempi e modi da definire.33 Le due parti si impegnavano a riaprire immediatamente i negoziati per l'accordo finale, che avrebbe dovuto essere raggiunto entro il 4 maggio 1999. Questo accordo, affermarono i dirigenti dell'AP, apriva la strada a uno stato palestinese. Tuttavia Netanyahu – che firmò l'intesa assieme al suo ministro degli esteri Ariel Sharon – facendo queste concessioni non si discostò dalla politica del governo, che a metà gennaio 1998 aveva emesso un comunicato in cui rivendicava il mantenimento di circa il 60% dei territori occupati.

L'estrema destra, comunque, inscenò subito nuove manifestazioni di protesta, definendo traditori i membri del governo responsabili di quella "capitolazione". I servizi di sicurezza paventarono il pericolo di attentati nei confronti del premier e di altri esponenti del suo gabinetto. La convinzione degli estremisti ebrei che il governo avrebbe ceduto un'ulteriore porzione di Terra promessa ai palestinesi – avvertiva un acuto osservatore – acuiva in essi quel senso di abbandono che nel passato aveva favorito il manifestarsi della loro violenza. I coloni vedevano ormai gli insediamenti completamente accerchiati dalle aree lasciate alla sovranità palestinese e le by pass road che li collegavano a Israele esposte al continuo pericolo di attacchi terroristici.34 Al tempo di Rabin alcuni di essi si erano rifugiati nella speranza che un nuovo governo di destra avrebbe posto termine alle concessioni e riaffermato la sovranità israeliana sui territori perduti. Ora che questo governo era effettivamente al potere ma mostrava di aver definitivamente fatta propria la politica di pace inaugurata a Oslo, queste speranze erano naufragate. I servizi di sicurezza avvertirono che non era da escludere una ripetizione dell'atto omicida di Baruk Goldstein, come biblica vendetta verso recenti gravi attentati palestinesi ai coloni.35

La caduta del governo Netanyahu e la sua sconfitta elettorale

Il ritiro da ulteriori porzioni di Terra promessa tanto temuto dai coloni non ebbe modo di realizzarsi nell'immediato. La firma dell'accordo di Wye Plantation, infatti, fu il canto del cigno del governo Netanyahu, che si spaccò irrimediabilmente all'atto dell'approvazione dell'intesa. Il 20 novembre Netanyahu operò un primo ridispiegamento del 2%, ma si trovò presto in una posizione insostenibile: l'estrema destra della sua compagine minacciava di uscire dal governo in caso di ulteriori ritiri e altrettanto facevano i centristi nel caso l'intesa non fosse stata onorata. Messo alle strette, alla fine Netanyahu ritenne che l'unica soluzione per uscire dall’impasse fosse il ricorso a elezioni anticipate.

La consultazione elettorale del 17 maggio successivo vide la schiacciante vittoria del candidato laburista Ehud Barak (56% dei consensi contro 44). Barak formò la più ampia compagine governativa degli ultimi trent’anni (75 deputati su 120), imbarcando partiti progressisti come il Meretz (16 seggi), ma anche formazioni che avevano fatto parte della precedente coalizione, come lo Shas, Israel be Aliya e il PNR.36 Formata una delle compagini più eterogenee e incoerenti della storia del paese, il nuovo premier rimase intransigente su gran parte dei punti del negoziato con i palestinesi. Le linee guida del nuovo gabinetto non differivano da quelle del precedente riguardo alla Città santa. Inoltre, come già aveva fatto Rabin, Barak affermò di non voler costruire nuovi insediamenti. Tuttavia, non nascose la sua intenzione di voler favorire lo sviluppo di quelli esistenti, mostrando la volontà di mantenerne sotto sovranità israeliana il maggior numero possibile.37

Il 4 settembre, a Sharm al-Sheik, israeliani e palestinesi firmarono un'intesa che prevedeva l'applicazione delle disattese clausole di Wye Plantation: entro cinque mesi dalla riassunzione dei negoziati per lo status finale si sarebbe dovuto definire un accordo quadro per lo status permanente e entro un anno giungere all'accordo definitivo.38 Israele s’impegnava a ridispiegare l'esercito in più fasi, la prima delle quali dell'11% che ancora mancava al completamente dell'accordo di Wye Plantation. A Hebron sarebbero state riaperte la via Shuhada e il mercato all'ingrosso Hasbahe. Un comitato congiunto si sarebbe riunito non più tardi del 13 settembre per determinare lo status della Tomba dei patriarchi.39

Il nuovo governo – nonostante alcuni suoi membri disapprovassero l'accordo – operò il primo ritiro rispettando la tabella di marcia. Tuttavia, il ridispiegamento previsto per il 15 novembre non ebbe luogo. Nemmeno riguardo alla normalizzazione della vita a Hebron furono fatti passi avanti. Solo la via Shuhada fu parzialmente riaperta ai veicoli municipali, a quelli di emergenza e ai mezzi pubblici, che però i coloni si esercitavano a colpire con grosse pietre. Tra fine novembre e inizio dicembre il governo israeliano approvò due piani per espandere gli insediamenti. Arafat affermò che quelle decisioni – unite alla volontà israeliana di voler trasferire all'AP solo aree non contigue e scarsamente popolate – stavano conducendo i colloqui per lo status finale ad un punto morto e accusò Barak di usare i negoziati come strumento per portare avanti una politica dilatoria non dissimile da quella di Netanyahu.

La rimozione del memoriale a Baruk Goldstein

Una nota di ottimismo giunse di lì a poco da Kiryat Arba, dove fu smantellato il memoriale sorto attorno alla tomba di Baruk Goldstein, costante meta di pellegrinaggio per un gran numero di coloni. Il merito fu della caparbia costanza di un deputato del Meretz, Ran Cohen. All'inizio del 1998 Cohen presentò un progetto di legge che prevedeva la traslazione della salma del colono in un cimitero o la rimozione dalla tomba, degli oggetti e delle strutture di cui si era arricchita nel tempo.40 Secondo Cohen, quello "spregevole" memoriale andava rimosso perché "incoraggiava le uccisioni e i massacri".41

Il 2 giugno 1998 la Knesset approvò una legge che intimava la rimozione di tutti gli oggetti installati per "glorificare" la tomba di Goldstein, che erano estranei a un utilizzo puramente funebre del luogo. La Corte suprema, alla quale si erano appellati i genitori del colono, il 14 novembre dell'anno successivo statuì che la tomba propriamente detta non poteva essere toccata, dato il carattere sacro delle sepolture nella religione ebraica. Il mausoleo, invece, andava smantellato, perché "incoraggiava le persone a glorificare degli assassini".42 La Corte differì di altri sei mesi la decisione sulla controversa iscrizione che rendeva omaggio all'azione di Goldstein.

Il 29 dicembre 1999 Barak diede l'ordine di eseguire la sentenza, nonostante centinaia di coloni si fossero precipitati a Kiryat Arba per tentare di impedirlo. Ran Cohen, che aveva dovuto far fonte a innumerevoli tentativi di intimidazione – tra i quali l'incendio della sua automobile –, dichiarò che si trattava dell'inizio di un processo volto a spazzare l'onta che si era posata sulla società israeliana e sull'intero popolo ebraico, che si sarebbe completato solo una volta rimossa la disgraziata iscrizione commemorativa.

La moschea Al-Marwani e i contenziosi archeologici sul Monte del tempio

All'inizio del 1996 sul monte del Tempio sorse un nuovo conflitto, a causa di lavori di restauro da tempo intrapresi dal Waqf nelle Stalle di Salomone43 per ricavarvi una moschea (Al-Marwani). A spingere le autorità islamiche a prendere questa decisione avevano contribuito le voci che alcuni gruppi nazional-religiosi israeliani intendevano trasformare il luogo in una sinagoga. Buona parte dei fondi e della manodopera volontaria, a partire dall'inizio degli anni Novanta, fu procurata dai fondamentalisti islamici arabo-israeliani, che così fecero implicitamente il loro ingresso nell'amministrazione dell'Haram al-Sharif.44 Una parte della moschea fu aperta nel febbraio 1996. Nell'annunciarlo le autorità islamiche affermarono che il sito – dove già gli omayyadi avevano fondato un luogo di preghiera – veniva restaurato per aumentare la capienza della spianata e fungere da riparo ai fedeli durante i piovosi e rigidi periodi invernali.

Ad agosto la municipalità, basandosi sul fatto che quei lavori erano stati intrapresi senza il suo premesso, riuscì ad ottenere dalla Local Affairs Court un ordinanza che ingiungeva alle autorità islamiche di fermarli. Il direttore del Waqf, Adnan Husseini, rispose che l'Haram al-Sharif apparteneva ai musulmani e che, perciò, nessuna legge israeliana poteva impedire il proseguimento dei lavori. Il sindaco chiese alla polizia di far eseguire l'ordine ma questa si rifiutò, adducendo i soliti motivi di ordine pubblico. Allora, agli inizi di settembre, furono i "Fedeli del monte del Tempio" a rivolgersi alla Corte suprema, per chiedere di fermare dei lavori che stavano sfigurando il sito.

Il mese successivo lo stesso Netanyahu – che dopo i recenti sanguinosi incidenti aveva ripetutamente affermato l'esistenza di un accordo che permetteva al Waqf di aprire la nuova moschea in cambio dell'apertura del tunnel – pose un freno all'attivismo della municipalità. Gli ispettori governativi, infatti, dopo un "accurato sopralluogo", affermarono che si trattava di lavori per i quali non era necessario un permesso.45 Contemporaneamente, il capo dell'Israel Antiquities Authority del distretto di Gerusalemme presentò un rapporto alla Corte suprema, secondo il quale i lavori di restauro non avevano causato danni alle strutture della spianata. La petizione dei "Fedeli del monte del Tempio" fu respinta e la moschea Al-Marwani – tra le più grandi del medio oriente, con una capienza di oltre 7.000 persone – fu definitivamente aperta a metà ottobre 1996, poco tempo dopo i sanguinosi incidenti seguiti all'apertura del tunnel.

Nei mesi successivi le autorità del Waqf intrapresero ulteriori lavori nei sotterranei della spianata; ma, mentre fino ai sanguinosi incidenti causati dall'apertura del tunnel archeologico esse avevano coordinato la loro azione con il governo israeliano e con l'Antiquities Authority, adesso decisero di agire autonomamente. Esse iniziarono a restaurare due antichi tunnel che correvano sotto la moschea Al-Aqsa, che in epoca erodiana erano serviti agli ebrei per accedere al monte del Tempio e che i musulmani usavano abitualmente come luogo di preghiera.46 Benché, come nel caso della moschea al-Marwani, si trattasse solo di intonacare ed imbiancare le mura, ripavimentare e installare luci e tappeti, ne nacquero nuove dispute.

Ehud Olmert affermò che non si trattava più di lavori di semplice restauro ma di ampliamento, che non avevano ricevuto il permesso della "Building and Licensing Division" della municipalità ed erano perciò in contrasto con la legge sulle antichità. Le autorità del Waqf contrattaccarono, affermando che gli israeliani avrebbero dovuto fermare gli scavi di un nuovo tunnel segretamente iniziato nella parte meridionale esterna dell'Haram al-Sharif che, avendo raggiunto una profondità di oltre 30 metri, stava minacciando le fondamenta della moschea al-Aqsa. Assieme all'indiscriminata politica di insediamento perseguita a Har Homa e Ras al-Amud, quell'azione rischiava di causare un'esplosione di violenza di grandi dimensioni nei territori occupati.47

Terminati i restauri ai due passaggi (inizio del 1999), ne furono iniziati di nuovi a un ulteriore ambiente sotterraneo – chiamato al-Khatunia –, posto al termine dei passaggi stessi. Nell'agosto 1999 il Waqf decise di praticare un'apertura nel muro sud della spianata, con il proposito di aerare questo spazio. Il nuovo governo Barak, ritenendo quell'atto un grave mutamento dello status quo, ordinò alla polizia di sigillare la fenditura.48 Nel frattempo le autorità israeliane erano riuscite a riaprire un dialogo con i funzionari del Waqf, che ne avevano approfittato per concordare l'apertura di un'uscita di sicurezza per la moschea al-Marwani. Il governo – che stava contemporaneamente cercando di indurre le varie confessioni cristiane a fare altrettanto nel Santo Sepolcro – aveva accordato l'autorizzazione, a patto che i lavori fossero stati condotti sotto la supervisione degli archeologi dell'Israel Antiquities Authority.

Alle prevedibili lamentele di Olmert si aggiunsero quelle di alcuni archeologi israeliani, inorriditi dal fatto che gli scavi fossero stati condotti utilizzando i bulldozer e trascurando di preservare e documentare scientificamente i reperti che quel sito – così ricco, importante e sconosciuto dal punto di vista archeologico – certamente racchiudeva.49 Alcuni rabbini gridarono allarmati che le autorità del Waqf – le quali da sempre propagavano la tesi che non c'era alcuna evidenza storica e archeologica in grado di dimostrare l'esistenza di un tempio ebraico sotto l'Haram al-Sharif – avevano deciso di cancellare ogni traccia che provava la falsità delle loro dichiarazioni.

La destra colse l'occasione per trasformare la disputa in una questione puramente nazionalistica. In coro, molti suoi esponenti affermarono che il governo – permettendo ai religiosi islamici nominati dall'autorità palestinese di esercitare una così vasta autonomia sul monte del Tempio –50 oltre ad aver lasciato che questi danneggiassero irrimediabilmente le memorie ebraiche, aveva indebolito la sovranità israeliana sul sito e, di riflesso, sull'intera Gerusalemme. Barak respinse queste obiezioni e dichiarò che la nuova apertura non sarebbe stata chiusa, perché necessaria alla sicurezza dei fedeli musulmani.51

Nei giorni successivi la polemica salì ulteriormente di tono. Amir Drori, capo dell'Antiquities Authority, affermò che il Waqf aveva ricevuto il permesso per una normale uscita di sicurezza e non per un'apertura monumentale.52 Egli definì il lavoro un vero e proprio "crimine archeologico", che aveva causato "danni irreparabili" alle memorie ebraiche sul monte del Tempio.53 Alcuni archeologi palestinesi replicarono che durante gli scavi erano stati rinvenuti solo resti del periodo islamico. Non c'era niente di più antico sotto la spianata. Lo provava il fatto dopo il 1967 gli israeliani, quando erano penetrati segretamente sotto la spianata, non erano riusciti a rinvenire i tanto agognati resti del loro Tempio.

Il sindaco Olmert affermò che, permettendo al Waqf di scavare senza la supervisione dell'Antiquities Authority, Israele indeboliva i suoi diritti giuridici e morali sul monte del Tempio. Per porvi riparo la municipalità avrebbe emesso un’ordinanza contro quei lavori illegali. Ma il ministro della sicurezza interna Shlomo Ben Ami – che pure riconobbe che il Waqf aveva violato la legge sulle antichità –, affermò che era necessario non far salire la tensione con i musulmani in un momento in cui, con l'approssimarsi del nuovo millennio, gli occhi del mondo sarebbero stati puntati su Gerusalemme. Così il governo – che già aveva proibito agli archeologi dell'Antiquities Authority di rilasciare ulteriori interviste – impose anche alla municipalità di non intervenire nella questione.

Alla fine di dicembre alcuni studenti di archeologia dell'università Bar-Ilan esaminarono le tonnellate di terriccio e detriti scavati dai bulldozer sul monte del Tempio e scaricati nella valle del Cedron. Vi rinvennero un buon numero di frammenti di vasi di ceramica e resti di altri manufatti. Alcuni loro professori affermarono che questo materiale apparteneva a periodi storici che andavano dall'età del medio bronzo al periodo musulmano ed includevano, quindi, anche interessanti pezzi del periodo del primo e del secondo Tempio.54

All'inizio di gennaio 2000, l'ennesima petizione del gruppo di Gershon Salomon fu rigettata dalla Corte suprema: nonostante il Waqf stesse trasgredendo la legge, i lavori non sarebbero stati fermati, perché tale mossa era "passibile di turbare la pace pubblica e causare spargimenti di sangue".55 Una manifestazione organizzata per protestare contro la profanazione del monte del Tempio ebbe per la prima volta un notevole successo, raccogliendo sul monte Scopus oltre 5.000 persone. Dimostrazioni furono inscenate anche da alcuni importanti archeologi israeliani di varia tendenza politica, che si raccolsero nella valle del Cedron attorno ai mucchi di detriti scaricati dal Waqf. Essi ribadirono che non poteva essere permessa una così patente violazione della legge sulle antichità e chiesero al governo di fermare gli scavi illegali. Era la prima volta che tante ed eterogenee forze si mobilitavano attorno a quella questione. Tuttavia il governo, che proprio in quei giorni aveva deciso di posticipare il ridispiegamento previsto per il 20 gennaio56 decise di non agire, lasciando aperta quell'esplosiva questione.

Il vertice di Camp David

Le trattative di pace, in effetti, non progredivano. La data del 13 febbraio passò senza che fosse firmato il previsto accordo quadro per il trattato di pace definitivo. Il 21 marzo – in ritardo di due mesi – gli israeliani operarono il terzo stadio del secondo ridispiegamento deciso a Sharm al-Sheik.57 Il 15 maggio, governo e Knesset approvarono il trasferimento di Abu Dis e dei vicini villaggi di Azaryya e Sawahara al-Sharqiyya al pieno controllo palestinese (dall'area B all'area A).

Tuttavia, la forte opposizione del PNR, di Israel be Aliya e dello Shas58 spinse Barak ad approfittare dei contemporanei gravi scontri per la commemorazione palestinese della nabka – che durarono alcuni giorni provocando numerosi morti e feriti -, per rimandare indefinitamente il ritiro. Il 22 maggio la locale commissione israeliana per la pianificazione urbanistica approvò la costruzione di 200 unità abitative ad Abu Dis, riservate esclusivamente a famiglie ebraiche. Il progetto, benché si applicasse alla piccola sezione del villaggio che ricadeva entro i confini municipali, fu definito dai palestinesi un ulteriore attentato al processo di pace.59

Il 14 giugno Barak manifestò l'intenzione di effettuare il terzo ridispiegamento – previsto per il 23 giugno successivo – solo nel contesto di un accordo di pace definitivo. Di fronte a quella situazione d’impasse, alla fine del mese il Consiglio centrale dell'OLP annunciò la sua intenzione di proclamare la nascita di uno stato palestinese indipendente per il 13 settembre.

Visto il rapido approssimarsi di quella data – che in base a quanto stabilito a Sharm el-Sheik, era anche la scadenza ultima per la stipula del trattato di pace –, Barak chiese l'intervento del presidente statunitense che, per rivitalizzare il processo di pace, convocò un vertice a Camp David per l'11 luglio successivo.

Shas, PNR e Israel be Aliya, ritenendo che in quella sede Barak fosse disposto a fare concessioni che andavano ben oltre programma di governo, il 9 luglio uscirono dalla coalizione.60 Ma Barak affermò di aver ricevuto il suo mandato direttamente dagli elettori – che lo avevano votato sulla base di una piattaforma programmatica che prevedeva la pace con i palestinesi – e non dal partiti o dal parlamento.61 Perciò, egli avrebbe cercato di raggiungere un accordo quadro per l'intesa definitiva con i palestinesi e lo avrebbe sottoposto a referendum, indipendentemente dal volere della Knesset. I palestinesi mostrarono scetticismo per la precipitazione di Barak e di Clinton, che impediva una preparazione adeguata per un vertice di tale importanza e difficoltà.

A Camp David, Clinton e gli israeliani utilizzarono come base delle trattative l'intesa Beilin-Abu Mazen, apportandovi solo lievi modificazioni ed aggiunte. Ai palestinesi sarebbe stato trasferito il 95% della West Bank. Israele avrebbe ceduto loro una porzione di territorio nel nord del Negev, annesso gli insediamenti principali e accettato solo alcune migliaia di profughi, secondo uno specifico piano di "riunificazione familiare". I quartieri arabi di Gerusalemme est – dipendenti dalla municipalità di Abu Dis – avrebbero goduto di un "livello di autonomia relativamente alto" (una "autonomia amministrativa" simile a quella applicata all'area B della Cisgiordania). I palestinesi avrebbero anche avuto il controllo religioso della spianata delle moschee e il libero accesso attraverso un corridoio o un tunnel sotto loro esclusiva sovranità, che avrebbe collegato il sito con Abu Dis.62 Israele avrebbe avuto la sovranità sui quartieri ebraico ed armeno della città vecchia e sul Muro del pianto e i palestinesi una "autonomia amministrativa" sui quartieri musulmano e cristiano (la stessa dei quartieri arabi fuori le mura), oltre a un "presidential compound" per Arafat nei pressi dell'Haram al-Sharif.

Moshe Amirav – docente di scienze politiche all'Università ebraica di Gerusalemme – usò espressioni come "controllo civile" e "sovranità limitata" per definire il regime previsto per i quartieri palestinesi di Gerusalemme Est, sotto il quale sarebbero ricaduti l'80% del territorio di quella parte di città e il 90% degli abitanti arabi. L'AP avrebbe gestito tutti gli affari civili e gli israeliani avrebbero continuato a essere responsabili della sicurezza, analogamente a quanto succedeva per il Vaticano all'interno della città di Roma. In tal modo Israele si sarebbe sbarazzato del quartieri arabi, che avevano complicato la pianificazione urbanistica della città e l'avevano "rovinata finanziariamente". Riguardo ai Luoghi santi, Arafat avrebbe potuto far sventolare la bandiera del suo nuovo stato sull'Haram al-Sharif e anche i santuari cristiani sarebbero ricaduti sotto una "limitata sovranità palestinese".63 Una "joint tourist police unit" avrebbe gestito l'ordine pubblico in tutti i siti religiosi non esclusivamente ebraici. La città, che fino a quel momento era stata divisa di fatto, dopo molti decenni sarebbe divenuta veramente unita.

Queste proposte si scontrarono con l'intransigenza di Arafat, che pretendeva la piena sovranità palestinese sull'intera parte orientale della città, compresa la sua parte vecchia. Il rais era disposto a riconoscere solo la sovranità israeliana su Gerusalemme ovest e l’"autorità" (non la "sovranità") sul Muro del pianto e sul quartiere ebraico entro le mura. Egli, perciò, respinse subito la soluzione che faceva di Abu Dis la capitale del futuro stato palestinese, chiarendo che per lui e per il suo popolo Gerusalemme significava la città vecchia e i quartieri orientali fuori le mura, i più importanti dei quali erano Suwwana, Ras al-Amud, Sheik Jarrah, Musrara,. al-Tur, Wadi al-Joz, al-Tur e Silwan.64

Così, nei giorni conclusivi del summit il presidente statunitense – dopo essersi preventivamente consultato con Barak – formulò un'innovativa proposta per la parte orientale fuori le mura: una forma di "functional jurisdiction"65 palestinese per alcuni quartieri prossimi alla città vecchia ("inner neighborhood") – come Sheik Jarrah, al-Tur, Ras al-Amud, Silwan, Musrara e Suwwana e una completa o parziale sovranità su alcuni quartieri periferici ("outer neighborhood"), tra i quali figuravano Issawiyya, Shufat, Qaiandia, Beit Hanina e Um Tuba.66 Tuttavia, nemmeno questa proposta – che assieme all'accettazione della spartizione della città vecchia rappresentava la più grande apertura di un premier israeliano sulla questione di Gerusalemme – fu accettata da Arafat.

Barak si discostò significativamente dall'intesa Beilin-Abu Mazen solo riguardo al monte del Tempio. Gli israeliani intendevano esercitarvi la piena sovranità ed ottenervi il riconoscimento del diritto di culto ebraico, attraverso la costruzione di una sinagoga sulla sua parte nord.67 Alle pressioni di Clinton perché si accontentasse della sola amministrazione dell'Haram al-Sharif, Arafat rispose che Gerusalemme non era solo palestinese, ma della nazione araba e dei musulmani del mondo intero. Per decidere del suo destino avrebbe dovuto consultare i sunniti e gli sciiti dei vari paesi islamici, che non sarebbero certo stati disponibili a soggiacere alle pretese israeliane.68

Per aggirare queste obiezioni i consiglieri giuridici di Clinton – probabilmente con il consenso degli israeliani – elaborarono una serie di interessanti controproposte. Una di esse prevedeva che un comitato internazionale comprendente i cinque membri del Consiglio di sicurezza dell'ONU e il Marocco (nella sua veste di capo del Jerusalem Committee affiliato all'Organizzazione della Conferenza islamica) avrebbe confidato all'Autorità palestinese il diritto di custodia dell'Haram al-Sharif, mentre Israele avrebbe continuato a esercitare la sovranità sull'intera area. Un altro introduceva l'ingegnosa formula della "vertical sovereignty", secondo la quale ai palestinesi sarebbe stata affidata la sovranità sulla superficie della spianata e a Israele quella sul sottosuolo.

Quest'ultima soluzione, estremamente creativa e interessante, sembrava poter soddisfazione le richieste dei palestinesi, garantendo contemporaneamente Israele contro futuri scavi passibili di danneggiare le vestigia ebraiche presumibilmente presenti nel sottosuolo. Tuttavia, anch'essa fu rifiutata da Arafat. Questi – che in più occasioni aveva sottolineato l'importanza dei Luoghi santi e il pericolo di una loro profanazione per mobilitare i palestinesi contro Israele – non poteva permettersi di fare neanche questa concessione, che avrebbe potuto significare la rinuncia alla moschea al-Marwani e agli altri ambienti trasformati di recente in sale di preghiera.

Gli stessi palestinesi – che per quella causa erano morti a decine nell'ottobre 1990 e nel settembre 1996 – in quei giorni manifestavano per chiedere fermezza sulla questione di Gerusalemme,69 mentre il muftì aveva ripetutamente dichiarato che i palestinesi erano pronti ad immolarsi come martiri piuttosto che veder cadere l'Haram al-Sharif in mano agli estremisti ebrei. Il rais, perciò, si trincerò nuovamente dietro il pretesto che il sito aveva un enorme significato spirituale il mondo musulmano; il che spinse Clinton a cercare vanamente l'aiuto dei vari capi di stato arabi perché lo inducessero ad accettare le sue proposte.70

Il 25 luglio – giorno della conclusione del vertice – Barak dichiarò che era stata l'intransigenza di Arafat su Gerusalemme a far fallire le trattative. Tuttavia, la sua delegazione aveva dimostrato fermezza sulla sicurezza dello stato e sulla questione dei Luoghi santi. Essa era pronta a pagare un prezzo doloroso per la fine del conflitto, ma non qualsiasi prezzo e non avrebbe mai rinunciato a rafforzare Israele e a sostenere una Gerusalemme grande e forte come non mai, con una solida maggioranza ebraica per future generazioni.71 I negoziatori palestinesi riconobbero al vertice il merito di aver spinto le due parti a presentare per la prima volta le loro posizioni reali sulle questioni più critiche del conflitto. Secondo loro, l'80% dei problemi erano stati risolti e c'erano concrete possibilità di concludere un accordo prima del 13 settembre.

Nuovi infruttuosi tentativi di mediazione

Le due parti instaurarono subito contatti informali per la ripresa di negoziati ufficiali, senza però conseguire grandi risultati. Tra le quinte, anche accademici israeliani e palestinesi condussero febbrili colloqui nel tentativo di trovare una soluzione in grado di condurre ad un accordo entro il 13 settembre successivo. Riguardo al monte del Tempio essi conclusero che la soluzione migliore sarebbe stata spartire o condividere la sovranità. In alternativa essi proposero di ricorrere alla nozione della "sovranità di Dio", da sostituire a quella dei due contendenti secolari.

Questa nuova fantasiosa formula era stata elaborata da alcuni professori universitari membri del Jerusalem Institute for Israel Studies – tra i quali la prof. Ruth Lapidot, Menahem Klein e Moshe Amirav –, che la presentarono a Barak pochi giorni dopo il suo ritorno da Camp David. Amirav suggerì di applicarla al monte del Tempio, al Muro del pianto e al Santo Sepolcro, lasciando che ad amministrare i santuari fossero le varie autorità religiose (il Waqf, però, sull'Haram al-Sharif avrebbe dovuto rappresentare tutti gli stati islamici). I palestinesi, affermò Amirav, non sarebbero stati più costretti a chiedere al ministero dell'interno il permesso per i restauri sull'Haram al-Sharif.72

Rimaneva il problema di determinare – dato che notoriamente il Signore non possiede una forza di polizia propria – a chi sarebbe spettato il diritto di gestire l'ordine pubblico e la sicurezza. Menahem Klein affermò che questa formula avrebbe permesso ad Arafat di dichiarare che Allah era il sovrano dell'Haram al-Sharif, aggiungendo che le varie espressioni di autorità – come l'amministrazione religiosa, il diritto di inalberare bandiera e il controllo della sicurezza – potevano essere negoziate tra le due parti.73 In ogni caso Arafat accolse molto freddamente l'idea, anche perché non intendeva rinunciare a presentarsi come l'erede del califfo Omar e di Saladino nel ruolo di protettore dei Luoghi santi cristiani ed islamici.

A fine agosto il ministro degli esteri ad interim Shlomo Ben-Ami – che guidava la delegazione israeliana che dal 22 agosto aveva ripreso negoziati ad alto livello con i palestinesi –, affermò che Israele non considerava i due templi musulmani parte del luogo santo ebraico, nella probabile intenzione di aprire la strada ad un accordo che offrisse la sovranità sulle moschee ai palestinesi e lasciasse la sovranità sulla spianata agli israeliani. Questa idea preludeva a una successiva proposta statunitense – anche questa accolta con freddezza dai palestinesi – che prevedeva la divisione dell'Haram al-Sharif in quattro sezioni: il piazzale, le due moschee, le mura esterne e il sottosuolo, ognuna con diversi gradi di autorità.

Il 6 settembre Clinton incontrò separatamente Barak e Arafat. Secondo il premier israelianonon restava altro che firmare un accordo sulle questioni già risolte e lasciare momentaneamente in sospeso quella di Gerusalemme. Arafat, invece, propose di dare la sovranità sull'Haram al-Sharif al Jerusalem Committee, che ne avrebbe lasciato la giurisdizione ai palestinesi. Clinton – senza nemmeno consultarsi con Barak – respinse subito l'idea, dato che in quell'organismo erano presenti anche fieri avversari del processo di pace come l'Iran e l'Iraq.

Nonostante le posizioni continuassero a essere estremamente distanti, Arafat riuscì a convincere il Consiglio centrale dell'OLP a rimandare la proclamazione dello stato palestinese, dichiarando che l'11 settembre si sarebbero aperti nuovi importanti colloqui di pace con Israele. In quei giorni Barak fece un'importante apertura per risolvere la questione del monte del Tempio. Il sito sarebbe stato affidato ai membri permanenti e Consiglio di Sicurezza dell'ONU, all'Egitto al Marocco e all'Arabia Saudita, che avrebbero garantito all'AP la "sovranità funzionale" su di esso, lasciando allo stato ebraico la "sovranità residuale". Fu anche ripreso il concetto dì "sovranità verticale" per la spianata, al quale stavolta i palestinesi obiettarono che gli israeliani se ne sarebbero valsi per compiere scavi archeologici nel sottosuolo o, peggio ancora, per creare le fondamenta del loro Terzo tempio.

La visita di Sharon al Monte del tempio

Il 25 settembre Arafat e Barak si incontrarono per la prima volta dopo Camp David e decisero di inviare a Washington una delegazione al più alto livello per riprendere, con la mediazione statunitense, le trattative di pace. Due giorni dopo, mentre nella capitale americana iniziavano i colloqui, Ariel Sharon annunciava la sua intenzione di visitare il monte del Tempio, per verificare se gli scavi del Waqf avevano provocato danni alle antichità ebraiche.

Con questa mossa plateale volta a ribadire la sovranità israeliana sul sito, Sharon intendeva rafforzare la sua immagine di capo del Likud, di fronte alla risurrezione politica di Benyamin Netanyahu – il più temibile concorrente alla leadership del partito –, che era appena stato assolto da pesanti accuse di corruzione. Il falco israeliano affermò che la visita avrebbe mostrato che solo con il suo partito al governo il monte del Tempio sarebbe rimasto per sempre sotto la sovranità israeliana. Jibril Rajoub – capo delle forze di sicurezza palestinesi in Cisgiordania – parlò di una pericolosa provocazione, che avrebbe rischiato di causare incidenti simili, se non peggiori, di quelli del 1990 e del 1996.74

Il giorno successivo (28 settembre), mentre Sharon si accingeva a salire sulla spianata, Barak parlò pubblicamente per la prima volta di una Gerusalemme capitale di due popoli, secondo le ben note linee dell'accordo Beilin-Abu Mazen. La Città santa avrebbe avuto "una solida maggioranza ebraica per generazioni", unita sotto sovranità israeliana e "riconosciuta dal mondo come la capitale di Israele". Il premier precisò che non avrebbe mai firmato un accordo che avesse dato il monte del Tempio ai palestinesi o a un comitato islamico, ma non si volle pronunciare sull'opzione di affidare il sito a una combinazione di membri dell'ONU e di paesi arabi moderati.75

Sharon compì la sua ascesa al monte accompagnato da altri parlamentari del Likud e dal sindaco Ehud Olmert, scortato da un migliaio di agenti e sotto la vigilanza di elicotteri che volteggiavano sul sito. Tuttavia, egli non riuscì a penetrare nella moschea Al-Marwani perché un nutrito gruppo di palestinesi – tra i quali alcuni deputati arabi della Knesset – glielo impedirono.76 Il giorno successivo, dopo le rituali preghiere del venerdì, sulla spianata scoppiarono gravi incidenti. Per ridurre gli attriti gli israeliani avevano deciso di sgombrare la stazione di polizia – dal 1967 il simbolo più eloquente della sovranità israeliana sul sito –, che altre volte era stata al centro di drammatici scontri.

Secondo un copione ben consolidato, gli agenti situati alla porta dei Magrebini e i fedeli ebrei al Muro del pianto – presenti in gran numero per la festività del nuovo anno – furono fatti segno di nutriti lanci di pietre. Incitati da un imam che dai microfoni della moschea Al-Aqsa gridava appelli alla guerra santa, i rivoltosi provocarono diversi feriti tra i poliziotti israeliani. Questi, alla fine, reagirono usando proiettili di metallo, provocando la morte di quattro persone. I moti si estesero subito al resto della città e ai territori occupati, dove già in mattinata un agente palestinese aveva ucciso un collega israeliano con cui svolgeva servizio di pattuglia congiunta.

L'intifada Al-Aqsa e i Luoghi santi

Iniziava la cosìddetta Intifada Al-Aqsa, attraverso attacchi alle postazioni militari israeliane che presidiavano i posti di controllo o che difendevano insediamenti e Luoghi santi posti a ridosso o al centro di aree palestinesi densamente popolate. Il secondo giorno gli scontri più violenti si registrarono a Nablus – dove furono impiegati elicotteri da guerra e carri armati –, in seguito ai quali persero la vita nove palestinesi. Ripetuti attacchi alla tomba di Giuseppe furono respinti a fatica dagli agenti barricati all'interno. Il giorno successivo (1° ottobre) uno di essi fu ferito gravemente nel corso di un nuovo drammatico assalto al santuario. L'esercito israeliano – dato il duro assedio a cui era sottoposta la tomba – ebbe gravi difficoltà a raggiungere il sito per evacuare il militare, che morì dissanguato.77

Le violenze continuarono incessanti in tutti i territori occupati e nelle città arabe d'Israele. Il giorno 6, venerdì, esercito e coloni respinsero un tentativo di attacco all'insediamento di Elon Moreh uccidendo due palestinesi. Ancora una volta, la rabbia della folla si localizzò sulla tomba di Giuseppe, che stavolta fu presa d'assalto con un grosso bulldozer.78 In quelle stesse ore altri drammatici incidenti accaddero in prossimità della moschea al-Aqsa, sulla quale erano state issate alcune bandiere palestinesi.

Ad evitarlo non furono sufficienti né la chiusura dei territori occupati né le imponenti misure di sicurezza adottate da Israele che, per la prima volta, aveva perfino permesso a milizie palestinesi di operare apertamente sulla spianata e di controllarne gli accessi,79 per separare la folla in rivolta dai propri agenti. Infatti, quando questi ultimi decisero di penetrare sul sito per ammainare le bandiere e far cessare l'ennesima sassaiola all'indirizzo dei fedeli ebrei al Muro del pianto, si accesero scontri che portarono alla morte di due arabi. Il giorno successivo – quando ormai i morti avevano superato le 80 unità –, il Consiglio di sicurezza dell'ONU approvò all'unanimità – con la sola astensione degli Stati Uniti – la Risoluzione 1322, che condannava Israele per "l'eccessivo uso della forza contro i palestinesi". Essa riaffermava la necessità di rispettare tutti i Luoghi santi e deplorava la provocazione di Sharon e la violenza che ne era seguita, che aveva coinvolto altri santuari e numerose aree dei territori occupati.80

Nel frattempo Barak, vista l'insostenibile situazione determinatasi alla tomba di Giuseppe, su suggerimento dei servizi di sicurezza e del capo di stato maggiore dell'esercito, fece evacuare provvisoriamente il santuario.81 Egli decise di lasciarlo in mano all'AP, che si impegnò a proteggerlo il sito in attesa del ristabilimento dello status quo. Tuttavia, gli agenti di Arafat non riuscirono a contenere la furia di oltre duemila palestinesi che, dopo aver piantato la loro bandiera sulla sommità del santuario, iniziarono a saccheggiarlo. Gridando che la cacciata degli ebrei dalla "moschea del profeta Yusuf" era "il primo passo per liberare i Luoghi santi di Gerusalemme", essi finirono per incendiare la tomba e procurarle ulteriori gravi danni.82

Sharon affermò che i palestinesi avevano dimostrato quale destino avrebbero riservato agli insediamenti e ai Luoghi santi ebraici, nel caso fossero stati lasciati nelle loro mani. Di fronte alla dura reazione internazionale Arafat ordinò l'immediata ricostruzione della tomba. Egli – mentre uno dei rabbini che dirigeva la yeshiva della tomba di Giuseppe cadeva vittima di un agguato palestinese – cercò di giustificarsi affermando che i suoi, senza la visita provocatoria di Sharon e il sangue versato sulla sacra moschea Al-Aqsa, non si sarebbero accaniti in quel modo su un santuario caro anche all'islam.

I servizi di sicurezza israeliani si allertarono immediatamente. Alcuni studenti religiosi che frequentavano il santuario – convenientemente addestrati all'odio dal famigerato rabbino Ginzburg – erano stati ripetutamente coinvolti in atti di terrorismo.83 Perciò c'era da aspettarsi una biblica vendetta per la profanazione del sito e per l'omicidio del rabbino, che temevano si sarebbe tradotta in un bagno di sangue all'interno di qualche luogo santo islamico. Fortunatamente – a parte un raid di alcune decine di estremisti ebrei su Nazaret che causarono la morte di due arabi e l’incendio di alcune moschee ad Haifa, Jaffa, Tiberiade e Ramle84 – tali timori non si materializzarono.

Nei giorni successivi i palestinesi cominciarono a riparare la tomba. Dipinsero la cupola di verde e rasero al suolo gli ambienti costruiti a partire dalla seconda metà degli anni Settanta dai coloni e dall'esercito, nell'intento di restituire al santuario la sua originale fisionomia. Il sindaco di Nablus – Ghassem Shaka – affermò che ai pellegrini ebrei non sarebbe stato permesso pregarvi fino a che una commissione internazionale non avesse determinato se si trattava di un luogo santo ebraico o islamico. Egli manifestò tutta la sua soddisfazione perché finalmente la tomba aveva perduto la caratteristica di provocatoria postazione militare. In futuro – dichiarò – agli ebrei sarebbe stato garantito diritto di accesso e di culto, ma la sovranità sul santuario sarebbe rimasta ai palestinesi.

Alti gradi dell'esercito israeliano bollarono le parole del sindaco e il mutamento dello status quo alla tomba di Giuseppe come contrari agli Accordi di Oslo II, secondo i quali – assieme alla sinagoga Shalom al Israel –, quel santuario ricadeva sotto la piena sovranità dello stato ebraico.85 Il richiamo alla storica sinagoga di Gerico non era causale, dato che durante i primi giorni dell’intifada anch'essa aveva fatto le spese della furia palestinese: il suo piano superiore – quello che ospitava la yeshiva – era infatti stato profanato e semidistrutto, assieme ai libri di studio e di preghiera che conteneva.

Al solito, anche la tomba di Rachele divenne uno degli obiettivi preferiti dei palestinesi, tanto che gli israeliani si videro costretti a chiuderla subito al culto. Solo alla fine di novembre, inscenando vivaci proteste, i coloni indussero il governo a riaprirla e a organizzare convogli armati per condurvi giornalmente i pellegrini. Dopo pochi giorni il sito fu teatro "dell'attacco più duro contro una postazione israeliana" dall'inizio dell'intifada.86 I palestinesi tentarono di conquistare la tomba portandole un assalto da tre lati, in risposta a un raid di coloni dell'insediamento di Betar contro gli abitanti di un vicino villaggio arabo che uscivano dalle serali preghiere del mese di Ramadan.

L'instancabile mediazione di Clinton

Nonostante la violenza continuasse a crescere, Clinton organizzò un summit a Sharm al-Sheik per il 16 ottobre. Le due parti emisero una dichiarazione comune che chiedeva la fine delle violenze e si impegnarono a riprendere i colloqui. Tuttavia, i moti non si fermarono. Accusando Arafat di non voler fermare le violenze per ottenerne ulteriori concessioni politiche, Barak sospese formalmente il processo di pace. Violenze e attentati della Jihad islamica e di Hamas si sovrapposero alle imboscate ai coloni e agli assalti agli insediamenti. Questo non scoraggiò la volontà di mediazione del presidente Clinton, che il 9 novembre incontrò Arafat per sottoporgli un'aggiornata versione delle proposte di Camp David.

Egli precisò che la formula della "vertical sovereignty" sarebbe stata corredata dalla proibizione a Israele di compiere scavi nel sottosuolo della spianata, ma non ottenne risposte incoraggianti. Lo stesso documento fu sottoposto a Barak che però, più che discutere di pace, affermò che Israele non si sarebbe limitato a subire quell'escalation di violenza, e per farvi fronte chiese aiuti economici supplementari agli Stati Uniti.

Nonostante il perpetuarsi della rivolta e la distanza delle posizioni, nella seconda metà di dicembre Clinton riuscì a portare le due parti al tavolo delle trattative. Barak era il più ansioso di trovare un accordo, nella speranza di guadagnare consensi in vista di una sua rielezione.87

Il presidente USA formulò una proposta che avrebbe dovuto servire come base per ulteriori e più approfonditi negoziati. Sui confini, gli insediamenti e il ritorno dei profughi egli non si allontanò significativamente dai principi discussi a Camp David. Su Gerusalemme avanzò proposte più favorevoli ai palestinesi, nella speranza di ottenere la definitiva rinuncia di Arafat al ritorno del profughi: piena sovranità palestinese sui quartieri arabi88 e israeliana su quelli ebraici (il che significava l'annessione degli insediamenti costruiti a partire dal 1967 e la totale sovranità palestinese sulla restante parte orientale fuori le mura). Del quartiere armeno Israele avrebbe ottenuto solo la sezione che permetteva un collegamento tra la porta di Giaffa e il Muro del pianto.

Sui Luoghi santi Clinton formulò due proposte molto simili. La prima prevedeva la sovranità sulla superficie del monte del Tempio ai palestinesi e sul Muro occidentale a Israele; lo spazio sotto il monte e dietro il muro (che poi è la stessa cosa) sarebbe stato soggetto a una "shared functional sovereignty", che richiedeva un "joint approval" per intraprendervi ricerche archeologiche. La seconda differiva dalla prima nel prevedere la sovranità israeliana su quello "spazio sacro al giudaismo" di cui il Muro del pianto era parte (una formula ambigua che probabilmente significava la sovranità sulla parte sotterranea della o spianata) e "un fermo impegno a non scavare sotto l'Haram al-Sharif e dietro il muro".89

Gli israeliani considerarono la proposta un buon punto di partenza per continuare la trattativa.90 I palestinesi, dal canto loro, chiesero una serie di delucidazioni e avanzarono un'infinità di obiezioni: l'annessione a Israele di ampie aree ancora non colonizzate attorno a Gerusalemme e Betlemme distruggeva la continuità territoriale dello stato palestinese e ne impediva lo sviluppo. Criticabile era anche il fatto che la compensazione offerta in cambio dell'annessione di parte della West Bank non fosse di uguale ampiezza né di ugual valore, dato che prevedeva la cessione di un territorio accanto alla striscia di Gaza (le dune di Halutza), fino a quel momento usato dagli israeliani come discarica di rifiuti tossici.91

Infine i palestinesi rifiutavano l'interpretazione israeliana secondo la quale per Muro occidentale si sarebbe dovuto intendere l'intero lato ovest della spianata. Per essi il sito si riduceva alla sezione di muro dove da secoli gli ebrei si radunavano a pregare (Muro del pianto). Soggiacere all'altra ipotesi avrebbe significato sanzionare la sovranità ebraica sul tunnel archeologico aperto nel settembre 1996.

I palestinesi continuavano a essere irremovibili anche sulla questione della sovranità sul monte del Tempio, a complicare la quale intervennero le rispettive autorità religiose. Una fatwa del muftì Ikrama Sabri stabilì che l'Haram al-Sharif era proprietà del Waqf islamico per sette livelli sopra e sette livelli sotto la sua superficie. Secondo un analogo pronunciamento religioso del Gran rabbinato, la legge religiosa ebraica proibiva di "concedere, direttamente o indirettamente, la sovranità o la proprietà del monte del Tempio a dei gentili". Tale sovranità spettava al popolo di Israele e il solo discuterne era "una profanazione del nome di Dio".92

Barak scrisse personalmente al rabbino capo sefardita Eliahu Bakshi-Doron per rassicurarlo che non aveva concesso il santuario ai palestinesi, e che avrebbe consultato il Rabbinato prima di prendere qualsiasi decisione al riguardo. Alla lettera, notò il rabbino, mancava però la promessa ricevuta telefonicamente alcune settimane prima dal premier, il quale gli aveva giurato che non avrebbe mai ceduto la sovranità sul sito ai palestinesi.93 Alcuni membri del PNR si appellarono al Gran rabbinato affinché rigettasse il pronunciamento che proibiva agli ebrei di ascendere al monte del Tempio; un atto che, secondo loro, in situazioni di guerra era permesso dalla legge religiosa. Ma i rabbini risposero che nemmeno in quel difficile momento avevano l'autorità per trasgredire a tale legge.94

Da Camp David in poi era cresciuto enormemente il consenso per le organizzazioni che promuovevano la costruzione del terzo Tempio. I servizi di sicurezza – avendo avuto sentore che alcuni rabbini avevano lanciato appelli interpretabili come esortazioni a distruggere le moschee – controllarono con ancor maggiore attenzione il proliferare di questi gruppi, sapendo che essi consideravano un attentato ai santuari dell'Haram al-Sharif il miglior sistema per sabotare i colloqui di pace. Il Center for the Protection of the Democracy in Israel avvertì che molti componenti di questi gruppi avevano "la fedina penale macchiata da violenti crimini nazionalistici". Esso riteneva la minaccia così grave da consigliare alle autorità israeliane di "invitare" qualche organizzazione internazionale a condividere la responsabilità per la sicurezza sul monte del Tempio, affinché lo stato ebraico non fosse additato come unico responsabile di un eventuale attentato.95

Il 9 gennaio a Gerusalemme si tenne un'affollatissima manifestazione contro la divisione della città. Secondo Nathan Sharansky, organizzatore dell'evento, non si sarebbe dovuto firmare un accordo a ogni costo: "Una pace che domanda il sacrificio della nostra identità come nazione e mina la nostra unità come popolo deve essere rigettata" affermò il leader di Israel be Aliya. "Gerusalemme non è solo la capitale del nostro paese – continuò – ma anche il centro della vita religiosa e nazionale ebraica".96

Il fatto che a quell'evento partecipassero oltre 3.00. 000 persone di ogni tendenza politica era il segno che quei valori e il desiderio di veder rimanere interamente in mani ebraiche la città e i suoi simboli religiosi era largamente condiviso in Israele. In quei giorni, nuovi sondaggi confermarono la totale contrarietà dell'opinione pubblica israeliana alle proposte di Clinton.97

Ulteriori ondate di violenza dell'intifada e dure dichiarazioni di alcuni dirigenti dell'AP fortemente critiche verso Barak – che accusarono di veri e propri crimini di guerra – indussero gli israeliani a sospendere i colloqui. L'ennesimo tentativo di mediazione del presidente Clinton – il cui mandato presidenziale terminava il 20 gennaio – era ormai fallito. I palestinesi, pur avendo riconosciuto i progressi compiuti rispetto a Camp David, affermarono che l'accettazione di piano del presidente USA avrebbe costituito un pericolo per il loro destino nazionale. Essi ribadirono che non erano possibili compromessi sulla sovranità dell'Haram al-Sharif e sul ritorno dei profughi, che avrebbero dovuto costituire "gli elementi fondamentali di qualsiasi accordo" con Israele.

I negoziati di Taba (21-27 gennaio)

Uscito di scena Clinton, comunque, israeliani e palestinesi decisero di fare un ultimo tentativo per raggiungere un accordo prima delle elezioni israeliane del 6 febbraio. Barak – ormai dimissionario, privo di maggioranza parlamentare e con sondaggi elettorali che lo davano nettamente perdente di fronte ad Ariel Sharon – il 21 gennaio inviò a Taba una delegazione composta dai membri del suo entourage più disponibili al compromesso. Lontano dai media e senza l'ingombrante mediazione statunitense, le parti tennero colloqui estremamente concreti e approfonditi. Gli israeliani – dato per assodato il principio clintoniano della sovranità palestinese sulle zone arabe e della sovranità israeliana sulle zone ebraiche – proposero che Gerusalemme Est divenisse parte di uno stato palestinese smilitarizzato. I quartieri arabi sarebbero stati controllati dalla polizia palestinese e quelli ebraici dalla polizia israeliana. Come compenso per l’annessione degli insediamenti ebraici della parte orientale della città e di alcuni quartieri misti come Beit Safafa, i palestinesi avrebbero ottenuto terreni non popolati e l’insediamento di Har Homa, in modo da dare alla loro capitale una soddisfacente continuità territoriale. Le due municipalità avrebbero gestito in comune alcune infrastrutture, ma i servizi postali e l’erogazione dell’energia elettrica sarebbero stati separati.98

Riguardo ai Luoghi santi si discusse l'ipotesi di creare un "bacino sacro"99 comprendente gran parte dei Luoghi santi delle tre religioni monoteistiche. Esso avrebbe incluso la città vecchia con il monte del Tempio, l'area archeologica a Sud-ovest della spianata, l'Ophel, la valle dei Cedri, il monte degli Ulivi, il monte Sion e la cittadella di David. Quest'area sarebbe stata posta sotto amministrazione congiunta: uno speciale organismo – composto da palestinesi e israeliani – avrebbe gestito i servizi municipali e garantito libertà di accesso e di culto ai Luoghi santi. La sicurezza pubblica sarebbe stata affidata a uno speciale corpo di polizia composto da agenti arabi, ebrei ed esteri. Secondo Moshe Amirav, per lo stato ebraico una sovranità congiunta sul monte del Tempio sarebbe stata sempre meglio dello status quo. Nei fatti Israele non deteneva la sovranità del sito, come dimostrava la vicenda degli scavi archeologici compiuti dal Waqf in violazione delle leggi israeliane: gli ebrei non potevano avervi nessun controllo e non potevano recarvisi a pregare; le autorità religiose vi compivano lavori senza chiedere le necessarie autorizzazioni ed era regolarmente impedita la supervisione del sito da parte dell'Antiquities Authority. Le cose potevano solo migliorare adottando la formula della "sovranità congiunta". Era questo – secondo lui – che aveva in mente Barak quando dichiarava che non avrebbe mai firmato un documento che trasferisse la sovranità sul sito ai palestinesi. Tale sovranità, in effetti, non sarebbe stata ceduta o trasferita ma condivisa e sui vari siti religiosi non sarebbe stata issata nessuna delle due bandiere nazionali.100

Il piano, eccellente sotto molti punti di vista – specialmente per ciò che riguardava l'estensione dell'area sacra agli importanti santuari situati fuori le mura della Città – dal punto di vista palestinese aveva però il difetto di prevedere l'esclusiva sovranità ebraica sul muro del Pianto e sul quartiere ebraico della città vecchia senza considerare un'altrettanto esclusiva sovranità palestinese sull’Haram al-Sharif. Anche in questa occasione, perciò, le trattative si arenarono sulla questione dei Luoghi santi,101 oltre che sulla pervicacia dell'AP a esigere il "sacro diritto" al ritorno dei profughi.102

Il 27 gennaio israeliani e palestinesi emisero un comunicato comune, nel quale affermarono di non essere mai stati così vicini a un accordo. La mancanza di tempo rendeva per il momento impossibile raggiungere un’intesa su tutte le questioni, a dispetto dei notevoli progressi compiuti. Tuttavia, le parti si dicevano sicure che le rimanenti differenze sarebbero state colmate dopo le elezioni israeliane.103

L'elezione di Sharon e le preoccupazioni per il futuro

Ariel Sharon – candidato della destra alla carica di primo ministro – definì questa dichiarazione un mero "stratagemma elettorale".104 Secondo lui Barak, per ottenere un pezzo di carta che lo aiutasse a vincere le elezioni, metteva in pericolo la sicurezza dello stato d’Israele e dei suoi cittadini; ma egli si diceva certo che l’elettorato israeliano, conoscendo la portata delle concessioni fatte a Taba, lo avrebbe severamente punito. Sharon affermò anche che tali concessioni – nel caso avesse vinto le elezioni – gli avrebbero reso ancora più difficile negoziare con i palestinesi ed avrebbero condotto a un ulteriore bagno di sangue, piuttosto che a un accordo di pace.105

Ambedue le previsioni del falco israeliano si sarebbero presto avverate. Gli israeliani che si recarono a votare –106 insofferenti della maldestra politica di Barak e desiderosi di riacquistare un minimo di sicurezza dopo quattro mesi di violenza palestinese – votarono in gran parte per Sharon (64,2% dei voti). Il "piano di pace" del nuovo primo ministro prevedeva un accordo ad interim a lungo termine – qualcosa di simile a un patto di non belligeranza –, la creazione di uno stato palestinese smilitarizzato sul 42% della West Bank (in pratica le attuali aree A e B), totale chiusura sul ritorno dei profughi e, naturalmente, mantenimento di tutte le colonie e dell’intera Gerusalemme in mano ebraica. Israele avrebbe controllato le frontiere e lo spazio aereo dello stato palestinese, le zone strategiche dei territori (prima fra tutte la valle del Giordano), le sorgenti d’acqua e le strade di collegamento agli insediamenti.107

Su queste basi Sharon, formato un governo di unità nazionale con la più ampia maggioranza della storia di Israele (7 marzo), si apprestò a negoziare con i palestinesi. Questi ultimi, dal canto loro, dichiararono che avrebbero accettato di farlo solo ripartendo dalle proposte formulate a Taba, minacciando in caso contrario di intensificare la loro lotta di liberazione. Il premier israeliano, tuttavia, si disse disposto a onorare solo gli accordi firmati dal precedente governo, non intese verbali come quelle raggiunte a Taba e affermò che avrebbe incontrato Arafat solo dopo la totale cessazione dell’intifada. Ma la violenza palestinese, che era diminuita a partire dalla seconda metà di gennaio, già dopo l’elezione di Sharon aveva progressivamente ripreso a salire.

Alla fine di marzo, con l’approvazione della nuova amministrazione americana – che aveva deciso di svolgere un ruolo molto meno attivo della precedente nel processo di pace israelo-palestinese – lo stato ebraico rispose duramente ad alcuni gravi attentati bombardando dal cielo, da terra e dal mare obiettivi delle forze di sicurezza palestinesi. All’inizio di aprile Sharon ordinò all’esercito di entrare per la prima volta nelle aree controllate dall’AP e diede il via ad una massiccia campagna di assassini politici contro i più pericolosi esponenti di Hamas e della Jihad islamica. Ai giornalieri colpi di mortaio palestinesi indirizzati verso gli insediamenti nella striscia di Gaza e direttamente in territorio israeliano, il governo Sharon rispose ordinando nuovi bombardamenti, iniziando una vasta opera di demolizione di abitazioni civili e caserme e rioccupando, per la prima volta dal 1993, una porzione di territorio palestinese, dal valico di Erez all’angolo nord-orientale di Gaza.

A metà aprile Egitto e Giordania presentarono una proposta per ricondurre le parti al tavolo delle trattative. I palestinesi accettarono subito il piano, ma Sharon fece obiezione alle clausole che chiedevano il congelamento degli insediamenti e la ripresa delle trattative dalle proposte di Taba.

All’inizio di maggio, mentre le violenze palestinesi continuavano incessanti, il premier israeliano annunciò di aver dato "libertà oltre ogni immaginazione" all’esercito per agire contro i palestinesi,108 aprendo la strada a un’escalation militare che fu appoggiata da non meno vivace attività di rappresaglia da parte di gruppi di coloni. Contemporaneamente (4 maggio) la commissione Mitchell, incaricata di investigare sulle cause della rivolta palestinese e raccomandare strumenti atti a impedirne la continuazione, rese noto il suo rapporto preliminare (quella definitiva giungerà il 20). Esso fu unanimemente considerato, a livello internazionale, un ottimo punto di partenza per spingere le due parti a ritornare al tavolo delle trattative.

Palestinesi e israeliani avrebbero dovuto subito por fine alle violenze, ricostruire la fiducia reciproca e riprendere i negoziati sulla base delle risoluzioni 242 e 338 dell’ONU. Nel generale clima di sfiducia e ostilità reciproca – osservava la commissione –, questi obiettivi si sarebbero potuti conseguire solo attraverso il sostegno della comunità internazionale e un’adeguata attività di international monitoring. Ai palestinesi era chiesto di fare il 100% degli sforzi per prevenire le operazioni terroristiche e punire coloro che le perpetravano; a Israele veniva domandato di ritirarsi sulle posizioni del settembre precedente, di cessare ogni attività edilizia negli insediamenti – compresa quella mirata alla loro crescita naturale -, di porre termine alle chiusure dei territori, alla distruzione di abitazioni e all’uso di armi letali contro manifestanti palestinesi disarmati.109

Sharon criticò la commissione per non aver inequivocabilmente addossato ai soli palestinesi la colpa di aver scatenato e continuato l’ondata di violenze, e respinse l’accusa di aver fatto un uso eccessivo della forza. Egli ribadì anche la sua volontà di continuare a espandere gli insediamenti, un’attività che non era proibita dagli Accordi di Oslo e che, secondo lui, non era illegale, dato le colonie erano costruite in "territorio disputato" e non occupato.110 I palestinesi replicarono che il congelamento degli insediamenti era parte integrante di qualsiasi piano mirante a far cessare le violenze e a riassumere il negoziato.

Nei giorni successivi la situazione continuò a peggiorare, soprattutto per l’intensificarsi degli attacchi suicidi. L’amministrazione statunitense affermò che non era possibile negoziare in condizioni di violenza e che prima di ogni altro passo era necessaria un’incondizionata cessazione delle ostilità. Inoltre, essa non sposò la clausola del congelamento immediato degli insediamenti, che però Israele avrebbe dovuto far scattare una volta cessata la rivolta palestinese.111 Contemporaneamente, gli USA rifiutarono di prendere iniziative diplomatiche volte a restaurare la calma e a favorire la ripresa delle trattative, dato che ritenevano spettasse solo alle parti interessate fare passi concreti in quella direzione. Sharon si disse soddisfatto delle dichiarazioni statunitensi e ritenne il piano Mitchell accettabile "in principio", ordinando all’esercito di cessare gli attacchi contro obiettivi palestinesi. Affermò però che non avrebbe congelato gli insediamenti esistenti.

I palestinesi replicarono che Sharon non poteva dichiarare di accettare il rapporto Mitchell e poi voler mettere in pratica solo le raccomandazioni che gli risultavano gradite. A fine maggio – dopo che dall’inizio del mese i coloni avevano creato altri tre nuovi insediamenti112 – il governo israeliano approvò la costruzione di settecento appartamenti in alcune colonie situate nei pressi di Gerusalemme.

Il 1° giugno un nuovo attacco suicida di Hamas fece 22 vittime a Tel Aviv. Arafat, accusato di inerzia di fronte al terrorismo, si trovò in seria difficoltà e ordinò un immediato ed incondizionato cessate il fuoco. Esso, però, come i molti altri che seguirono, non fu rispettato. Stavolta gli Stati Uniti, preoccupati che la continua escalation del conflitto finisse per mettere in pericolo la stabilità dell’intera regione mediorientale, decisero di inviare in Israele il direttore della CIA, George Tenet, il cui piano per raggiungere una duratura cessazione delle ostilità basato sul rapporto Mitchell fu accettato con riluttanza dalle parti.

Il presidente americano Bush, quando vide che nemmeno il piano Tenet veniva rispettato, alla fine di giugno decise di inviare il segretario di stato Colin Powell nella regione:113 ma questa missione non produsse alcun risultato dato che Powell si limitò a riproporre pedissequamente i suggerimenti formulati da Tenet.114

Il 29 luglio, come ogni anno, i Fedeli del monte del Tempio ripeterono la consueta provocazione della posa della prima pietra del terzo Tempio. Al solito, i palestinesi accorsero in massa sulla spianata. Ma stavolta la polizia, ammaestrata dagli errori precedenti, dopo aver evacuato i fedeli in preghiera al Muro del pianto, seppe gestire gli scontri che si scatenarono riuscendo a evitare gravi conseguenze per le persone implicate. Dieci giorni dopo, però, Gerusalemme fu colpita da un attentato suicida che provocò quindici morti.

Stavolta la ritorsione israeliana non si limitò ai bombardamenti e all’invio di carri armati e bulldozer a Gaza. Essa si concretizzò con l’occupazione di una decina di uffici dell’OLP a Gerusalemme Est, tra i quali figurava l’Orient House – una sorta di simbolico ministero degli esteri palestinese – e dell’edificio del governatorato di Gerusalemme ad Abu Dis. Sharon – che già il mese prima aveva approvato l’insediamento di nuove comunità nella zona delle dune di Halutza – commentò soddisfatto che l’esercito israeliano non avrebbe più lasciato Abu Dis. Così facendo egli, oltre ad eliminare ogni continuità tra il villaggio palestinese e il monte del Tempio, voleva seppellire definitivamente l’intesa Beilin-Abu Mazen e le successive trattative di pace che su di essa si erano basate. Alcuni giorni dopo, ad un successivo attentato suicida ad Haifa, Israele rispose bombardando l’edificio delle telecomunicazioni dell’AP ad Abu Dis ed entrando per la prima volta all’interno di una città palestinese, Jenin, da cui provenivano buona parte degli attentatori suicidi.

Questo crudo e monotono trend di operazioni palestinesi e ritorsioni israeliane caratterizzò anche i mesi successivi. Nemmeno i fatti dell’11 settembre indussero le due parti a cambiare atteggiamento, anche se contribuirono a complicare ulteriormente il quadro della situazione. Sharon tentò subito di accreditare l’immagine di Israele come vittima dello stesso terrorismo che aveva colpito gli USA. Ma a Washington non accettarono l’assunto secondo il quale le azioni di autodifesa e di rappresaglia dello stato ebraico costituivano una componente fondamentale della lotta generale contro il terrorismo e che le cellule di Hamas e della Jihad islamica perseguivano gli stessi obiettivi dei terroristi che avevano colpito le torri gemelle e il Pentagono. Anzi, almeno per qualche tempo i rapporti tra Israele e Stati Uniti non furono idilliaci. Sharon, infatti, rifiutò recisamente di accondiscendere alle richieste dell’amministrazione Bush che – presa dalla necessità dover compattare una grande coalizione contro il terrorismo internazionale nella quale voleva includere anche molti paesi islamici – aveva chiesto all’alleato israeliano di non reagire alle violenze.

Il premier protestò che Israele non intendeva fare le spese della necessità degli Stati Uniti di blandire il mondo islamico, dimostrando ad esso che non si opponevano al riconoscimento dei diritti dei palestinesi. Egli intendeva anche evitare che questi ultimi vedessero nel mutato quadro internazionale una buona ragione per continuare indisturbati le loro aggressioni allo stato ebraico. Arafat, di converso, messo in difficoltà dal giubilo di buona parte del suo popolo per il duro colpo inflitto all’America, temette che esso e la sua lotta venissero identificati con il terrorismo internazionale e che gli USA finissero per dare un via libera incondizionato ad ancora più cruente rappresaglie israeliane. Egli perciò non ripeté l’errore della guerra del Golfo quando l’OLP, sfidando l’alleanza guidata dagli Stati Uniti, aveva apertamente preso le parti di Saddam Hussein.

Stavolta il rais cercò di tenere fuori i palestinesi dal conflitto internazionale e di evitare che la loro causa fosse sfruttata per perseguire obiettivi ad essa estranei e che l’avrebbero potuta gravemente danneggiare. Nonostante i proclami di Bin Laden – che come aveva fatto dieci anni prima il satrapo iracheno evocò l’indifferenza della comunità internazionale di fronte alle ingiustizie subite dalla popolazione palestinese –, Arafat si affrettò ad assicurare pieno appoggio alla causa statunitense e a dichiarare l’ennesima tregua.

Questa strategia sembrò raccogliere i primi frutti all’inizio di ottobre quando Bush – per rendere più accettabile ai paesi arabo-musulmani il prossimo l’attacco all’Afghanistan – affermò che i palestinesi avevano il diritto di avere un loro stato, "fermo restando il rispetto del diritto all’esistenza di Israele". Arafat riscosse la patente di interlocutore credibile dagli USA, mentre Sharon – che ormai si era illuso di poter dare la spallata finale all’Autorità palestinese – si vide costretto a ritirare l’esercito e ad ordinare anch’egli il cessate il fuoco. Ciò non impedì al conflitto di salire ulteriormente di tono nei giorni successivi, culminando infine con l’uccisione del ministro israeliano dimissionario del turismo, Rehavam Ze’evi (17 ottobre).

A metà novembre, visto che era impossibile spezzare il circolo vizioso di azioni e controreazioni sempre più efferate, gli Stati Uniti decisero di impegnarsi più a fondo sullo scenario del conflitto israelo-palestinese. All’inizio di dicembre, le argomentazioni secondo le quali Israele non era la causa del terrorismo internazionale ma una vittima di esso come gli Stati Uniti fecero breccia su Washington, che nel frattempo aveva iniziato una dura campagna di bombardamenti sull’Afghanistan. Il processo di delegittimazione di Arafat e la sua identificazione come il Bin Laden di Israele non fu accettata dall’amministrazione Bush, che continuò a considerare il rais l’unico accettabile partner per la pace. Tuttavia, dopo che altri due gravissimi attentati suicidi colpirono Gerusalemme e Haifa, essa riconobbe il diritto di Israele di difendersi dagli attacchi dei fondamentalisti islamici, approvandone di fatto le rappresaglie. Nello spazio di meno di tre mesi, nel mutato quadro internazionale, l’incapacità o la mancanza di volontà di Arafat di fermare la violenza fece perdere all’AP il vantaggio diplomatico iniziale, conseguito vedendo ribaditi dall’intera comunità internazionale i diritti del popolo palestinese ad una propria patria. Nei giorni successivi, i nuovi mediatori inviati a più riprese dagli Stati Uniti nella regione per dare applicazione al piano Mitchell, si trovarono non a caso a fronteggiare una nuova escalation di violenze che frustrarono ogni loro tentativo di conciliazione.

Le trattative del luglio 2000-gennaio 2001 hanno avuto il grande merito di abbozzare e di far intravedere il modo in cui probabilmente si concretizzerà il futuro trattato di pace, una volta trascorso questo difficilissimo e penoso periodo di transizione la cui lunghezza è diffide prevedere. Per uscire dall’impasse è necessario che gli Stati Uniti – magari appoggiati da un’Unione Europea meno diplomaticamente inerte – inizino a esercitare forti pressioni sulle parti per indurle ad applicazione le raccomandazioni contenute nel piano Mitchell, come primo passo per ritornare al tavolo delle trattative sulla base dei parametri di Taba, gli unici dai quali si dovrà ripartire per giungere a un accordo di pace veramente stabile e definitivo.

1 Ho già trattato ampiamente questo tema nel mio Gerusalemme, Luoghi santi e comunità religiose nelle relazioni internazionali, EDB, Bologna 1997, 255-744. Il vol. si ferma di fatto all'assassinio di Rabin. Il presente studio è da considerarsi in certo modo una prosecuzione e un aggiornamento di quella ricerca.

2 Secondo le scadenze fissate a Oslo, tali colloqui sarebbero dovuti iniziare il 4 maggio successivo.

3 Cf. Ha'aretz 21.9.2000.

4 Cf. "Guidelines of the Government of Israel", 16.6.1996, in Journal of Palestine Studies 26(1996) 101, Autumn 1996, 145-148.

5 Il 2 agosto 1996 Netanyahu mise fine al congelamento di quattro anni imposto dal precedente governo alla costruzione di nuovi insediamenti. L'eredità lasciata dal governo Rabin, che comunque aveva permesso l'espansione delle colonie esistenti, era di tutto rispetto. Tra il giugno 1992 e il maggio 1996 i coloni erano aumentati del 46%, fino a giungere alla rispettabile cifra di 150.000 unità. Cf. Yearbook of the United Natíons (1996), Martinus Nijhof, The Hague-Boston-London 1998, 394.

6 Il tasso di disoccupazione tra i palestinesi raggiunse cifre elevatissime nel 1996, soprattutto a causa della prolungata chiusura dei territori: una media del 31%, che raggiungeva punte del 50% a Gaza.

7 Cf. Jerusalem Report 17.10.1996, 6. Cf. anche le dichiarazioni di Dan Bahat – l'archeologo che dal 1985 è divenuto il responsabile degli scavi – in Jérusalem, ville ouverte, L'Harmattan, Paris 1996, 76. Le autorità del Waqf hanno sempre negato l'esistenza di quest'intesa: cf. Documents on Jerusalem, Passia, Jerusalem 1996, 17.

8 Cf. Jerusalem Post 25.9.1996.

9 Cf. Jerusalem Times 27.9.1996.

10 Cf. Yearbook of the United Nations (1996), 384.

11 Cf. Journal of Palestine Studies 26(1997) 102, Winter 1997, 145. La risoluzione passò con 14 voti a favore e nessuno contrario, con l’astensione degli Stati Uniti. Nonostante il tono moderato del documento, agli israeliani non mancarono gli argomenti per criticarla. Cf. a questo proposito la "Israeli Government's Critical Analysis of UN Security Council Resolution 1073 of September 1996", in Documents on Jerusalem, 138.

12 Cf. The Jewish Press 47(1997) 4, 24 gennaio 1997, 18-19.

13 Vi era prevista la costruzione di 6.500 appartamenti per circa 30.000 abitanti.

14 The Economist 1.3.1997.

15 Journal of Palestine Studies 26(1997) 104, Summer 1997, 139.

16 Cf. Le Monde diplomatique, maggio 1997.

17 La risoluzione passò con 134 voti a favore, 11 astensioni e tre voti contrari (Israele, Stati Uniti e Micronesia). Cf. Journal of Palestine Studies 26(1997) 104, Summer 1997, 151-153.

18 Secondo uno studio pubblicato dall'associazione per i diritti civili Muassasat al-Mujtama, dalla firma degli Accordi di Oslo erano stati confiscati ben 670.000 dunum di terreno, sradicati 210.000 alberi e demolite 1.599 case palestinesi.

19 I membri di questo gruppo si riunivano attorno a una yeshiva fondata alla fine degli anni settanta da una delle più alte autorità rabbiniche di Gush Emunim, Shlomo Aviner. A partire dal 1984, forse anche per la discrezione con la quale portavano avanti la politica degli insediamenti, i membri di Ateret Cohanim ricevettero un notevole sostegno finanziario da parte del governo. La loro attività ebbe un grande incremento pochi giorni dopo l'inizio dell’intifada, quando Ariel Sharon trasferì la sua residenza all'interno del quartiere arabo della città vecchia di Gerusalemme. Da quel momento, il sostegno delle autorità ad Ateret Cohanim divenne ancora più aperto e sfociò in una vera e propria integrazione delle attività di questo e di altri gruppi minori nella politica del governo israeliano.

20 Cf. Journal of Palestine Studies 26(1997) 104, Summer 1997.

21 Nel programma elettorale di alcuni partiti religiosi e nazionalisti che lo sostenevano, invece, era esplicitamente contemplata la fine del divieto per gli ebrei di pregare sulla spianata. Cf. sul Jerusalem Post del 26 maggio e 10 giugno 1996 i programmi del PNR e del Moledet.

22 Cf. Jerusalem Times 2.1.1998.

23 Cf. Jerusalem Post 27.8.1998.

24 Cf. Jerusalem Times 28.11.1997 e Jerusalem Post 20.11.1997.

25 All'interno della città vecchia, fuori dal quartiere ebraico, Ateret Cohanim aveva insediato ormai sessanta famiglie e fondato cinque yeshivot, oltre a curare il restauro di altri diciotto nuovi appartamenti. Cf. Jerusalem Post 21.11.1997.

26 Dato che anche alcuni arabi cristiani avevano venduto le abitazioni a ebrei, il muftì domandò – per la verità senza successo – che anche i capi delle varie Chiese della regione stigmatizzassero quei comportamenti, comminando la scomunica ai loro fedeli.

27 Cf. Jerusalem Times 13.6.1997.

28 Tra il 1967 e il 1995, solo 9.000 appartamenti furono costruiti per gli arabi in Gerusalemme – poche centinaia dei quali con finanziamenti governativi –, mentre ne furono edificati ben 65.000 per gli ebrei. Dei 400 milioni di dollari di budget presentati dalla municipalità nel 1992, solo il 6% fu dedicato alla popolazione araba. La spesa pro capite per gli ebrei in quell'anno fu di 900 dollari, contro i 150 per gli arabi. Tra il 1967 e il 1995 furono confiscati ben 23.000 dunum di terra per fini pubblici da proprietari privati arabi, usati per costruire case per gli ebrei: un concetto di "pubblico" che Meron Benvenisti trova veramente singolare, se si considera che solo il "pubblico" ebraico ne ha potuto beneficiare. Cf. M. Benvenisti, City of Stone. The Hidden History of Jerusalem, University of California Press, London 1996, 155. Secondo il Ministero degli interni israeliano, tra il 1993 e il 1995 gli arabi avevano edificato a Gerusalemme Est circa 800 costruzioni illegali, un quarto delle quali furono demolite. Cf. S. Kaminker, "For Arabs Only: Building Restrictions in East Jerusalem", in Journal of Palestine Studies 26(1997) 104, Summer 1997, 12. Membri del Consiglio dei coloni della Cisgiordania e di Gaza, dopo aver condotto un attento esame sui villaggi circostanti Gerusalemme rilevarono che, dalla firma degli Accordi di Oslo, i palestinesi avevano costruito oltre 19.000 nuove abitazioni illegali all'interno dei confini municipali di Gerusalemme. Cf. Jerusalem Post 13.10.1997.

29 Più drastico il giudizio dello "Special Committee on Israeli Practices" dell'ONU, secondo il quale "applications for building licences were consistently negated to Palestinians". Cf. Yearbook of the United Nations (1996), 386.

30 Cf. Jerusalem Post 4.4.1997.

31 Cf. Jerusalem Post 6.8.1998. Tra il gennaio 1997 e il giugno 1998 il numero dei coloni aumentò del 12,4%, arrivando alla cifra di oltre 169.000; 163.000 erano installati in Cisgiordania e i restanti 6.000 a Gaza. Nel 1997 la crescita fu dell'8,8% e nei primi sei mesi del 1998 del 3,3%. I coloni a Gerusalemme erano invece circa 180.000. Cf. Foundation for Middle East Peace, Report on Israeli Settlement in the Occupied Territories,8(1998) 5, settembre 1998.

32 Cf. Jerusalem Post 9.4.1997.

33 Testo dell'accordo in Jerusalem Post 25.10.1998 e in Jerusalem Times 30.10.1998. Cf. Regno-att. 20,2998,660ss.

34 Non meno di trenta insediamenti sarebbero stati interessati dai ritiri previsti a Wye Plantation. I piani dell'IDF per salvaguardarne la sicurezza prevedevano l'erezione attorno ad essi di muri di cemento armato, recinzioni elettriche e torri di guardia. Inoltre, sarebbero state potenziate l'illuminazione e i pattugliamenti, costruite nuove by pass road ed edifici fortificati come rifugio in caso di attacco. Cf. Jerusalem Post 10.11.1998.

35 Cf. P. Hirschberg, "Murder in the Air", in Jerusalem Report 28.9.1998, 18-22.

36 I 27 seggi ottenuti complessivamente dal PNR, dallo Shas e da United Torah Judaism davano al blocco religioso la più forte rappresentanza parlamentare mai ottenuta. Cf. D. Peretz, G. Doron, "Sectarian Politics and the Peace Process: the 1999 Israel Elections", in Middle East Journal 54(2000) 2, 268.

37 Cf. Journal of Palestine Studies 26(1999) 113, Autumn 1999, 139 e 150.

38 I negoziati per la determinazione dello status permanente non si sarebbero dovuti riassumere più tardi del 13 settembre 1999. Il che significava che le scadenze per l'accordo quadro e per l'accordo definitivo divenivano rispettivamente il 13 febbraio e il 13 settembre 2000.

39 Cf. testo dell'accordo in Journal of Palestine Studies 26(2000) 114, Winter 2000, 143-145 e Palestine-Israel Journal 6(1999) 3, 121-124.

40 In particolare, una piattaforma di pietra, uno scaffale contenente i libri sacri, fontane e rubinetti per il lavaggio cerimoniale delle mani, fari per l'illuminazione notturna, candele, aiuole, fiori e alcune panche; inoltre, un epitaffio nel quale era scritto: "Il santo e giusto Baruch Goldstein diede la vita per la Torah, il popolo e la Terra d'Israele; Dio vendicherà il suo sangue; che sia sempre benedetto".

41 Cf. Jerusalem Post 10.3.1998.

42 Jerusalem Post 15.11.1999.

43 Poste nell'angolo sud-orientale dell'Haram al-Sharif, le Stalle di Salomone sono un enorme sotterraneo di 500 metri quadrati – con 88 pilastri posti su dodici file – che Erode fece costruire per rendere più spaziosa la piattaforma del monte del Tempio.

44 Il sindaco della cittadina di Um al-Fahem, Raed Salah – uno degli esponenti di punta del movimento islamico israeliano –, all'inizio degli anni novanta decise di abbracciare la causa di Gerusalemme e iniziare una campagna in favore del "salvataggio della moschea al-Aqsa". Egli organizzò una grande manifestazione in città, per sensibilizzare i musulmani alla causa e raccogliere fondi per il restauro dei monumenti islamici dell'Haram al-Sherif. Questi "al-Aqsa days" furono subito un grande successo. Egli continuò a organizzarli annualmente, raccogliendo la partecipazione di non meno di 30.000 persone l'anno. Nel 1996 furono raccolti ben 300.000 dollari per il proseguimento dei lavori alla moschea al-Marwani. Cf. Palestine Report 2(1996) 19, 18 ottobre 1996.

45 Jerusalem Post 10.10.1996.

46 Lunghi 60 metri e larghi 20, questi due spazi erano noti al musulmani con il nome di al-Aqsa ai-Kadima (antica al-Aqsa).

47 In effetti, già un rapporto dell'UNESCO dell'anno precedente – redatto a cura del prof. Raymond Lemaire, riferiva di proteste dei funzionari del Waqf. Questi si erano lamentati soprattutto per l'impiego di pesanti macchine che rischiavano di danneggiare il sito. Inoltre avevano manifestato la preoccupazione che gli archeologi israeliani potessero privilegiare, nel corso degli scavi, gli strati erodiani a detrimento di quelli arabi. Inoltre, essi ritenevano difficile "accettare che il futuro di parti essenziali della loro eredità culturale, posta su terra musulmana illegalmente espropriata, dovesse essere deciso senza avere l'opportunità di esprimere il loro punto di vista e difendere i loro diritti sulla questione". Cf. Executive Board of the UNESCO, 150° Session (3.9.1996), Report on the safeguarding of the cultural heritage, in particular the urban heritage of Jerusalem (mission from 21-26 July 1996). L'anno successivo fu lo stesso Lemaire ad affermare che "un gran numero di pesanti macchine continuavano a lavorare al sito, con probabile danno ai monumenti culturali islamici...". Inoltre, il fatto che intensi lavori continuassero da trent'anni tendeva a confermare il timore musulmano che quest'attività – la quale sollevava "un permanente clima di tensione e di disagio" – fosse "parte di uno schema per ottenere accesso a particolari aree sotto la moschea al-Aqsa". Cf. Executive Board of the UNESCO, 151° Session (24.4.1997), A brief report on the excess of the Israeli Authorities against the historic monuments and sites of the Holy City of Jerusalem since the beginning of the occupation of the city (10.4.1997). Adnan Husseini aveva condannato immediatamente gli scavi come "parte dell'attività illegale compiuta da Israele a Gerusalemme" e ne aveva subito chiesto la cessazione. Egli accusò Israele di fare un uso politico delle attività archeologiche. Poi reiterò l'avvertimento sui pericoli che ulteriori scavi potevano arrecare ai monumenti dell'Haram al-Sharif. Cf. Jerusalem Times, n. 165, 4.4.1997.

48 Secondo il rappresentante dell'UNESCO, Léon Pressouyre, si trattava di una vecchia finestra "liberata del materiale che la ostruiva" e che gli israeliani avevano chiuso "per motivi di sicurezza"; ma la sicurezza "era solo un pretesto, perché la finestra restaurata era stata provvista di una grata di metallo protettiva e l'apertura non poteva in ogni caso essere raggiunta da terra". A proposito degli scavi israeliani nel settore sud all'esterno all'Haram al-Sherif, Pressouyre aggiunse di condividere le riserve del suo predecessore (Raymond Lemaire) sul modo in cui il sito dei palazzi omayyadi era stato ripristinato. Per mettere in risalto i resti dei periodi precedenti erano stati "trivialized" i piú importanti monumenti di quell'area, costituiti giustappunto dai palazzi omayyadi. Cf. General Conference of the UNESCO, 30'h Session (5.10.1999), Report on the safeguarding of the urban and monumental heritage of Jerusalem (mission from 1 to 10 September).

49 Di diverso avviso era Dan Bahat – uno dei più famosi archeologi israeliani, responsabile del tunnel lungo il muro Occidentale: "I think no damage occurred here to antiquities. It was all just fill". Cf. Jerusalem Post 24.12.1999.

50 Dopo la nomina del muftì di Gerusalemme da parte dell'AP i palestinesi, con l'acquiescenza degli israeliani preoccupati di evitare altri conflitti religiosi, avevano ulteriormente eroso i diritti della Giordania sull'Haram al-Sharif.

51 Jerusalem Post 8.12.1999.

52 Secondo la stampa ebraica si trattava di un'apertura lunga 30 metri, larga altrettanto e profonda 12 metri. Cf. Jerusalem Post 7.1.2000. Erano stati soprattutto gli scavi per arrivare in profondità ad allarmare il mondo archeologico e religioso israeliano.

53 Jerusalem Post 14.12.1999.

54 Benché si trattasse di piccoli pezzi di ceramica impossibili da ricomporre, la scoperta era ugualmente importante, perché si trattava dei primi resti archeologici provenienti dal monte del Tempio, dove le autorità islamiche non avevano mai permesso a nessuno di effettuare scavi.

55 Cf. Jerusalem Post 11.1.2000.

56 Il secondo aveva avuto luogo il 5 gennaio, con un ritardo di cinquanta giorni.

57 Con questo ritiro l’AP acquisiva un ulteriore 6,1% di territorio. I palestinesi ottenevano così il pieno controllo del 18,2% dei territori occupati (area A) e il controllo parziale di un altro 21,8% (area B). Cf. Journal of Palestine Studies 29(2000) 116, Summer 2000, 124.

58 I ministri di questi tre partiti votarono contro quando l'esecutivo deliberò l'approvazione del provvedimento, che alla Knesset passò per 56 voti a 48 per l'appoggio dei partiti laici e arabi che non facevano parte del governo. Barak affermò che tale provvedimento sarebbe stato congelato fino a che non fosse stata fatta piena luce sui disordini scatenati dai palestinesi e questi ultimi non avessero dato sufficienti assicurazioni che simili episodi non si sarebbero più verificati.

59 Il piano, però, avrebbe ancora dovuto essere approvato dalla commissione distrettuale per la pianificazione urbanistica. Cf. Ha'aretz 23.5.2000.

60 Il 61% degli israeliani, tuttavia, sosteneva la decisione di Barak di andare a Camp David. Cf. Journal of Palestine Studies 30(2000) 117, Autumn 2000, 118.

61 Egli – ricorrendo al voto dei deputati arabi – avrebbe anche potuto trovare in Parlamento la maggioranza per far approvare un'eventuale intesa. Ma ciò non rientrava nella logica con la quale aveva composto il suo governo: firmare un trattato di pace con il consenso della maggioranza degli israeliani, per sfuggire a pericolose divisioni che avrebbero rischiato di destabilizzare l'intero paese.

62 Cf. Jerusalem Post 19.7.2000.

63 Questa soluzione implicava che il Santo Sepolcro e gran parte degli altri santuari cristiani restassero affidati ai palestinesi. Essa, benché fosse in linea con la soluzione adottata a Betlemme – dove l'altro importante santuario della cristianità (la basilica della Natività) è amministrato ormai da cinque anni dall'Autorità palestinese – non fu gradita alla Santa Sede. Le autorità vaticane tentarono di far sentire la propria voce a Camp David, riproponendo la loro idea di applicare a Gerusalemme uno "statuto internazionalmente garantito" in grado di assicurare libertà di accesso e di culto per i credenti delle tre religioni monoteistiche. Ma la proposta fu recisamente respinta da Arafat e da Barak e ritenuta poco praticabile dagli esperti statunitensi che coadiuvavano il presidente Clinton.

64 Il fatto che Arafat non citasse gli importanti quartieri a popolazione ebraica di Gerusalemme Est – come Franch Hill, Ramat Eskol, Gilo e Ramot – fa presumere che egli fosse disposto ad accettare una sorta di divisione etnica di questa parte della città, lasciando in mano allo stato ebraico tutti gli insediamenti costruiti a partire dal 1967.

65 In qualche caso si usò la dizione "functional self-rule".

66 Il ministro senza portafoglio incaricato dei rapporti con la diaspora, il rabbino Michel Melchior, affermò cautamente che Barak aveva accettato di concedere ai palestinesi "dei poteri amministrativi rinforzati con alcuni simboli di sovranità congiunta", concernenti "i quartieri arabi fuori la città vecchia nei sobborghi posti ai margini della città". Egli precisò che l'espressione "segni di sovranità" significava semplicemente che le aree interessate sarebbero state "luoghi di esteso auto-governo" palestinese. Contemporaneamente, il ministro della giustizia Yossi Beilin dichiarò che chi riteneva Gerusalemme una città unita era un illuso. La comunità internazionale non l'avrebbe mai riconosciuta come capitale dello Stato di Israele. Il mito dell'unità di Gerusalemme – che era divenuto un dogma della politica israeliana – bloccava uno storico accordo. Andava ceduta la parte orientale della città a popolazione interamente araba, che non si era mai integrata con la Gerusalemme ebraica e dove, d'altra parte, gli israeliani non mettevano quasi mai piede. Questo non significava dividere la città, perché in cambio si sarebbe ottenuta l'annessione degli insediamenti all'interno e immediatamente all'esterno dei confini municipali della città. Cf. Le Monde 23-24.7.2000. Probabilmente, ambedue queste dichiarazioni furono concordate con Barak, per verificare la reazione dell'opinione pubblica israeliana alle sue aperture. Un sondaggio condotto in quei giorni da Yediot Aaronoth dimostrò che la posizione dell'opinione pubblica israeliana rispetto a Gerusalemme rimaneva inalterata: essa mostrava pieno sostegno per gli sforzi di pace di Barak, ma il 70% di essa rigettava un accordo che prevedesse la cessione di qualsiasi parte di Gerusalemme Est, anche se in cambio i palestinesi avessero dichiarato la fine del conflitto con lo stato ebraico. Cf. Yediot Aaronoth 21.7.2000. Un altro importante sondaggio condotto per conto di Ma'ariv dimostrò che solo il 42% sosteneva l'accordo in discussione a Camp David; il 50% era contrario mentre l'8% si diceva indeciso. Quest'ultimo sondaggio era basato su clausole che prevedevano il ritorno di poche migliaia di rifugiati in Israele (senza il riconoscimento della responsabilità morale dello stato ebraico); il mantenimento della grande maggioranza di insediamenti sotto sovranità israeliana; il controllo amministrativo dell'AP sui quartieri arabi all'interno e nei pressi della città vecchia e la sovranità su quelli situati nella cinta esterna; il mantenimento dell'autonomia religiosa palestinese sui monte del Tempio; l'espansione dei confini municipali di Gerusalemme per aumentare la popolazione ebraica attraverso l'annessione di grandi blocchi di insediamento vicini. Cf. Ma'arív 24.7.2000.

67 L'idea era stata avanzata nel 1986 dall'allora rabbino capo sefardita di Israele, Mordechai Eliahu. La sinagoga avrebbe dovuto essere costruita sul lato orientale del monte del Tempio ed essere più alta delle moschee. La proposta ottenne all’epoca il consenso dei soli ebrei nazional-religiosi. Essa provocò "furore" in alcuni circoli rabbinici e grande imbarazzo nel Gran Rabbinato, dove alcuni esponenti cercarono vanamente di mitigare le dichiarazioni di Eliahu. Cf. Jerusalem Post 21.1.1986 e 11.2.1986.

68 Cf. A. Hanieh, "The Camp David Papers", in Journal of Palestine Studies 30(20019118), Winter 2001, 86.

69 In effetti, attivisti di al-Fatah, di Hamas e di vari altri gruppi palestinesi minori tennero affollate manifestazioni nei territori dell'Autonomia. Marwan Barghouti affermò che la sua gente era cosciente che la delegazione palestinese era sotto la pressione congiunta israelo-americana. Essa, perciò, intendeva mostrare a tutti i negoziatori che la leadership palestinese si sarebbe trovata a fronteggiare una seria opposizione qualora avesse fatto concessioni sulla questione di Gerusalemme e sul ritorno dei profughi. Cf. Jerusalem Post 17.7.2000.

70 Il presidente USA telefonò personalmente ai capi di stato di Arabia Saudita, Giordania, Egitto e Marocco, ottenendo solo un debole quanto vano intervento di re Abdallah su Arafat. Questi paesi dichiararono pubblicamente il loro sostegno alle posizioni palestinesi su Gerusalemme Est. I ministri degli esteri egiziano e saudita sostennero che un accordo su Gerusalemme avrebbe dovuto essere basato sulla risoluzione 242 dell'ONU, che prevedeva il ritiro dai territori arabi occupati nel 1967. Secondo loro, arabi e musulmani avrebbero dovuto avere un ruolo nella trattativa, affinché l'accordo fosse compatibile "con le loro aspirazioni e i loro assoluti diritti di preghiera, di controllo e sovranità sulla parte occupata di Gerusalemme". Cf. Jerusalem Post 23.7.2000 e Journal of Palestine Studies 30(2000)117, Autumn 2000, 119.

71 Cf. Journal of Palestine Studies 30(2000) 117, Autumn 2000, 153-154. Barak ammise anche che c'era ancora notevole disaccordo tra le due parti – "di natura concettuale e non solo di natura tecnica" – non solo su Gerusalemme ma anche su altre questioni, in particolare quella dei rifugiati.

72 Cf. Ha'aretz 16.8.2000.

73 Cf. Jerusalem Post 25.8.2000.

74 Cf. Jerusalem Post 29.9.2000.

75 Cf. Jerusalem Post 29.9.2000.

76 Secondo certa stampa ebraica la visita alla moschea sotterranea ebbe luogo. Cf. ad esempio il Jerusalem Post 29.9.2000.

77 Inizialmente, I'IDF aveva chiesto al capo dei servizi di sicurezza dell'AP nella West Bank – Jibril Rajoub – di cercare di evacuare il militare ferito; ma nemmeno gli agenti palestinesi erano riusciti a rompere l'accerchiamento e a penetrare all'interno della tomba. La commissione d'inchiesta nominata dal governo israeliano ritenne "ragionevole" la richiesta degli ufficiali israeliani di affidarsi ai palestinesi per il salvataggio del loro soldato e accusò l'esercito per non aver evacuato la tomba immediatamente dopo lo scoppio dell'intifada. Cf. Jerusalem Post 13.11.2000.

78 Complessivamente, in una settimana di assalti alla tomba sette palestinesi erano morti e un centinaio avevano riportato ferite più o meno gravi.

79 Si trattava soprattutto di militanti di al-Fatah (che comunque operavano armati), più che di agenti della polizia palestinese.

80 Cf. Journal of Palestine Studies 30(2001) 118, Winter 2001, 157.

81 Questa decisione era condivisa dal rabbino capo sefardita Eliahu Bakshi-Doron, che già il 3 ottobre aveva affermato che la vita umana era più importante della tomba: "se alla tomba di Giuseppe c'è un problema [... ] che rende impossibile proteggere le persone, è meglio evacuare il sito piuttosto che mettere in pericolo vite umane". Cf. Jerusalem Post 4.10.2000.

82 La tomba era già in pessimo stato, a causa dei danni riportati nel corso dei gravi incidenti del settembre del 1996 e del maggio 2000, che non erano ancora stati riparati.

83 Gli studenti della tomba di Giuseppe, infatti – molti dei quali erano esentati dal servizio militare perché si potessero dedicare meglio allo studio delle scritture – si distinsero particolarmente negli anni della prima intifada. Alla fine di maggio 1989 una trentina di essi fecero irruzione nel villaggio arabo di Kifl Harith e, "nel corso di un'operazione pianificata" iniziarono a "sparare in tutte le direzioni". Essi non si contentarono di bruciare coltivazioni e alberi da frutto, spaccare finestre e pannelli solari. Arrivati al centro del villaggio fecero fuoco sugli abitanti, uccidendo un ragazzo di 13 anni e ferendone alcuni altri. Il loro mentore, il rabbino Yitzhak Ginzburg, in un tentativo di difesa dei suoi pupilli affermò che la Torah faceva una precisa distinzione tra ebrei e "gentili". Il sangue ebraico e quello dei goyim, secondo le sue teorie, non avevano lo stesso valore. Il popolo ebraico avrebbe dovuto dichiarare pubblicamente che ebrei e "gentili" non erano uguali. Qualsiasi processo che non si fosse basato su quell'assunto era da considerarsi "un travisamento della giustizia". Cf. Jerusalem Post 4.6.1989. Il mese successivo un altro studente della tomba – armato di un fucile mitragliatore che poi la polizia ritrovò nascosto nella tomba stessa – tese un'imboscata ad alcuni arabi nei pressi di Tel Aviv, ferendone due. Cf. Jerusalem Post 14.7.1989.

84 Cf. Jerusalem Post 11.10.2000.

85 Cf. Jerusalem Post 11.10.2000.

86 Cf. Ha'aretz 4.12.2000.

87 Il premier – che si era dimesso il 10 dicembre dopo che già da tempo governava privo di una maggioranza alla Knesset – aveva intenzione di trasformare le elezioni per il primo ministro in un vero e proprio referendum sulla pace.

88 "Non si capisce perché Israele dovrebbe voler governare in eterno le vite di centinaia di migliaia di palestinesi residenti nei quartieri arabi della città", aveva affermato Clinton il 7 gennaio 2001 parlando all'Israeli Policy Forum a New York. Cf. Journal of Palestine Studies 30(2001) 119, Spring 2001, 174.

89 Cf. Ha'aretz 31.12.2000. Anche in questo caso, come a Camp David, le proposte furono formulate solo oralmente da Clinton in modo che, nel caso di un fallimento del vertice, esse non potessero servire da base per futuri negoziati.

90 L'unico membro del gabinetto di pace che ritenne troppo ampie queste concessioni fu Shimon Peres. Cf. Ha'aretz 26.12.2000.

91 Cf. Journal of Palestine Studies 30(2001) 119, Spring 2001, 155-157.

92 Cf. Jerusalem Post 9.1.2001.

93 Cf. Jerusalem Post 8.1.2001.

94 Cf. Jerusalem Post 9.1.2001.

95 Cf. Ha'aretz 7.1.2001 e Jerusalem Report 29.1.2001, 21.

96 Cf. Jerusalem Post 9.1.2001.

97 Un sondaggio condotto in quei giorni per Barak mostrava il permanere di una forte opposizione dell'opinione pubblica israeliana alla sovranità islamica sul monte del Tempio (60%) e al ritorno di un significativo numero in rifugiati (70%). Cf. Jerusalem Report 15.1.2001, 5.

98 Cf. Jerusalem Post 21.1.2001.

99 Ruth Lapidoth spiegò che l'impiego dell’espressione "bacino" in questo contesto si ispirava al termine giuridico che descriveva la divisione di autorità in altre parti del mondo come, ad esempio, il "bacino mediterraneo"o il "bacino del Nilo". Cf. Ha'aretz 5.2.2001.

100 Cf. Jerusalem Post 24.1.2001.

101 C'era anche un profondo disaccordo sull'estensione della Gerusalemme ebraica, dato che i palestinesi erano disposti ad accettare l'annessione di Ariel e di Gush Etzion ma non di Givat Ze'ev e Ma'ale Adumim. Cfr. Ha'aretz 27.1.2001.

102 A Taba i palestinesi hanno per la prima volta dato il loro assenso all’annessione israeliana di una porzione di territori occupati (circa il 3%), comprendenti alcuni blocchi di insediamenti. Quest’apertura – che ha significato lo storico abbandono del principio del ritiro di Israele entro i confini del 1948 –, avrebbe permesso di far ricadere sotto la sovranità ebraica circa il 60% dei coloni (quindi quasi l’80% chiesto dal premier a Camp David ). Cf. ad esempio le dichiarazioni di Barak sul Jerusalem Post, 29 gennaio 2001 e il Journal of Palestine Studies 30(2001) 120, Summer 2001, 135-136. La proposta palestinese si opponeva a quella israeliana (cf. mappa della proposta sul Journal of Palestine Studies, 30(2001) 120, Summer 2001, 133) – che comunque prevedeva l’evacuazione di 87 insediamenti su 145 nella West Bank –, la quale presentava ancora troppi problemi di continuità territoriale nelle regioni di Betlemme, Gerusalemme Nablus, Qalqilia e Ramallah. Riguardo ai profughi, a Taba si era giunti a discutere di far rientrare in Israele solo la prima generazione, mentre le altre avrebbero dovuto essere accolte dallo stato palestinese. Ma anche in questo caso le perplessità israeliane non vennero fugate, dato che il numero di coloro che erano intitolati a ritornare rimaneva comunque troppo alto. Un altro grave punto di attrito fu il rifiuto dei negoziatori israeliani di accettare la responsabilità morale per la tragedia dei profughi, che secondo loro aveva avuto origine unicamente dal rifiuto arabo della risoluzione 181 dell’ONU di spartizione. Cf. Jerusalem Post 26.1.2001.

103 Cf. Ha’aretz 28.1.2001.

104 In realtà, la conciliante dichiarazione comune serviva anche ai palestinesi. Questi, infatti, presentandosi adesso disposti a negoziare anche sui punti più difficili e controversi, potevano mondarsi dal peccato di aver rigettato le proposte di Camp David e il piano Clinton e dalle accuse di essere stati i soli responsabili del fallimento dei colloqui di pace.

105 Cf. Ha’aretz 28.1.2001.

106 Queste elezioni furono anche caratterizzate da un’altissima percentuale di astensioni.

107 Jerusalem Report 12.2.2001, 15.

108 Cf. Journal of Palestine Studies 30(2001) 120, Summer 2001, 116.

109 Cf. gli estratti del Rapporto Mitchell sul Journal of Palestine Studies 30(2001) 120, Summer 2001, 146-152.

110 Cf. Ha’aretz 7.5.2001.

111 Cf. Ha’aretz 22.5.2001.

112 Questi tre insediamenti e l’altra decina sorti durante i primi mesi del governo Sharon, erano per il momento solo avamposti di coloni formati da roulottes, torri per l’acqua e altre poche e provvisorie infrastrutture , pronte però a essere convertite in strutture stabili non appena fossero giunti adeguati finanziamenti e l’approvazione ufficiale del governo.

113 Funzionari del dipartimento di stato americano avevano avvertito che se non si fosse trovato il modo risolvere il conflitto israelo-palestinese, l’intifada Al-Aqsa avrebbe rischiato di condurre "to the biggest realignment" dalla guerra del Golfo, infiammato il mondo arabo ed eroso il sostegno per gli sforzi USA volti a isolare l’Iraq e a stabilizzare i prezzi del petrolio. Cf. Journal of Palestine Studies 31(2001) 121, Autumn 2001, 121.

114 Nella seconda metà del 2001 si sono intensificate le azioni di gruppi estremisti ebrei che – nel tentativo di far salire ulteriormente la tensione esacerbando gli animi e vendicare le uccisioni indiscriminate di coloni – hanno iniziato una vasta campagna di uccisioni di civili palestinesi. Tali azioni sono culminate il 13 e 14 giugno 2001 con due imboscate che causarono la morte di due palestinesi ed il ferimento di altri sei e il 19 luglio con lo sterminio di una famiglia araba di tre persone – compreso il figlioletto di pochi mesi – nei pressi di Hebron. Queste imprese seguivano mesi di atti di ritorsione in cui alcuni altri civili arabi erano stati uccisi, alcune moschee erano state incendiate, molti alberi sradicati e proprietà arabe di ogni sorta distrutte. Azioni come queste, che mirano a una "santificazione degli atti di vendetta", sono tipiche dell’ideologia kahanista, che in questi ultimi mesi ha ripreso ad infettare in maniera preoccupante il mondo dei coloni. Cf. Jerusalem Report 13.8.2001, 4 e 10 e Journal of Palestine Studies 31(2001) 121, Autumn 2001, 114. Il proliferare di queste cellule terroristiche ebraiche e delle loro azioni hanno fatto pensare alla risorgenza del fenomeno della Jewish Underground della fine degli anni settanta, come ha affermato in un rapporto alla Knesset lo stesso capo dello Shin Bet, Avi Ditcher. Cf. Jerusalem Post 27.7.2001.


articolo tratto da Il Regno logo

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