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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Giovanni Mario Cinti

Lettera da Ramallah: al capezzale dell’amico malato

Fonte: "Il Regno" n. 8 del 2002

I cristiani in Palestina sono il 2%, il restante 98% è costituito da musulmani. Tradotto in cifre, questo significa che i palestinesi cristiani sono circa 170.000, tra Israele e Territori occupati, su 8,5 milioni di abitanti, di cui circa 5 milioni e mezzo di ebrei e 3 milioni di arabi.

I cristiani vivono anch’essi il dramma attuale del popolo insieme ai loro fratelli musulmani. Il rapporto non è conflittuale, in generale; anche nelle relazioni tra le varie Chiese, soprattutto negli ultimi anni, ci sono stati dei progressi. Dopo l’elezione del nuovo patriarca ortodosso – la Chiesa ortodossa è quella di gran lunga maggioritaria – le prospettive sono ulteriormente migliorate. Il patriarca Ireneos è un uomo molto aperto, umile, con il quale – a parere anche del nostro patriarca Michel Sabbah – si spera di poter collaborare bene.

Il vescovo della Chiesa latina, il patriarca di Gerusalemme Michel Sabbah, è per la comunità cattolica – e non solo per essa – un fondamentale punto di riferimento.

È per certi aspetti una figura singolare di vescovo. È il primo palestinese designato patriarca della Chiesa latina: tutti i suoi predecessori erano italiani. A volte viene accusato, soprattutto da parte israeliana, ma non solo, di occuparsi troppo di politica. In realtà egli parla anche di politica, ma sempre da un punto di vista evangelico e come pastore e padre della sua Chiesa, come ritiene sia suo dovere fare: parlare e non tacere.

Egli diceva alla conferenza episcopale degli Stati Uniti il 14 giugno 2001: "Io mi presento davanti a voi in qualità di pastore, come voi, per condividere con voi, secondo le parole del profeta Geremia, "la ferita del mio popolo" (...) Io ho cercato di essere fedele al mandato del concilio, che indica ai vescovi di esaminare "i gravi problemi pubblici", tra i quali le questioni della guerra, della pace e delle relazioni fraterne fra i popoli (...) Il comando del Vangelo è chiaro: noi dobbiamo essere artefici di pace, affamati e assetati di giustizia, dobbiamo amare i nostri nemici e pregare per quelli che ci perseguitano. Nello stesso tempo, il concilio Vaticano II ci domanda di proteggere i diritti degli innocenti e di rinunciare all’uso della violenza".

Sulla questione palestinese la sua posizione è chiara: afferma che il popolo palestinese si batte per la sua sopravvivenza e per la sua libertà, e che questo è il cuore del problema. Che la vera questione non è quella della violenza o del controllo dell’ordine pubblico, come sostengono gli israeliani, ma è quella di un popolo tenuto in ostaggio, che domanda la propria libertà (Omelia per la preghiera ecumenica per la pace, 12.10.2000; Messaggio del Natale 2000). Che si parla di terrorismo, ma in fondo c’è il grido del povero e dell’oppresso che reclama la sua dignità e la sua libertà (Lettera pastorale per la quaresima del 2001; Discorso per la sezione francese di Pax Christi, 24.4.2001).

Strettamente connesso a questo, è il problema della sicurezza per gli israeliani. Secondo Sabbah, 30 anni di occupazione militare non hanno dato sicurezza a Israele: l’unica cosa che può dare questa sicurezza è l’amicizia del popolo palestinese. Fintanto che avrà un nemico per vicino, dice il patriarca, Israele avrà sempre paura di lui. Il popolo palestinese può divenire un popolo amico se gli si rende ciò che gli è stato tolto: la sua libertà, la sua terra (Discorso a Pax Christi, 24.4.2001). La Chiesa, per il patriarca, deve farsi avvocata per il problema di Gerusalemme e non può ignorare l’aspetto politico della questione: Gerusalemme sta al centro dell’identità palestinese, come di quella ebraica e cristiana. Non può essere esclusa dalla zona di sovranità araba, e quindi dall’auspicato stato palestinese.

I cristiani in Palestina sono un piccolo gregge, ma vanno trattati non solo come membri di una comunità religiosa, bensì anche come membri del popolo palestinese. Il tentativo che si fa invece da parte israeliana è di considerarli solo una comunità religiosa minoritaria, senza alcuna aspirazione nazionale legittima, senza un’appartenenza culturale.

Nel magistero del patriarca Sabbah, al contrario, un elemento centrale è l’insistenza sul fatto che i cristiani palestinesi devono assumere in pieno la loro vocazione di battezzati che vivono in Medio Oriente, che vivono in una società araba e musulmana. E quindi devono anche mantenere l’unità dei due elementi, palestinese e cristiano. Al di sopra di tutti i doveri del cristiano, disse l’anno scorso quando venne nella nostra comunità parrocchiale ad amministrare la cresima, c’è sempre il comando evangelico dell’amore. E questo amore "non è segno di debolezza né di fuga; esso è la visione del volto di Dio impressa in ogni uomo. L’israeliano che sopprime la nostra libertà rimane portatore dell’immagine di Dio. Con questa visione io purifico il mio cuore e, messo da parte ogni rancore, gli domando, con la forza dello Spirito e della verità, di mettere fine all’occupazione" (Lettera pastorale per la quaresima 2001). Nell’omelia della pasqua scorsa diceva: "Questo è il senso dell’Esodo del popolo ebraico dall’Egitto con Mosè, questo è il senso della risurrezione del Signore, questo è il bisogno della nostra terra: attraversare il deserto dell’odio e della morte, il deserto dell’ingiustizia e dell’oppressione imposta a uno dei due popoli – quello palestinese – affinché si arrivi alla vita e alla sicurezza per i due popoli insieme".

Esiste in seno alla Chiesa cattolica anche una piccola comunità di espressione ebraica, formata in parte da ebrei convertiti al cristianesimo, in parte da cristiani di provenienza straniera, che però si esprimono in ebraico perché abitano in Israele. Ci sono alcune di queste piccole comunità a Gerusalemme, Tel Aviv, Haifa, Ber Sheva. Sono fra loro molto diverse, anche a seconda della loro composizione. I cristiani di origine ebraica però dal punto di vista politico sono spesso "più realisti del re" in quanto sposano le tesi dell’estrema destra. Del resto negli USA ci sono non poche comunità protestanti che sostengono, anche concretamente, i movimenti sionisti. Tuttavia, come ha messo in luce il patriarca Sabbah nel suo incontro del 13 dicembre 2001 con Giovanni Paolo II, "i cristiani israeliani d’espressione ebraica partecipano alle sofferenze e alle speranze israeliane: fanno parte di una società che soffre e ha paura".

In Israele c’è un notevole interesse per la persona di Gesù, più di quanto si pensi. Di recente la prefazione della prima traduzione delle Confessioni di sant’Agostino in ebraico affermava che l’ebraismo ha una colpa: quella di non conoscere abbastanza il cristianesimo. Rilevava però che bisogna guardarsi dalle "reti di sant’Agostino", che sono le reti della fede. È un movimento d’interesse piuttosto sotterraneo; gli ebrei israeliani che si convertono e chiedono il battesimo devono farlo in modo molto riservato, quasi in clandestinità, perché c’è poi, in pratica, una certa discriminazione nei loro confronti.

Allo stremo e senza speranza

Noi risiediamo in questo piccolo villaggio di Ain Arik, 6 km a ovest di Ramallah; è un villaggio di circa 1.200 abitanti, due terzi musulmani e un terzo cristiani, appartenenti alle due comunità, cattolica e ortodossa. La parrocchia di cui abbiamo la cura pastorale conta in tutto 130 anime: è il contesto immediato nel quale viviamo la nostra vita di preghiera, ma l’orizzonte vuole essere sempre molto ampio, includendo tutti, di entrambi i popoli. La nostra comunità religiosa è composta da 5 fratelli e da 5 sorelle; i fratelli abitano nella casa parrocchiale, le sorelle in un piccolo convento poco lontano.

Le condizioni attuali sono molto difficili. Alcune settimane fa ci fu un attentato al posto di blocco vicino, verso est, in direzione opposta a Ramallah; furono uccisi 6 soldati della guardia e uno rimase ferito, e da quel momento la comunicazione fu interrotta. Era una strada molto frequentata perché ci passavano anche gli abitanti di numerosi villaggi dei dintorni, cui erano state tagliate le comunicazioni con Ramallah per altre vie. Anche quella strada infine è stata interrotta, con un fossato trasversale che ha tagliato anche le linee telefoniche e le condutture dell’acqua che, tra l’altro, erano state inaugurate pochi mesi prima. Quanto all’acqua, i due terzi delle sorgenti sono già in possesso degli israeliani, i quali a loro volta vendono l’acqua alla Società palestinese che gestisce l’acquedotto.

La popolazione è allo stremo e senza speranza, perché non vede la possibilità di un ritorno alla normalità; nella vita quotidiana sperimenta ogni tipo di difficoltà. La nostra scuola parrocchiale, che ha 170 alunni, è in grave difficoltà, perché dai villaggi ad est dai quali provenivano vari bambini e alcuni insegnanti, non è più stato possibile raggiungere Ain Arik. La direttrice, che invece abita a Ramallah, da vari giorni vive chiusa in casa, perché ci sono cinque carri armati sulla strada antistante e non si può uscire. In seguito ai gravissimi avvenimenti delle ultime settimane la scuola è stata poi chiusa, come del resto tutte le altre.

La vita è resa in pratica impossibile e si è arrivati a un punto di frustrazione e anche di disperazione di cui chi è lontano non si può rendere conto.

Di noi si potrebbe dire, come diceva il vescovo di Orano Pierre Claverie a chi gli chiedeva ragione della sua permanenza in Algeria: "Siamo qui a causa di questo Messia crocifisso; restiamo come al capezzale di un amico, di un fratello malato, in silenzio".


* P. Giovanni Mario Cinti appartiene alla Piccola famiglia dell’Annunziata

articolo tratto da Il Regno logo

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