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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Piero Stefani

Un promemoria in 30 punti

"Il Regno" n. 8 del 2002

Dopo l’avvio in Cisgiordania dell’operazione militare israeliana "Scudo difensivo"


Cerchiamo di fissare alcuni punti riassuntivi della crisi mediorientale dopo l’avvio (29 marzo) da parte di Israele dell’operazione militare denominata "Scudo difensivo".

1. Una delle conseguenze dell’11 settembre è aver fatto sì che la lotta al terrorismo sia diventata parte integrante del lessico e dell’azione della politica internazionale.

2. Perché vi sia terrorismo occorre la presenza di almeno tre fattori: odio, un’ideologia e un’organizzazione.

3. Le modalità assunte dalla lotta contro il terrorismo dopo l’11 settembre possono colpire quest’ultimo fattore (l’organizzazione), ma non sono nelle condizioni di intaccare il secondo (l’ideologia) e rafforzano smisuratamente il primo (l’odio). L’odio da solo può essere però impotente a creare un fenomeno terroristico se non s’incontra con un’ideologia e un’organizzazione. Non si può quindi escludere che la distruzione di componenti organizzative possa, momentaneamente, stroncare o ridimensionare la portata del fenomeno terroristico.

4. Le modalità con cui fino a oggi è stata condotta una simile lotta presuppongono la classica distinzione, propria del pensiero e della prassi politiche moderni, tra la legittimità della violenza "difensiva" esercitata dagli stati e la radicale illiceità della violenza di gruppi che non s’identificano con degli stati. L’aver fatto assumere alla lotta contro il terrorismo la funzione di lessico-guida di una parte consistente della politica internazionale comporta, ancor più del riconoscimento della dimensione internazionale del terrorismo, l’esistenza di un nesso tra organizzazioni terroristiche e un determinato numero di stati: per colpire le prime bisogna perciò colpire anche i secondi.

5. Muovere azioni violente contro altri stati è un atto che di norma si chiama "guerra". In questi contesti la difficoltà di applicare tale qualifica e la necessità di far ricorso ad altre formule (ad esempio "operazione di polizia internazionale"; non è casuale la faticosa ricerca di nomi adatti a qualificare l’operazione, "Giustizia duratura", "Scudo difensivo") si giustifica in virtù di questo inedito intreccio che a sua volta presuppone la capacità di fornire prove (sempre soggette a discussioni) volte a rendere palese l’effettiva esistenza di tali nessi.

6. Colpire gli stati significa inevitabilmente coinvolgere nelle operazioni militari anche la popolazione civile, la maggior parte della quale non ha alcuna collusione con il terrorismo. Osservata da questo punto di vista la lotta contro il terrorismo colpisce inevitabilmente, e spesso prevalentemente, gli innocenti.

7. Fino al 1988 nello Stato d’Israele vigeva una legge che vietava a ogni cittadino israeliano di aver contatti con i membri dell’OLP, ufficialmente considerata un’organizzazione terroristica.

8. Gli sviluppi iniziatisi a partire dalla prima Intifada (1987-1992) e con il cambiamento degli assetti internazionali, dovuto al crollo del Muro di Berlino e alla guerra del Golfo, hanno condotto agli Accordi di Oslo, concretizzatisi in successivi accordi (Camp David 1993 ecc.) in base ai quali il leader dell’OLP, Arafat, è stato ufficialmente internazionalmente riconosciuto, anche da Israele, come capo dell’Autonomia nazionale palestinese (ANP).

9. L’ANP non è un’entità compiutamente statale; essa però possiede alcuni poteri. Ad esempio è dotata di un corpo di polizia e di altri mezzi repressivi (prigioni, ecc.) volti alla tutela dell’ordine pubblico nei territori soggetti alla propria amministrazione. Questo particolare costituisce un passaggio necessario perché l’ANP possa essere presentata dalla "controparte" come responsabile, nel passato, di non aver represso i movimenti estremisti e come legittimazione del fatto che questo compito andava assunto da "altri".

10. La prima Intifada ha avuto come uno dei suoi effetti permanenti lo spostamento della lotta palestinese dalla "diaspora" ai Territori. Questo fenomeno ha avuto una corrispondenza assai precisa anche sul fronte del terrorismo. Le due organizzazioni nate in quegli anni – Hamas e Jihad islamica – a differenza di quanto avveniva nella stagione precedente (ad esempio dirottamenti aerei, ecc.) – hanno sempre individuato i loro obiettivi o all’interno dei Territori (ad esempio colonie israeliane) o nell’ambito dello Stato d’Israele.

11. Il terrorismo ha una lunga storia nell’area palestinese; è stato praticato in modo significativo sia da parte ebraica sia da parte araba a partire quanto meno dagli anni venti-trenta del Novecento. Il tipo di terrorismo palestinese esercitato da parte di Hamas e della Jihad islamica ha adottato un unico, inedito e terribile metodo: l’attentato suicida.

12. Il processo di pace, vale a dire il riconoscimento reciproco della legittimità dell’esistenza dei vari soggetti coinvolti nella questione arabo-israeliana e israelo-palestinese, è iniziato da molti anni. Sul fronte degli stati esso ha condotto al riconoscimento reciproco tra Egitto e Israele (1979) e tra Giordania e Israele (1994); rispetto ai Territori alla già citata costituzione dell’Autonomia nazionale palestinese. Esso ha avuto sempre potenti avversari all’interno dei due schieramenti: il terrorismo islamico ha assassinato il presidente egiziano Sadat (1981), quello ebraico il primo ministro israeliano Rabin (1995; in questo caso le due qualifiche "religiose" – islamico ed ebraico – sono motivate dalla dichiarata ideologia degli attentatori). Sul fronte dei Territori gli avversari nel processo di pace, sia israeliani sia palestinesi, hanno polarizzato in modo più evidente la loro azione attorno alle colonie ebraiche presenti in quest’area (innanzitutto la città di Hebron).

13. All’avvio del processo di pace non è corrisposto alcun miglioramento delle condizioni di vita della popolazione palestinese; al contrario, si è assistito a un progressivo deterioramento del già basso tenore di vita. Inoltre la sopravvivenza economica della popolazione palestinese è dipesa in modo crescente da aiuti provenienti da entità politicamente non determinanti nella regione (come l’Unione Europea).

14. I governi israeliani, di qualunque orientamento politico, succedutisi in quest’ultimo decennio si sono rivelati, in maniera più o meno accentuata, più o meno programmata, inadempienti rispetto all’applicazione degli impegni internazionali ufficialmente sottoscritti. Il riscontro più immediato di tale atteggiamento si trova nell’ininterrotta crescita degli insediamenti israeliani nei Territori.

15. Se non mancano ragioni obiettive (anche in relazione a ripetute ambiguità sul fronte del terrorismo) in base alle quali gli israeliani – governo e opinione pubblica – sono sempre più convinti di "non potersi fidare" di Arafat, è altrettanto certo che il modo in cui è stato condotto il "processo di pace" ha accumulato motivi sempre più consistenti perché anche da parte palestinese si sia nelle condizioni di affermare che "non ci si può fidare d’Israele".

16. L’opinione pubblica israeliana, anche moderata, nella sua stragrande maggioranza ha recepito il fallimento dei colloqui di Camp David (estate 2000) e lo scoppio della seconda Intifada (settembre 2000) come prova certa della volontà dell’ANP di non voler concludere alcun processo di pace. In questo quadro, la ragione principale che ha condotto alla schiacciante vittoria elettorale di Sharon nel febbraio del 2001 è stata la convinzione che la tutela della sicurezza dello Stato d’Israele fosse prioritaria e da perseguire anche con mezzi diversi da quelli degli accordi.

17. Con il passare del tempo si rivela sempre più grave la responsabilità della dirigenza palestinese di non aver valutato che, nonostante gli obiettivi limiti delle proposte in discussione, l’atteggiamento di rifiuto assunto nel corso dei colloqui di Camp David e dei successivi colloqui condotti a Taba (gennaio 2001), e il conseguente invito rivolto alla componete arabo-israeliana di disertare le urne alle elezioni del febbraio 2001, sarebbero stati gravidi di conseguenze negative, e avrebbe pesato sul processo e sul progetto di pace avviato dagli Accordi di Oslo. Non a caso, l’insieme di tali scelte è stato, senza dubbio, una delle precondizioni della vittoria di Sharon e della crescita del suo prestigio politico presso l’opinione pubblica israeliana.

18. Il ricorso al terrorismo suicida negli ultimi mesi si è allargato dal fronte islamico – la cui ideologia fa ricorso esplicito a un lessico religioso (proprio di Hamas e della Jihad islamica) – a forme sostenute da un’ideologia puramente "laico-nazionalistica" tipica delle "brigate dei martiri di al-Aqsa". La prova più chiara di questo mutamento sta nel ricorso, finora avvenuto in tre occasioni, a giovani donne come attentatrici suicide. Il processo di consenso e la secolarizzazione del martirio sono dotati di grandi ripercussioni antropologiche all’interno del mondo palestinese. Non va sottovalutata l’importanza del fatto che, mentre l’Occidente non trova parole proprie per indicare tale fenomeno e ricorre al termine giapponese kamikaze, nella sua stragrande maggioranza l’intero universo musulmano ha fatto ricorso a una parola "interna": shahid ("martire"), impiegandola però in un’accezione del tutto inedita.

19. L’attentato suicida è misurato in virtù della sua efficacia – questa è una delle ragioni della secolarizzazione "tecnica" del martirio da essa comportato ("Datemi i loro tank, i loro F-16, i loro missili. Ma non ho niente di tutto ciò. L’unica mia arma sono i martiri. La mia unica potenza il loro sacrificio", sceicco Ahmed Yassin, fondatore e guida spirituale di Hamas). È indubitabile che esso finora sia stato lo strumento che ha maggiormente diffuso il senso di terrore all’interno della società israeliana fino a far balenare, per la prima volta in maniera consistente, il fallimento di uno degli scopi originari del sionismo: trovare un luogo in cui il popolo ebraico possa trovare sicurezza. Più di quanto abbiano fatto le guerre passate, la pervasività imprevedibile del terrorismo crea insicurezza anche a motivo della difficoltà di rispondere a esso.

20. Il sistema di difesa israeliano è stato basato sulla creazione di un formidabile apparato militare (quinto esercito del mondo), volto a combattere sul fronte esterno. Già nel corso della prima Intifada esso ha mostrato grossi disagi a svolgere compiti di polizia. La seconda Intifada non è come la prima una "rivolta delle pietre"; ha avuto fin dall’inizio un tasso di violenza assai superiore. Tuttavia la sua repressione comportava ugualmente il ricorso a metodi poco consoni a un esercito, e questa è stata una delle ragioni del crescente disagio da parte delle truppe israeliane (cf. segnatamente il rifiuto di vari riservisti di rispondere alla chiamata).

21. L’aver fatto assumere, a partire dalla fine di marzo, il più possibile l’aspetto di guerra all’operazione "Scudo difensivo" ha avuto come esito sia una diminuzione del disagio da parte dell’esercito sia un crescente appoggio da parte dell’opinione pubblica israeliana. Il modo in cui è condotta la guerra, anche a motivo della sua strutturale peculiarità (non ci si trova tuttora di fronte a un vero e proprio esercito, anche se esiste una difesa armata spesso più efficace del preventivato – cf. Jenin), ha dato luogo a forme inaccettabili di violenza contro la popolazione civile, a rastrellamenti indiscriminati e al coinvolgimento anche di soggetti diversi dai palestinesi (soprattutto luoghi religiosi non islamici). Il modo in cui è condotta l’operazione è quindi obiettivamente indegno di uno stato che vuole continuare a presentarsi come l’unica democrazia del Vicino Oriente.

22. Il crescente consenso da parte dell’opinione pubblica israeliana a un’operazione militare che sta intaccando in modo consistente il credito e la comprensione nei confronti d’Israele da parte dell’opinione pubblica internazionale e sta creando crescenti disagi nella stessa politica estera degli Stati Uniti, è dovuta alla convinzione che solo un’operazione di tale portata possa garantire la sicurezza – gli interventi parziali precedenti avevano al contrario condotto alla crescita dell’insicurezza: non ci sono mai state tante vittime israeliane a opera degli attentati quanto nel primo anno di governo Sharon.

23. Dopo l’11 settembre la linea di condotta statunitense è stata incerta e oscillante, evidenziando, tra l’altro, una non risolta contrapposizione interna all’amministrazione statunitense tra l’atteggiamento, apparso in più occasioni semplificatorio, assunto dal presidente Bush e quello, più articolato, del segretario di stato Powell. A tal proposito si possono abbozzare grosso modo tre fasi: in un primo momento accelerare la risoluzione della questione palestinese è apparso indispensabile per potere godere dell’appoggio dei cosiddetti "paesi arabi moderati", ritenuto indispensabile per l’operazione da condurre in Afganistan. A questa linea, sostenuta da Powell, è progressivamente subentrata l’accettazione da parte di Bush dell’equivalenza proposta da Sharon esprimibile nei seguenti termini: noi ci comportiamo nei confronti di Arafat e del terrorismo allo stesso modo in cui vi comportate nei confronti del regime taliban e di Bin Laden. Infine lo scatenamento di un’operazione militare senza precedenti da parte israeliana, proprio nella fase in cui da parte americana si stavano stringendo i tempi per un attacco all’Iraq, ha riproposto la plausibilità della prima ipotesi (si vedano gli inviti, verbalmente pressanti, da parte di Bush a ritirarsi e soprattutto l’invio nelle regione del mediatore Zinni e del segretario di stato Powell).

24. Anche a motivo delle pressioni americane, l’invasione israeliana sui Territori può contare su tempi assai brevi (come agire nei confronti della striscia di Gaza?). Nella fase attuale la politica israeliana si muove all’interno di una contraddizione insolubile: da un lato essa può trovare una legittimazione politica alla propria condotta solo ipotizzando un legame organico tra Arafat e le organizzazioni terroristiche, dall’altro le modalità con cui è stata condotta l’invasione hanno rafforzato politicamente Arafat e non hanno suscitato, al momento, nessun altro potenziale interlocutore in grado di rappresentare l’ANP, la quale resta comunque un’entità che Israele non può distruggere.

25. Dopo gli ultimi avvenimenti, è assai probabile che la ripresa delle trattative di pace possa essere fruttuosa solo una volta che siano usciti di scena sia Arafat sia Sharon; tuttavia, sul breve periodo, l’operazione "Scudo difensivo" agisce in direzione diametralmente opposta a quella auspicabile, rafforzando, all’opposto, entrambe le leadership contrapposte, estremizzandole.

26. La proposta di pace saudita, che si conforma al principio "i territori in cambio della pace" e al riconoscimento generale e ufficiale da parte dell’intero mondo arabo dell’esistenza dello Stato d’Israele, nella semplicità e nella chiarezza ha il merito di provenire da un paese chiave del mondo arabo e di essere condivisa da un ampio schieramento di paesi musulmani, e il difetto di giungere con molti anni di ritardo (cf. in questo numero a p. 000). Il principio guida "i territori in cambio della pace" resta comunque l’unica via percorribile. Tuttavia, ci si può chiedere se la politica e la cultura affermatisi in questi decenni in Israele siano tali da provocare traumi, destabilizzazioni e persino scontri aperti all’interno della società israeliana nel caso in cui fosse messa in pratica questa prospettiva di pace (cf. in particolare l’abbandono integrale delle colonie israeliane). Non bisogna affatto dare per scontato che simili preoccupazioni interne siano una delle cause della mancanza di volontà da parte d’Israele ad avviare un serio processo di pace.

27. Per quanto le esperienze passate invitino alla cautela in relazione a questo tipo di previsioni, il tener aperta in modo così drammatico la questione palestinese potrebbe costituire una "mina vagante" per la stabilità dei cosiddetti "regimi arabi moderati" e quindi per la politica statunitense in quello scacchiere.

28. Nella debolezza, osservata da più parti e con diverse finalità, del ruolo dell’Unione Europea nello scacchiere mediorientale pesa anzitutto l’insuperato atteggiamento delle singole nazioni dell’Unione, segnatamente le maggiori, di agire separatamente e secondo un proprio interesse; e pesa altresì la mancata elaborazione di una politica unitaria nei confronti di Israele, che ha raggiunto il suo culmine con la richiesta del Parlamento di isolare Israele attraverso l’applicazione di sanzioni. Il fatto di essere un soggetto economicamente determinante e politicamente debole impedisce all’Europa di giocare un ruolo di garanzia per entrambe le parti.

29. Vari aspetti della recente politica israeliana e in particolare l’operazione "Scudo difensivo" hanno suscitato obiettive tensioni e contrasti tra il governo israeliano e le Chiese cristiane presenti nella regione. Inoltre, l’attuale congiuntura ha dato, forse per la prima volta, autentico spessore all’interrogativo di chi si chiede se lo Stato d’Israele possa davvero presentarsi, in ogni circostanza, come imparziale garante, internazionalmente riconosciuto, del libero e generale accesso ai "Luoghi santi".

30. L’attuale crisi ha dimostrato l’inadeguatezza dei consueti modi in cui le comunità ebraiche della diaspora – compresa quella italiana – dimostrano la loro giusta solidarietà dei confronti dello Stato d’Israele. L’appello alla presenza di un’accentuata dialettica interna e all’indispensabile distinzione tra lo Stato d’Israele e i suoi governi deve essere innervato da una riflessione su nodi storici, culturali e religioni di più vasta portata (occorre ad esempio domandarsi quale senso abbia oggi la presenza di riferimenti liturgici ufficiali rivolti allo Stato d’Israele – si pensi in particolare alla preghiera che chiede di benedire tale stato considerato "inizio della fioritura della nostra redenzione").

articolo tratto da Il Regno logo

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