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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Piero Stefani

Dal kibbutz ai coloni

"Il Regno" n. 20 del 2002

La crisi del governo israeliano e lo stato di guerra


Per molti anni uno dei simboli più riconosciuti della presenza ebraica in Palestina è stato il kibbutz, insediamento agricolo fondato su una base collettivistico-sociale. Il movimento dei kibbutz, anteriore di quarant’anni alla nascita dello stato, fu per decenni un fattore decisivo per lo sviluppo d’Israele. Come avviene per tutti i simboli, il suo influsso sulla vita politica, culturale ed economica del paese si è esteso ben oltre la percentuale della sua popolazione.

Pur essendo ancora presente, il fenomeno è entrato da tempo in una crisi irreversibile. Alla fine di un libro dedicato ai propri cinquant’anni di vita di kibbutz, Corrado Israel De Benedetti afferma con pacata amarezza che una volta in Israele era considerato un onore avere un parente che viveva in quel tipo di villaggi, mentre "ora non siamo più un vanto per nessuno: nella migliore delle ipotesi ci considerano pezzi da museo".1

La lobby dei coloni

La causa occasionale, che tra la fine di ottobre e i primi di novembre ha portato alle dimissioni di cinque ministri laburisti e alla conseguente crisi del governo di unità nazionale presieduto da Ariel Sharon, ha reso manifesto che il luogo simbolico lasciato libero dal kibbutz è ora sempre più saldamente occupato dai coloni. Attualmente sono loro a essere la minoranza dotata di un peso specifico assai superiore alla loro portata numerica. Un articolo apparso sull’autorevole Le Monde del 1° novembre scorso esordiva, non a caso, affermando che "la lobby dei coloni" ha avuto ragione del governo di unità nazionale. Gli abitanti degli insediamenti installati a partire dal 1967 in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est sono attualmente circa 380.000. Essi godono di vantaggi economici e di agevolazioni fiscali eccezionali. Secondo uno studio condotto nel 2000, i coloni di Gaza, ad esempio, hanno ricevuto sussidi diciassette volte superiori a quelli goduti dagli abitanti di Rad Ramat (città di medie dimensioni nei pressi di Tel Aviv).

Nel bilancio del 2003 le somme dedicate alle infrastrutture da realizzare nei territori a favore dei coloni (circonvallazioni, ponti e tunnel destinati a evitare le località palestinesi) ammontano a 90 milioni di euro, altri 70 milioni saranno destinati agli alloggi e 4 saranno erogati a una società privata di guardie armate chiamata a proteggere i coloni installati a Gerusalemme Est e negli insediamenti circostanti.

Il governo prosegue nella sua politica di incoraggiare una crescente presenza di coloni accordando loro crediti d’imposta e prestiti immobiliari a tassi agevolati. Dal canto suo il Ministero degli affari religiosi ha stanziato 5 milioni di euro per la costruzione nei territori di 55 sinagoghe e di 30 bagni rituali. Simili misure sono prese sullo sfondo di una crisi economica senza precedenti e di un bilancio che prevede tagli in quasi tutti i settori e registra un contenimento degli stanziamenti per complessivi 1,6 miliardi di euro.

In questo quadro, i laburisti avevano subordinato il loro voto favorevole alla legge di bilancio a un taglio di circa 130 milioni (sui 420 previsti) nei crediti concessi ai coloni. Inoltre esigevano che gli abitanti di altri villaggi e dei kibbutz godessero degli stessi vantaggi economici riservati ai coloni.

Appare evidente che le cifre di bilancio in sé hanno un significato marginale, ma ciò non vale per il ruolo simbolico dei coloni, un fenomeno costantemente cresciuto negli ultimi trentacinque anni e sostenuto in maniera più o meno accentuata da tutti i governi, compresi quelli retti dai laburisti. Tuttavia il movimento può, in prospettiva, creare difficoltà a qualsiasi governo. In base al motto "quel che è illegale oggi sarà legale domani" proliferano a opera di coloni, specialmente quelli aderenti a un’ideologia messianico-fondamentalista, mini-insediamenti non autorizzati che sono fonte di continue frizioni.

A più vasto raggio, la presenza dei coloni rimane uno scoglio pressoché insormontabile davanti a ogni futura, quanto improbabile, ripresa delle trattative di pace con i palestinesi. Dror Etkes, responsabile del movimento israeliano Shalom ‘akshav (Pace adesso), ha sostenuto che un giorno esisterà uno stato palestinese e le colonie verranno smantellate; e se invece ciò non accadesse, "noi arriveremo a essere un miscuglio tra l’Iran e il vecchio Sudafrica". Questa drastica prospettiva ha molte ragioni per apparire plausibile.

In un primo momento l’erezione di un muro due volte più largo, tre volte più alto e molto più lungo di quello di Berlino destinato a dividere lo Stato d’Israele dai territori palestinesi sembrava creare difficoltà per i coloni che rischiavano di rimanere isolati entro una zona ostile. Le articolate modalità di esecuzione del manufatto, più separatorio verso la zona Nord e più inglobante verso il Sud (specie attorno a Gerusalemme),2 la crescente presenza dell’esercito israeliano e una serie di misure infrastrutturali sembrano allontanare questa ipotesi e garantire che a essere isolati siano sempre più solo i palestinesi.

Laburisti: un esito già scritto

La crisi nata dalle dimissioni dei cinque esponenti laburisti, tra cui il ministro degli esteri Shimon Peres e il ministro della difesa Benjamin Ben Eliezer è stata risolta sostituendoli rispettivamente con l’ex premier Benjamin Netanyahu e con l’ex capo di stato maggiore Shaul Mofaz (entrambi esponenti di destra), e anticipando a fine gennaio le elezioni politiche generali previste per l’autunno 2003. Va infatti ricordato che le elezioni del febbraio 2001, contraddistinte dalla nettissima vittoria di Sharon su Barak (cf. Regno-att. 4,2001,118) riguardavano solo la nomina del capo del governo, mentre il Parlamento in carica è ancora quello eletto nel 1999 quando Barak vinse su Natanyahu (cf. Regno-att. 12,1999,393). Perciò è stata la stessa Knesset nata all’insegna delle trattative di pace a sostenere in seguito Sharon in una politica diametralmente opposta.

Il partito laburista si trova in un momento di grandissima difficoltà e tutte le previsioni lo danno perdente. Ben Eliezer, nominato leader del partito dopo la sconfitta di Barak, non è riuscito, al pari del suo compagno Peres, a svolgere alcuna efficace azione moderatrice sull’attuale governo. I sottili distinguo e le reiterate minacce di dimissioni degli esponenti laburisti non hanno marcato alcuna differenza significativa rispetto a un’azione apparsa del tutto subordinata a quella di Sharon.

L’uscita dal governo ha rappresentato l’ultimo tentativo per salvare una situazione che rischia di rendere la sorte del partito laburista sempre più simile a quella del movimento kibbutzistico: un vestigio del passato. Pur essendo nel frammentatissimo Parlamento uscente il gruppo maggiormente rappresentato (25 seggi su 120), l’ultimo successo riportato dai laburisti fu soprattutto una vittoria personale di Barak; non a caso il partito perse consensi anche in quell’occasione. In questa situazione gli iscritti al partito hanno, nelle primarie del 19 novembre, giocato la carta del cinquantasettenne sindaco di Haifa Amram Mitzna, il quale ha avuto facilmente ragione sia di Ben Eliezer sia dell’ex sindacalista Ramon. Considerato l’erede di Rabin, Mitzna è da oltre vent’anni avversario diretto di Sharon: fu il primo a criticarne la conduzione della guerra in Libano. La candidatura dell’ex generale Mitzna indica l’ormai consolidato prevalere in Israele di politici provenienti dalle file dell’esercito (ciò vale sia per i laburisti Rabin e Barak, sia per Sharon). Tenendo conto che Mitzna è sostenitore della ripresa del processo di pace, avversario delle rappresaglie militari e sindaco di una città abitata da un gran numero di arabi israeliani, la scelta laburista esprime la volontà di segnare una visibile, netta differenza rispetto ai propri antagonisti e di dar voce, nel segreto delle urne, alla stanchezza popolare per una linea politica incapace di dare sicurezza (basti pensare alle dodici vittime di Hebron, quando in un’imboscata sono stati uccisi non solo dei coloni, ma anche alcuni soldati della scorta).

Una delle ragioni della vittoria di Barak nel 1999 fu il suo aver proclamato, durante la campagna elettorale, il ritiro delle truppe israeliane dal Libano, un’occupazione senza sbocchi avversata dalla maggior parte dell’opinione pubblica. Mitzna non può giocare una carta simile: il ritiro dalle zone abitate dai palestinesi, territorialmente frammentate e cosparse di insediamenti ebraici, non può essere paragonabile al ritiro dal Libano.

Sulla ripresa dei colloqui di pace pesa il problema dell’interlocutore. In teoria il 20 gennaio dovrebbero votare anche i palestinesi di Cisgiordania e Gaza per il rinnovo del Consiglio legislativo e della presidenza dell’Autorità nazionale palestinese. Allo stato attuale non si sa se queste elezioni ci saranno e, qualora ci fossero, se avrebbero un esito favorevole ad Arafat. La recente politica del governo israeliano ha infatti bloccato la dinamica interna al mondo palestinese che sembrava orientata a preventivare un "dopo Arafat". Attualmente nessun leader politico israeliano, neppure Mitzna che non lo ama, può aprire colloqui con l’anziano leader palestinese. Arduo pensare perciò che i laburisti possano vincere la prossime elezioni, al massimo quest’ultima mossa riuscirà a frenarne la caduta libera e a gettare le basi per un futuro rilancio.

Anche il grande rivale del Likud sulla destra dello schieramento, lo Shass (religiosi ortodossi serfaditi), si trova in difficoltà. Dopo il grande successo riportato nelle elezioni del 1999, il partito ha dovuto infatti registrare lo scandalo legato al suo ex leader Aryeh Deri (condannato per malversazione e in seguito ritiratosi dalla vita politica), mentre il suo attuale capo, Eli Yishai, è lungi dall’avere il carisma del suo predecessore. Superate appaiono anche le vecchie affermazioni del suo leader spirituale, Ovadia Yosseff, secondo cui un metro quadrato di terra non valeva una vita ebraica. Seguendo la radicalizzazione della politica israeliana, lo Shass sostiene ora apertamente la colonizzazione, restando in tal modo schiacciato sulle posizioni del Likud.

Tra Sharon e Netanyahu

Sharon sembra perciò destinato ad andare incontro a una facile vittoria. L’unica insidia è quella interna costituita dal suo più giovane rivale Netanyahu. Nominato ministro degli esteri, quest’ultimo – che fa dell’espulsione di Arafat il suo più forte punto propagandistico – vede ora ridursi sia i propri spazi di manovra sia la libertà di critica nei confronti di Sharon.

In una recente dichiarazione televisiva, il premier, confortato da tutti i sondaggi interni al Likud che lo danno vincitore sul suo rivale Netanyahu, è sembrato aprire uno spiraglio su una ripresa dei colloqui con i palestinesi: "Alla fine noi raggiungeremo un accordo di pace, e questo costituirà la risposta vera alla situazione economica d’Israele". Il luogo e il momento in cui è stata pronunciata invitano a non attribuire un peso eccessivo a questa dichiarazione; non va però trascurata la presenza di una gravissima crisi economica che potrebbe tramutarsi in un incentivo alla pace. Negli ultimi cinquant’anni la situazione non è mai stata tanto precaria e il crollo del turismo è solo l’elemento più evidente di una situazione compromessa in molti altri settori.

Nel passato e nel presente l’economia è stata a più riprese causa di guerre; per una volta si può forse sperare che questa "scienza triste" contribuisca invece alla pace. Colto in quest’ottica il fatto che la crisi di governo sia nata su una questione di bilancio esula dall’occasionalità e assurge a un ruolo quasi simbolico.

1 C.I. De Benedetti, I sogni non passano in eredità. Cinquant’anni di vita in kibbutz, Giuntina, Firenze 2001, 243.

2 Cf. l’articolo di M. Brubacher, "Le mur della honte", in Le Monde diplomatique, novembre 2002, 20.


articolo tratto da Il Regno logo

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