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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Piero Stefani

Routine di morte

"Il Regno" n. 16 del 2003

A dieci anni da Oslo, in crisi l’ultima proposta di pace


Esattamente dieci anni fa, il 13 settembre 1993, a Washington fu firmata tra Israele e Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) una storica Dichiarazione di principi. Da quel momento in poi l’espressione «processo di pace» cominciò a essere dotata di precisi riscontri internazionali (cf. Regno-att. 18,1993,527).

Sul prato della Casa Bianca, nell’arco formato dalle braccia allargate del presidente statunitense Clinton, il primo ministro israeliano Rabin e il presidente dell’OLP si diedero una stretta di mano dotata di alto valore simbolico.

Dei tre uomini politici sulla scena politica ne rimane solo uno: Rabin pagò con la vita nel novembre del 1995 la sua volontà di pace; Clinton ha concluso da tre anni il suo duplice mandato presidenziale; Arafat, pur assediato dalla primavera del 2001 nel suo quartier generale di Ramallah, dopo un periodo di marginalità politica, è tornato invece a essere un punto di riferimento rispetto all’irrisolto nodo israelo-palestinese.

La Roadmap perduta
Se gli impegni sottoscritti in quella circostanza fossero stati rispettati, il decennale della firma sarebbe stato un tempo di celebrazioni; il settembre 2003 registra invece una delle fasi più acute di una crisi per la quale è sempre più arduo ipotizzare uno sbocco positivo. Il progetto statunitense delineatosi dopo l’11 settembre di ridisegnare completamente la mappa mediorientale si sta dissolvendo tanto nelle sabbie irachene quanto nelle esplosioni degli attentati e nelle macerie delle rappresaglie, nell’incapacità cioè di interlocuzione che contraddistingue l’attuale fase dello scontro israelo-palestinese.

I barlumi di dialogo che sembravano aprirsi con il rilancio della Roadmap avvenuto con il vertice di Aqaba nel giugno scorso (cf. Regno-doc. 11,2003, 382; Regno-att. 12,2003,385) si sono esauriti più rapidamente di quanto lasciasse intravedere una sia pur cauta speranza. La scelta allora compiuta da israeliani e americani di avere un unico interlocutore, Abu Mazen, e la convinzione che questi fosse alternativo e sostitutivo di Arafat si è rivelata non praticabile.

Questa opzione non teneva in debito conto, oltre alla popolarità del presidente dell’ANP e al fatto che, a differenza del suo primo ministro, egli fosse stato eletto direttamente dal popolo, i poteri effettivamente detenuti da Arafat.

È quasi una costante del quadro mediorientale chiedere agli interlocutori, quale precondizione della pace, quanto essi non sono oggettivamente in grado di attuare. In poco tempo Abu Mazen avrebbe dovuto mettere ordine nello sfacelo amministrativo dell’ANP, garantire la trasparenza di una gestione largamente intaccata dalla corruzione, affrontare una situazione economica disastrosa in cui quasi due milioni di palestinesi (su un totale di tre e mezzo) vivono sotto la soglia della povertà e reprimere le componenti terroristiche non avendo il controllo sulle forze di sicurezza interne, in sostanza ancora controllate da Arafat. Proprio su quest’ultimo punto si è consumata l’insanabile frattura tra presidente e primo ministro.

Questione Hamas
La lotta al terrorismo è ritenuta una condizione pregiudiziale per essere accreditati come interlocutori. Per israeliani e americani ciò comporta innanzitutto stroncare Hamas. Il periodo estivo è stato contraddistinto per qualche settimana da una tregua unilaterale proclamata da Hamas e dalla Jihad islamica, quale risposta politica alla strategia israelo-statunitense. Essa non poteva essere strutturalmente legittimata da Israele, pena l’implicito riconoscimento di organizzazioni giudicate in blocco terroristiche e nei cui confronti ci si sente in diritto di compiere eliminazioni mirate. Sull’altro fronte era invece inimmaginabile che non ci fosse un’interlocuzione tra governo palestinese e Hamas.

È però difficile pensare che il consenso nei confronti delle componenti radicali non aumenti in una situazione in cui il consolidamento del processo di pace è messo in costante dubbio dal sistematico non rispetto degli impegni da parte israeliana (lo sgombero delle colonie è stato puramente simbolico; la costruzione del muro divisorio, che ingloba anche parte di territori palestinesi, è continuata senza interruzione; il rilascio di prigionieri è stato molto al di sotto del pattuito) e in cui le forze israeliane si arrogano il diritto di colpire in prima persona i vertici delle organizzazioni palestinesi. Questa prospettiva è tanto più vera in quanto Hamas non è solo un’organizzazione terroristica.

Non c’è dubbio che essa sia anche questo - e in tale direzione si sono espressi di recente anche i paesi europei -, tuttavia non la si può ridurre a una banda armata. A essa fa capo anche una rete assistenziale che, specie a Gaza, è indispensabile per la sopravvivenza stessa della popolazione palestinese. Basti dire che, secondo le stime più accreditate, un quinto della popolazione palestinese appoggia Hamas. Per un qualunque altro governante palestinese e non solo per Abu Mazen questo movimento si presenta anche come un interlocutore politico con cui è inevitabile confrontarsi.

L’ex direttore del Mossad1 Efraim Halevy, estimatore di Sharon e nemico della Roadmap, in un’intervista pubblicata il 5 settembre sul supplemento settimanale del quotidiano israeliano Ha-aretz si è espresso in proposito in termini espliciti. Dopo aver ricordato il radicamento di Hamas presso l’opinione pubblica palestinese e dopo aver sottolineato che il suo essere un gruppo attivo, impegnato e cosciente rende il suo peso politico ancora più rilevante, Halevy ha affermato testualmente: «Chi pensa che sia possibile ignorare un elemento tanto centrale nella società palestinese si sbaglia. E chi pensa che un bel giorno Hamas si dissolva commette lo stesso errore. La strategia di fronte ad Hamas dovrebbe essere costituita tanto dall’uso di una forza brutale contro i suoi apparati terroristici quanto da un messaggio alla sua direzione politica e religiosa». Secondo l’ex direttore dei servizi segreti israeliani «non c’è altra via d’uscita che la partecipazione di Hamas a un governo palestinese». Se si realizza quest’eventualità c’è una possibilità che Hamas ammorbidisca il suo radicalismo e riduca la sua componente distruttiva.

Il ruolo di Arafat
La storia dimostra che chiamare al governo componenti violente per normalizzarle può rivelarsi un errore fatale; tuttavia, tenendo conto della loro provenienza, le osservazioni di Halevy sono tali da rendere ragione dell’affermazione precedente secondo cui nessun dirigente palestinese può ormai governare senza cercare un rapporto con Hamas. Il problema dell’inevitabilità di quel rapporto va collocato in un progetto politico di fuoriuscita dal terrorismo. In questo senso, Israele e gli USA, ma occorrerebbe aggiungere anche l’Europa, hanno il diritto di esigere dai responsabili dell’ANP che la loro azione politica sia estranea a ogni ambiguità verso il terrorismo e finalizzata al suo definitivo superamento.

Il 6 settembre, pochissime ore dopo le dimissioni di Abu Mazen, il governo israeliano si è assunto il grave rischio di cercare di sbarazzarsi fisicamente dello sceicco Ahmed Yassin, capo spirituale di Hamas, la cui popolarità tra i palestinesi è seconda solo a quella di Arafat. Per il suo obiettivo questo tentativo di eliminazione non è paragonabile a quelli attuati prima e dopo nei confronti di capi militari. In questo caso infatti si voleva colpire il vertice più alto di Hamas nella sua componente religiosa e politica.

La risposta di Hamas non è tardata e si è concretizzata nei due sanguinosi attentati suicidi avvenuti presso la base militare di Zrifin e in un quartiere di Gerusalemme ovest, fino allora non colpito in modo diretto dal terrorismo. Questi avvenimenti, a loro volta, hanno dato l’occasione al governo israeliano di proclamare la decisione - per ora virtuale - di espellere Arafat dai Territori e hanno persino consentito al vice premier di ipotizzare di riservare al presidente dell’ANP un trattamento analogo a quello tentato nei confronti di Yassin (misura peraltro auspicata qualche giorno prima dal Jerusalem Post). Pare ragionevole ritenere che simili proclami siano, in prima battuta, destinati a tenere a freno l’opinione pubblica israeliana esasperata da tre anni di Intifada che finora ha provocato 818 vittime (i morti palestinesi sono circa tre volte di più, 2597).2

In secondo luogo questi provvedimenti estremi si presentano come una specie di spada di Damocle posta sul capo di Arafat, la cui sorte potrebbe dipendere da attentati da lui non direttamente controllabili. Sta di fatto che nell’immediato queste ventilate misure hanno di nuovo posto al centro della scena il vecchio leader palestinese che, fino a non molto tempo fa, sembrava destinato ad avviarsi verso un inesorabile declino politico.

La figura del nuovo primo ministro incaricato Abu Ala non differisce per biografia e orientamento politico in modo sensibile da quella di Abu Mazen: entrambi sono antichi membri dell’OLP e negoziatori degli accordi di Oslo. Anzi, il fatto che, a differenza del suo predecessore, Abu Ala non si presenti ai suoi concittadini come l’uomo voluto direttamente dall’America e come l’unico interlocutore di cui Israele dia mostra di fidarsi, potrebbe, in determinate circostanze, giocare a suo favore, consentendogli di trattare godendo di un maggior sostegno da parte dell’opinione pubblica palestinese. Questa possibilità rischia però di essere bruciata dalle minacce israeliane nei confronti di Arafat. Esse hanno nuovamente aggregato attorno al presidente dell’ANP un vasto consenso politico che intacca obiettivamente l’autonomia di manovra degli altri soggetti politici palestinesi.

Anche la Chiesa è divisa
Le ultime scelte israeliane, ignorando il valore politico dei simboli della storia palestinese, sembrano evidenziare una volontà di affossamento del processo di pace senza nel contempo prospettare alcuna alternativa percorribile, vista l’impossibilità pratica da parte dello stato d’Israele di rioccupare e amministrare direttamente i Territori. La prospettiva a breve termine sembra semplicemente quella negativa: sancire l’impossibilità non solo di un accordo, ma anche di una semplice modalità di comunicazione reciproca.

Il tema dell’incomunicabilità non riguarda solamente le relazioni tra i due paesi che si fronteggiano, ma, attraverso essi, il loro interno e le sue diverse componenti.

All’interno dei suoi piccolissimi numeri, la Chiesa latina di Terra santa pare anch’essa sperimentare in proprio la stagione dell’incomunicabilità. La recente nomina di mons. Gurion a vescovo ausiliare di Gerusalemme per sovrintendere ai cattolici di lingua ebraica e la scelta di dotarlo di canali di comunicazione diretta nei riguardi della Santa Sede più che evocare l’antica Chiesa madre di Gerusalemme, appare piuttosto una presa d’atto dell’incomunicabilità tra componenti ebraiche e arabo-palestinesi persino all’interno della comunità dei credenti in Cristo.

Letta sul piano diplomatico la nomina risulta uno sforzo per garantirsi una via d’accesso al governo israeliano alternativa rispetto a quella rappresentata dal patriarca Sabbah, ritenuto ormai troppo apertamente filopalestinese. Le cause di questa triste situazione sono per lo più legate alla storia recente e alla cronaca; vi è però qualche motivo meno immediato, compreso il fatto che la mancanza di una consolidata riflessione teologica sul significato autentico della radice ebraica della Chiesa ha consentito a esponenti cattolici palestinesi, anche autorevoli, di avanzare la singolare pretesa di poter rivendicare in proprio l’eredità della Chiesa madre di Gerusalemme.

1 Pur trattandosi di un testo di una dozzina di anni fa, solo ora è disponibile in italiano un contributo serio sui servizi segreti israliani: B. Morris - I. Black, Mossad, Rizzoli, Milano 2003.

2 I dati sono aggiornati all’11.9.2003.


articolo tratto da Il Regno logo


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