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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Piero Stefani

Dopo l’occupazione, la separazione

"Il Regno" n. 2 del 2004

Il muro: nuova strategia politica di Sharon


Quando il linguaggio si semplifica e si schematizza diviene funzionale alla violenza: non si tratta di un’osservazione nuova, la sua pertinenza resta però immutata. Rinunciare a rispecchiare la varietà e le differenze del reale per stringere tutto entro pochi termini significa predisporre un bersaglio da colpire.

La propaganda bellica giunge al culmine quando non solo accomuna popoli o gruppi sotto l’etichetta di puri nemici, ma giunge a impiegare il singolare: il nemico. Analogamente l’antisemitismo più brutale dall’Ottocento in poi parla dell’ebreo, rendendo in tal modo l’avversario entità compatta e metafisica.

La banalizzazione del linguaggio
Nell’area israelo-palestinese un processo del genere sta avvenendo nel lessico della gente. Questa dinamica rappresenta una spia di un processo degenerativo che pare inarrestabile.

Un’avvocatessa israeliana impegnata nella difesa giuridica dei palestinesi, Leah Tsemel, ha affermato (in un intervento compiuto alla Fondazione Giorgio Cini di Venezia nel dicembre scorso) che fino a non molto tempo addietro i suoi clienti erano soliti riferirsi ai soldati o ai coloni; oggi non è più così; essi parlano genericamente di al-yahud (gli ebrei): gli ebrei mi hanno sequestrato la carta d’identità, mi hanno picchiato, hanno distrutto questo o quello. In modo simmetrico tra i giovani israeliani cresce il desiderio di bandire gli arabi; sui muri si scrive «fuori gli arabi dal nostro paese» o «morte agli arabi».

In questo contesto la posizione di coloro che sono chiamati a salvaguardare le distinzioni e a tutelare le relazioni si fa sempre più difficile. Al contrario, più agevole diviene il compito di coloro che parlano il linguaggio della separazione, che, portato all’estremo, può giungere fino a vagheggiare l’uniformità e la soppressione delle differenze.

Al di là di specifiche valutazioni per ipotesi che andrebbero colte in modo più puntuale e sfumato, resta sintomatico che anche nel lessico politico israeliano possa ormai circolare il riferimento a una separazione unilaterale, vale a dire a un tentativo di raggiungere una pacificazione senza colloqui o accordi bilaterali. Né va sottovalutato il significato che sta assumendo l’erezione del muro che divide, secondo linee largamente arbitrarie, i territori degli uni e degli altri. Come in altri, ancor più celebri, esempi, l’esistenza di un muro di separazione va al di là di motivi di sicurezza o di controllo per assurgere a un ruolo simbolico.

Cattolici: divisioni e comunione
In un simile quadro l’articolazione del linguaggio pastorale all’interno della Chiesa latina di Gerusalemme diviene a un tempo più ardua e più significativa. Realtà quantitativamente piccola, ma qualitativamente rilevante, essa trova rappresentate entro se stessa le due componenti sempre più divergenti: arabi ed ebrei. Non solo, anche al proprio interno vi è una struttura asimmetrica: la sparuta minoranza di cattolici ebrei ha un peso simbolicamente alto, perché è quella che con più credibilità può parlare il linguaggio delle origini con il riferirsi alla neotestamentaria Chiesa madre di Gerusalemme. La recente nomina di Jean-Baptiste Gourion, un vescovo ausiliare del Patriarcato latino di Gerusalemme per i cattolici di espressione ebraica, si pone, quindi, sul crinale tra il linguaggio della relazione e quello della distinzione, tra il riconoscimento di una specificità e la constatazione della difficoltà di una comunicazione interna (cf. Regno-att. 16,2003,105).

Il fatto che nel microcosmo cattolico si rifrangano tensioni più ampie testimonia sia la delicatezza e la serietà del confronto, sia la potenzialità simbolica di quel piccolo nucleo. In occasione della consacrazione episcopale di mons. Gourion, il card. Etchegaray (presente alla cerimonia avvenuta il 9 novembre scorso) ha reso pubblico un messaggio (cf. qui sotto) in cui si afferma che quella ordinazione è «un forte segno (dato da Giovanni Paolo II, ndr.) di incoraggiamento per le due comunità cattoliche di radice ebraica e araba a essere assieme instancabili operatori della pace tra israeliani e palestinesi». Parole dovute, ma anche eloquenti nel momento in cui pure all’interno della comunità dei credenti si fa più riconoscibile il linguaggio della separazione.

Il muro disegna l’apartheid
Su questo sfondo la condanna del muro in via di costruzione assume ancora una volta un significato anche simbolico. Un esteso passaggio del testo di Etchegaray va in questa direzione. Dopo aver richiamato le gravi conseguenze sociali, economiche, educative e sanitarie da esso prodotte, il cardinale afferma che il muro «disegna inesorabilmente una geografia d’apartheid» destinata a potenziare più che a tener a freno la violenza. Inoltre si sostiene che, per estirpare il terrorismo, occorre «una collaborazione ostinata e leale fra i due popoli alla ricerca di una stessa pace». Per riprendere l’espressione di Giovanni Paolo II, occorre cioè costruire ponti che collegano, non muri che dividono. La pace va quindi cercata bilateralmente.

Il riferimento al muro trova spazio anche negli interventi natalizi del patriarca latino Sabbah. Nel messaggio diffuso in vista della solennità che ricorda la nascita di Gesù si legge: «Il muro di separazione che si sta erigendo è una misura che spinge più lontana la pace». L’abbattimento del muro è perciò un passaggio necessario per giungere alla pace. «Con la sua caduta ci sarà anche un venir meno delle ostilità nei cuori e si porrà fine allo spargimento di sangue».

Nell’omelia della notte di Natale Sabbah ha parlato del muro di separazione non solo come fonte di danni materiali, ma anche come misura «contro la natura di questa terra di Dio». Poco prima, pur senza instaurare un legame diretto fra i due riferimenti, aveva citato un passo neotestamentario (Ef 2,14-16) che, a prescindere dalla correttezza filologica e dalla pertinenza teologica, sembra destinato a giocare, in quest’ambito, un crescente ruolo retorico: Cristo è nostra pace in quanto ha abbattuto il muro della separazione distruggendo l’odio nella sua carne.

L’omelia natalizia di Sabbah addita un aumento dell’odio e una crescente disumanizzazione di quella realtà: è inumano spargere sangue innocente così come lo è imporre un’occupazione militare a un popolo. Nel primo caso si può scorgere un riferimento anche al terrorismo palestinese, nel secondo il bersaglio è dichiaratamente israeliano. Nell’analisi proposta dal patriarca la radice del male sta esclusivamente in quest’ultimo fattore: «Per ritrovare la pace, occorre cominciare a riconoscere in cosa consiste il conflitto. Il suo dato essenziale è molto semplicemente l’occupazione di un popolo da parte di un altro. Ecco il male di base che origina ogni sorta di violenza e che è fonte di insicurezza».

La differente politica di occupazione e separazione
Quest’affermazione monolitica non sembra sufficientemente attenta alla dialettica che si sta aprendo in Israele tra la prospettiva dell’occupazione e quella della separazione. Bisogna riconoscere che il muro è anche indice di un disegno politico che va in una direzione antitetica a quella di un’occupazione massiccia dei Territori. La tensione tra Sharon e alcune componenti legate al mondo dei coloni non è tale da attestare una vera e propria rottura, tuttavia essa resta indice di una diversa strategia. La logica della separazione e quella dell’occupazione per definizione non coincidono. È legittimo condannarle entrambe, ma non senza compiere le dovute diversificazioni. È opportuno però cogliere i segnali che, come attestato, per esempio, in alcuni interventi del vice premier (ed ex sindaco di Gerusalemme) Olmert, indicano la presenza nella classe dirigente israeliana anche governativa di interrogativi sul modo con cui Israele possa evitare di cadere integralmente in un apartheid di tipo sudafricano.

Denunciare l’inumanità dell’occupazione è atto dovuto, che non deve essere né sfumato né trattenuto. Altrettanto esplicita deve essere la condanna del terrorismo. Ai primi di dicembre la Commissione teologica diocesana del Patriarcato latino di Gerusalemme ha pubblicato un documento intitolato Riflessioni sulla presenza della Chiesa in Terra santa.1 Il testo è diviso in tre parti, «Violenza e terrorismo», «Ebrei, ebraismo e Stato d’Israele», «Musulmani, islam e società araba». Il documento si apre con la condanna del terrorismo. Una condanna franca. Il fenomeno però è subito ricondotto a un contesto di disperazione, vale a dire alle situazioni d’ingiustizia che provocano il terrorismo. In questa situazione «si erigono muri nel paese e nei cuori. E la speranza si trova ridotta a un puro desiderio di sopravvivere giorno per giorno. Alcuni dichiarano così che la Terra santa è diventata una terra profanata».

Il terrorismo suicida: una riflessione assente
Sarebbe improprio intendere il richiamo alla disperazione come una forma larvata di giustificazione del terrorismo; è però fondato chiedersi se esso non si rifranga in un’analisi troppo generica. In particolare né in questo, né in altri recenti interventi compare un diretto riferimento al terrorismo suicida e alla sua crescente accettazione e pervasività tra le file palestinesi. Appare evidente come questo fenomeno non possa essere spiegato in base alla pura disperazione, ma abbia bisogno sia di potenti motivazioni ideologiche, sia di un profondo mutamento nella concezione antropologica. Una successiva, tragica conferma di ciò è venuta dall’attentato suicida compiuto il 14 gennaio dalla madre ventiduenne di famiglia benestante, Rim Salah al-Riyachi, la prima donna shahid (martire) riconducibile ad Hamas.

Nella sezione dedicata ai rapporti con gli ebrei, il documento della Commissione teologica diocesana dichiara di recepire gli insegnamenti ufficiali della Chiesa in materia. Pone inoltre in rilievo la presenza nel Patriarcato latino di una componente cattolica di ebrei che hanno scelto di vivere «in seno al popolo ebraico» e richiama la recente nomina di un vescovo ausiliare «per questa comunità». Tenendo conto della presenza di persone provenienti da altri paesi, il documento dichiara che la Chiesa di Gerusalemme desidera «vivere una comunione con arabi, ebrei e con coloro che sono venuti dalle nazioni». L’affermazione può essere correttamente intesa solo in modo culturale e pratico: una Chiesa locale ospita al proprio interno persone provenienti da altri luoghi. Tuttavia essa non è trascrivibile su un piano teologico, rispetto al quale gli arabi fanno parte delle genti (nazioni) esattamente come gli appartenenti a tutti i popoli diversi da quello ebraico.

Infine, in relazione ai rapporti con i musulmani, pur ribadendo con vigore l’appartenenza dei cristiani allo stesso popolo palestinese e pur indicando che nel vivere quotidiano i rapporti tra le due componenti sono, in genere, buoni, il testo riconferma, con preoccupazione, la presenza di una spinta diretta a «una discriminazione che tende verso l’islamizzazione di certi movimenti politici», fatto che minaccia non solo i cristiani ma «anche i molti che desiderano una società più aperta».

1 Il documento è firmato da M. Sabbah, B. Marucozzo, F. Bouwen, G. Caputa, P. Du Brul, J. Khader, M. Lahhamam, F. Manns, D. Neuhaus, J.-P. Poffet, T. Stransky.


articolo tratto da Il Regno logo


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