Nazionalismi e fondamentalismi. Islam: alle soglie della modernità
Il conflitto arabo-israeliano e il suo nocciolo – l’interminabile questione palestinese – è assolutamente tragico e complicato. Vi si scontrano violentemente livelli antagonistici di diversa natura, significato e comprensione. Troviamo ormai ai ferri corti questioni di legittimità, giustizia e identità, per non parlare dell’impatto distruttivo dei livelli del sacro implicati nel campo della politica e specialmente di quelli avvolti in mantelli profani. A prima vista sembra che la questione della Palestina, il conflitto arabo-israeliano, israelo-palestinese, costituisca il vero nocciolo e la ragione fondamentale dell’agitazione e della sollevazione nel Medio Oriente. Non si misconoscono le sue conseguenze sempre devastanti affermando che la realtà può essere più complicata. E di fatto appare molto più complicata di quanto inducano a pensare gli avvenimenti a tutti noti visti dall’esterno, e questo non solo perché il conflitto arabo-israeliano, israelo-palestinese, è inserito nel quadro più ampio di una regione tormentata dalla crisi, una regione nella quale una profonda crisi di civiltà mostra i suoi tratti esplosivi, soprattutto nell’ultimo decennio.
Una profonda crisi di civiltà
Cercherò di fare un collegamento sistematico ed esistenziale al tempo stesso fra due serie di eventi, diversi e tuttavia legati, e le loro rispettive analisi: anzitutto, l’analisi della comprensione e della spiegazione della crisi politica, sociale e culturale che sembra caratterizzare la regione araba e la civiltà dell’islam, una crisi destinata a durare ancora a lungo; in secondo luogo, l’analisi del conflitto e attorno al conflitto fra israeliani e palestinesi: una questione al tempo stesso indipendente e inserita nel quadro più ampio della profonda crisi di civiltà della regione e al di là di essa.
Permettetemi di cominciare con un rapido sguardo storico, incentrando l’attenzione sulle vicende di una regione tormentata, sconvolta e profondamente turbata da guerra, estremismo religioso, povertà e instabilità cronica, una regione che si estende dalla Palestina al Kashmir. Sia la Palestina sia il Kashmir sono esempi emblematici di vecchi conflitti che hanno covato sotto la cenere per decenni. La loro genesi può essere fatta risalire, in entrambi i casi, al 1947 e al processo di decolonizzazione, avviato in quell’anno con la divisione della Palestina e dell’India nel quadro dell’incipiente ritiro della potenza coloniale e imperiale britannica. È importante notare che la decolonizzazione è cominciata nel contesto della Guerra fredda, avallata dalla proclamazione della dottrina Truman nel marzo del 1947. A rigor di termini, per circa quattro lunghi decenni, più o meno, tutti i conflitti scoppiati fra il Levante e l’Hindukush sono stati caratterizzati e regolati dal contrasto e dal confronto fra le due superpotenze nucleari. Fra questi conflitti spiccano soprattutto la contesa arabo-israeliana e lo scontro India-Pakistan. L’una è cominciata in Palestina e l’altro nel Kashmir.
Con la fine della Guerra fredda i sistemi di regolazione derivanti dalla sua struttura si sono allentati e sono addirittura scomparsi. Non è casuale, ad esempio, che la prima guerra irachena in seguito all’invasione del Kuwait da parte di Saddam nel 1990 sia scoppiata nello stesso anno in cui ha cominciato a sgretolarsi l’Unione Sovietica. Con la fine dello scontro fra Est e Ovest, fra l’Ovest individualistico e liberal-capitalistico, da un lato, e l’impresa socialista collettivistica, dall’altro, è apparsa in tutta la sua ampiezza una crisi profonda e duratura – il malessere dei paesi arabi e musulmani, un malessere che ha assunto sempre più il carattere di un’estesa e profonda crisi di civiltà. Si può ricordare il recente Humanity Report delle Nazioni Unite, redatto da studiosi e ricercatori arabi e musulmani, che evidenzia uno sconfortante livello di modernità bloccata nel mondo arabo-islamico. In quelle pagine preoccupanti si sottolineano allarmanti carenze: ad esempio, il fatto che nell’intero mondo arabo vi siano meno traduzioni di autori stranieri di quelle che si possono trovare in un piccolo paese come la Grecia; o il fatto che nei paesi arabi e musulmani globalmente presi si discutano annualmente meno tesi sulle scienze naturali di quelle che si discutono nella sola Inghilterra.
Esempi del genere sono innumerevoli. La drasticità di questo deficit in campo accademico e nella cultura letteraria dipende in parte da certi eventi, che, dalla fine della Guerra fredda, non possono più essere razionalmente giustificati con argomentazioni e spiegazioni ideologiche, riassunte nei concetti magniloquenti e onnicomprensivi di cospirazioni dell’imperialismo, del colonialismo, del capitalismo ecc. La fine della Guerra fredda, la fine di un’era di neutralizzazione, ha permesso la manifestazione di situazioni che fino ad allora erano state celate dietro le razionalizzazioni ideologiche. La scoperta dell’effettiva realtà ha inasprito l’analisi laboriosa, apparentemente senza fine, della società araba e anche musulmana: come è possibile che una civiltà già grande, dotta e ricca come quella dell’islam, specialmente la sua componente araba, sia venuta a trovarsi in una condizione di disperazione politica, stagnazione economica, arretratezza tecnologica e regressione culturale? Come è potuto accadere?
Questa domanda è fondamentalmente giustificata, anche se può contenere una qualche stonatura. Indubbiamente la contrapposizione fra il grande e glorioso passato dell’islam come civiltà e l’attuale multiforme malessere dei paesi arabi e islamici può costituire uno stimolo necessario per il cambiamento e lo sviluppo. Ma essa contiene anche un elemento di scissione narcisistica, sostenuta dalla sensazione di fondo che la propria civiltà è privilegiata sul piano della virtù a causa di una superiorità divinamente ordinata. Questa concezione è rafforzata in parte dall’idea che l’islam rappresenti l’apice del monoteismo e che in esso il processo della rivelazione abbia raggiunto il suo pieno e definitivo compimento. Su questo sfondo, l’assenza della grandezza e dello splendore del passato può essere addebitata solo a qualcosa che sia capitato ai musulmani a causa di disonestà e intrighi; l’esito di complotti e prevenzioni.
Il ragionamento rinvia quindi più o meno a macchinazioni esterne, a sofferenze imposte a quella civiltà dal di fuori e compendiate nella metafora della «cospirazione» («mua’marra», in arabo). Il semplice fatto che nel XIX e XX secolo i paesi arabi e musulmani fossero in gran parte o sotto l’influenza europea o sotto un governo coloniale diretto, subissero cioè, per così dire, un’intrusione esterna, sembra essere una dimostrazione e spiegazione sufficiente della lamentata arretratezza. Tale è, in ogni caso, il messaggio onnicomprensivo che passa.
Secolarizzazione bloccata
Indipendentemente dalla succitata auto-lettura islamica della situazione, la diagnosi della (rapida) discesa dalle altezze del passato rinvia di per sé alle radici intellettuali o spirituali estremamente problematiche del vistoso dato di fatto di ciò che può essere definito come una «secolarizzazione bloccata». La giustapposizione senza mediazione del dato temporale – la rigida opposizione fra allora e ora – vi associa implicitamente una qualche comprensione sacra del tempo.
Questa comprensione differisce piuttosto profondamente dalla concezione del tempo legata a una coscienza storica di una temporalità progressiva. Qui sembra evidentemente ignorata la storia, la concezione e lo strumento della spiegazione sociale del destino umano.
Quali sono allora le ragioni che stanno dietro al declino della civiltà islamica, un tempo ricca e prospera? A quali circostanze materiali, aperte alla comprensione storica, si potrebbe rinviare per comprendere le dimensioni dell’attuale crisi della società e della cultura araba e musulmana? La crisi è veramente provocata esclusivamente o principalmente da fattori esterni, come spesso si pretende? Può essere spiegata unicamente con il governo straniero, il colonialismo, l’imperialismo e l’influenza straniera? O i suoi germi sono nascosti piuttosto nella struttura stessa di quella civiltà?
Forse, come spesso accade, c’è qualcosa di vero in entrambe le ipotesi: un intreccio di fattori interni ed esterni o, come dicono i sociologi, di agenti causali endogeni ed esogeni. Naturalmente in questa sede la questione fondamentale può essere affrontata solo brevemente e – lo riconosco – in modo piuttosto superficiale. Qui devo limitarmi a tre elementi:
– anzitutto, la questione della secolarizzazione e delle sue lacune;
– in secondo luogo, la questione della proprietà privata o della sua debolezza;
– in terzo luogo, la questione della libertà politica e della sua assenza.
Vi sono questioni che possono facilitare una maggiore comprensione degli indispensabili requisiti storici e strutturali che emergono in modo esplosivo nell’attuale crisi. Gli esempi addotti per comprendere una profonda crisi strutturale comprenderanno un ampio arco storico-spaziale della storia arabo-musulmana. Potrebbero essere facilmente accusati di fare parte di un approccio evidentemente astorico; quasi a voler insinuare che le strutture sociali del Vicino e Medio Oriente islamico mancano di una sostanziale dimensione dello sviluppo e quindi della storia. Quest’affermazione è in parte corretta, nella misura in cui la rete strutturale sociale dell’Oriente – perlomeno a partire dal Rinascimento – differisce abbastanza profondamente da quella dell’Occidente. Rispetto al dinamismo dell’Occidente, l’Oriente sembra realmente ristagnare.
Cominciamo dalla questione della secolarizzazione, limitandoci a un solo ma significativo fenomeno: la reazione dei musulmani di fronte all’invenzione della stampa da parte di Gutenberg, avvenuta casualmente quasi nello stesso anno in cui l’espansione ottomana raggiungeva il suo culmine con la conquista di Costantinopoli (1453). Parallelamente in Europa, la Riforma come una sorta di secolarizzazione secondaria cominciava a rivoluzionare la relazione fra l’individuo e Dio, specialmente grazie alla traduzione della Bibbia da parte di Lutero e alla sua massiccia diffusione attraverso la stampa.
Sorprendentemente, non vi fu una riproduzione meccanica della scrittura araba. Essa venne praticamente bloccata nell’Impero ottomano. Non che la stampa non fosse conosciuta o che l’introduzione delle relative tecniche nell’Impero ottomano fosse stata generalmente e assolutamente vietata. Infatti gli armeni, i greci e gli ebrei vi stampavano i loro scritti, ma ai musulmani era verosimilmente vietato riprodurre meccanicamente la scrittura araba. I calligrafi continuarono a ricopiarla a mano. Questa situazione e la conoscenza dell’esistenza della stampa inducono a pensare che la motivazione di un tale comportamento fosse religiosa: la scrittura araba era strettamente legata alla lingua della rivelazione. E poiché si considerava inconcepibile la separazione fra la sacra Scrittura e la santità del suo alfabeto, la riproduzione meccanica delle lettere arabe era considerata una profanazione, un’inaccettabile dissacrazione.
Solo nella prima metà del XVIII secolo si introdusse nell’Impero ottomano l’arte della stampa della scrittura araba. Perciò, quasi tre secoli di sviluppo passarono accanto ai musulmani senza coinvolgerli. Data l’importanza rivoluzionaria della riproduzione meccanica e della diffusione della conoscenza a essa associata in Europa e in Occidente – senza questo mezzo il Rinascimento e la Riforma non sarebbero mai stati in grado di operare il loro impatto secolarizzante – si può facilmente comprendere la grande distanza venutasi a creare fra l’Occidente e i paesi arabi proprio durante quel periodo di grande trasformazione dell’alfabetizzazione.
Lo stato e la proprietà
Un secondo esempio riguarda la questione della proprietà, cioè della proprietà privata, quale istituzione fondamentale per lo sviluppo economico. Mentre in Occidente la garanzia della proprietà privata è stata ancorata sempre più saldamente al diritto, nell’Oriente islamico è mancato lo sviluppo di una garanzia di forza analoga in un arco di tempo comparabile a quello dell’Occidente. Senza addentrarmi nelle complessità della varie forme di proprietà, uso e usufrutto, vorrei sottolineare solo un aspetto della corrispondente civiltà dell’Oriente: l’interferenza spesso arbitraria dello stato nelle relazioni di proprietà. Proprio per questo, le famiglie dei grandi mercanti urbani non introducevano i figli negli affari di famiglia, ma li incoraggiavano a entrare nell’amministrazione pubblica e negli apparati governativi. In Oriente, il mercante o il commerciante non poteva mai essere sicuro della ricchezza che aveva accumulato. Perciò, evitava le imprese economiche che per loro natura richiedevano investimenti a lungo termine e comportavano grossi rischi, per esempio gli investimenti nel settore manifatturiero. Si preferiva convertire la ricchezza in proprietà immobiliari e trasformare il titolo o l’atto legale in wakf, cioè in beni in possesso di Dio. Solo attraverso questa sacralizzazione dell’interesse profano l’atto acquistava una protezione assoluta, per così dire eterna.
Il principio di istituzione europea dei diritti di proprietà privata venne introdotto nell’Impero ottomano solo nel 1856, durante il periodo della seconda riforma, immediatamente successivo alla guerra di Crimea. Era una garanzia basata più o meno su un pezzo di carta. Non c’era probabilmente alcuna vera fiducia nell’istituzione della proprietà privata, una lacuna fondamentale per la sua interiorizzazione culturale e mentale.
Infine, un esempio tratto dal campo della politica. Riguarda un episodio risalente al tempo del pascià egiziano Mohammed Ali. Consigliato dai saintsimonisti dei primi dell’Ottocento, decisamente favorevoli all’industrializzazione, egli si decise a modernizzare il paese. A tale scopo inviò vari giovani studiosi in Francia per imparare la lingua e poi tradurre le opere tecniche dal francese in arabo. Con questo trasferimento di conoscenze pensava di poter promuovere la modernità in Egitto. Uno degli studiosi di lingua araba inviato in Francia era Rifaa at-Tahtawi, il quale raccolse le sue osservazioni sul suo soggiorno, per lo più a Parigi, in un diario molto istruttivo. Per la loro incisività le sue illuminanti osservazioni sui rapporti fra la politica e la società ricordano de Toqueville, un autore quasi contemporaneo. Tahtawi, che fu testimone oculare della rivoluzione parigina del luglio 1830, annota nel suo diario che la prosperità economica deriva dalla divisione dei poteri in campo politico. Si può creare ricchezza solo dove un corpo popolare rappresentativo fa le leggi, il potere di chi governa è limitato e sottoposto a un controllo indipendente e il sistema giudiziario è protetto da qualsiasi influenza esterna.
A suo modo, Rifaa at-Tahtawi aveva colto il legame intrinseco che esiste fra politica ed economia, la separazione fra stato e società e la separazione dei poteri più in generale, e aveva compreso che il quadro della libertà istituzionalmente regolata assicura i requisiti indispensabili per la prosperità. Alla luce di questa concezione dovette essere certamente sorpreso e addolorato al vedere che colui che lo aveva mandato a Parigi per essere illuminato aveva sequestrato il manoscritto di una traduzione araba de Il Principe di Machiavelli e ne aveva vietata la pubblicazione. Il pascià egiziano non vedeva alcun motivo per aiutare il suo popolo a comprendere i meccanismi del potere.
Come già accennato, i succitati elementi che hanno ritardato la modernità dell’islam in campo culturale e politico non sono certamente una spiegazione sufficiente della crisi attuale. Ma rinviano a situazioni e tratti strutturali che possono essere difficilmente dedotti da una qualche teoria della cospirazione o da forme esplicative del genere. Inoltre, sembra piuttosto priva di fondamento l’idea ampiamente accettata secondo cui lo sviluppo della civiltà islamica è sostanzialmente ostacolato da forze esterne: dall’Occidente, dall’imperialismo, dal colonialismo e via dicendo. Vi sono certamente molti esempi che evidenziano i notevoli sforzi dell’Occidente per acquistare e accrescere la propria influenza nella regione, ma qui il vero enigma non è l’influenza esercitata dall’Occidente, fino a un controllo coloniale diretto, bensì in primo luogo il fatto che ciò sia potuto avvenire.
Ma ritorniamo al XX secolo. L’ultimo impero musulmano universale, l’Impero ottomano, scomparve con la fine della Prima guerra mondiale. Il suo crollo fu suggellato il giorno in cui i capi dei Giovani turchi decisero fatalmente di entrare in guerra, alleati degli imperi centrali, al fianco della Germania e dell’Austria. Date le immagini attualmente in circolazione, forse sembrerà più che sorprendente affermare che era stato unicamente l’Occidente, in primo luogo l’Inghilterra, ad aver garantito l’esistenza dell’Impero ottomano fin dagli anni trenta dell’Ottocento.
Ciò non era certamente dovuto a una particolare predilezione per gli ottomani, ma all’interesse britannico a sbarrare la strada al nemico per eccellenza della potenza musulmana e rivale regionale dell’Inghilterra, la Russia, nel bacino del Mediterraneo e possibilmente anche in India. A causa dei loro possedimenti indiani, i britannici furono obbligati a perseguire anche una politica relativamente pro-islamica. Dopo tutto, allora la grande maggioranza dei musulmani esistenti nel mondo viveva nell’India britannica. Una fatwa, un decreto legalmente vincolante emanato dallo sheyk-ül-islam – la suprema autorità musulmana sunnita a Istanbul – poteva essere un documento pesante, con un impatto irrimediabile sui musulmani indiani. Tutto questo doveva essere attentamente soppesato a vantaggio dell’Impero britannico e della sua stabilità interna. Lo shock prodotto dall’ammutinamento indiano del 1857 avrebbe continuato a echeggiare per decenni nella coscienza coloniale britannica.
La soppressione del califfato
Nel 1924 Kemal Pasha, celebrato in seguito come il padre della Turchia moderna col nome di Atatürk, provocò una rivoluzione in Oriente. Vietò la scrittura araba, che era a suo avviso la fonte di una concezione oscurantista del mondo. Così facendo, credeva di colpire alla radice l’origine del sacro nell’islam. E il suo progetto di modernizzazione e nazionalizzazione venne portato avanti anche con una notevole dose di coercizione istituzionale. Inoltre, bandì il sultano e smantellò il califfato. Ma la soppressione dell’istituzione dello sheyk-ül-islam, dell’arbitro supremo della legge islamica, fu un atto più radicale, con conseguenze più ampie e diverse.
I musulmani, soprattutto nel subcontinente indiano, si sentirono improvvisamente persi, senza orientamento per regolare le importanti questioni esistenziali della vita religiosa quotidiana. Ben presto in India sorse un movimento favorevole al califfato. In Arabia, il protettore dei luoghi santi di Mecca e Medina, l’emiro hashemita Ali ibn Hussein, si autoproclamò califfo e venne cacciato dal paese dai wahhabiti per aver osato tanto. In Egitto, nel 1928, si costituì la Fraternità musulmana, la madre di tutte le successive organizzazioni islamiche. Said Qutb, uno dei principali interpreti dell’islam radicale, giustiziato nel 1966 dal regime nazionalista panarabo di Nasser, proveniva dalle sue file. In seguito, Osama Bin Laden si sarebbe dichiarato un seguace degli insegnamenti radicali di Said Qutb, mediati dal fratello Mohammed Qutb, che viveva in Arabia Saudita. In varie dichiarazioni, Osama Bin Laden ha ripetutamente affermato che il peccato fatale della civiltà islamica è stato commesso circa 80 anni fa. E sono passati esattamente 80 anni da quando Kemal Pasha Atatürk ha eliminato le istituzioni islamiche, sostituendole con la laica Repubblica turca.
L’abolizione da parte di Atatürk dello sheyk-ül-islam, della scrittura araba e l’imposizione della secolarizzazione sono considerate tra le ingiurie più gravi, responsabili della distruzione della superiorità islamica. Un’altra ingiuria è la costituzione dello Stato d’Israele nel cuore del mondo arabo e della Casa dell’islam. In realtà, il conflitto arabo-israeliano, israelo-palestinese umilia sempre di più gli arabi e i musulmani, caricandoli contro l’Occidente. Gli arabi e i musulmani considerano lo stato ebraico lo strumento occidentale della loro sottomissione, una causa, se non la causa, della loro sventura e miseria.
Il conflitto israelo-palestinese, nazionale e coloniale
Anche se le cose sono sempre più o meno connesse, bisogna distinguere accuratamente fra il conflitto di arabi ed ebrei, israeliani e palestinesi, da un lato, e i notori inconvenienti del sottosviluppo strutturale e della modernità bloccata nel mondo arabo e musulmano, dall’altro. Ciò non rende il conflitto arabo-israeliano meno evidente, pericoloso e tragico. Al contrario. Il conflitto alimenta e avvelena i sentimenti degli arabi e dei musulmani. E i sentimenti di umiliazione e sottomissione sono evidentemente dei fatti politici che non bisogna ignorare.
Che dire allora del conflitto, della sua natura, e delle prospettive di soluzione? Una seria e sincera analisi del conflitto arabo-israeliano, israelo-palestinese non offre alcuna prospettiva ottimistica. Quest’affermazione piuttosto preoccupante prende le mosse dalla doppia natura del conflitto. È un conflitto tanto nazionale quanto coloniale o, più precisamente, un conflitto nazionale ammantato di una caratterizzazione coloniale.
Consideriamo questa distinzione più in dettaglio. Il conflitto è nella sua natura nazionale, perché due popoli, diversi per religione, lingua e cultura, sono costretti a lottare per lo stesso pezzo di terra. Il conflitto è coloniale, perché uno dei due popoli è venuto dal di fuori e poi si è impossessato della terra per costituirsi in nazione alla stregua di tutte le altre nazioni. L’imperativo territoriale nella costituzione di uno stato nazionale ebraico richiedeva che i nuovi arrivati ebrei si opponessero direttamente alla popolazione araba indigena che viveva in quella terra. E mentre il conflitto continua senza fine, si ripetono di volta in volta i suoi schemi originari.
Perché il conflitto non finisce? Perché esistono due tendenze collegate che si rinforzano a vicenda. Vi è la tendenza insita nella posizione araba a negare le conseguenze del processo di acquisizione e controllo della terra – cioè l’esistenza di uno stato nazionale ebraico nella e sulla terra, anche con un’estensione limitata – e a negare il riconoscimento di questo dato, favorendo così la fine del conflitto. Vi è la dinamica interna che agisce da parte israeliana, che impedisce ripetutamente di porre fine al processo di acquisizione della terra ai danni degli arabi di Palestina mediante un insediamento definitivo. La conseguenza di questo conflitto nazionale a carattere coloniale è il caratteristico blocco interno, che fa fallire qualsiasi accordo sulla soluzione.
Se si guarda alle rivendicazioni nazionali che vi sono associate, assumendo un’immagine simmetrica del conflitto – due popoli che lottano per il possesso della stessa terra – potrebbe sembrare che la soluzione del conflitto fosse la semplice spartizione della terra fra di loro. Ma i tratti coloniali che vi sono inscritti rendono il conflitto asimmetrico, contrastando tutte le concezioni riconosciute in materia di territorialità.
Sono asimmetriche anche le rispettive situazioni e i relativi orizzonti temporali degli avversari che ne derivano. Attualmente gli israeliani sembrano militarmente e politicamente onnipotenti, ma sentono di essere storicamente deboli. Deboli sul piano demografico, poiché in prospettiva la demografia potrebbe dare in poco tempo la maggioranza alla popolazione araba. Ciò renderebbe potenzialmente reversibili i successi della trasformazione nazionale della terra e della costituzione dello stato ebraico. Questo aspetto si riflette in un’analoga coscienza della popolazione araba. Pur essendo decisamente minoritaria entro i confini del 1948 dello Stato d’Israele, in termini di coscienza storica e sviluppo demografico sente di far parte di una potenziale maggioranza, una maggioranza che è stata ridotta per il momento, da passeggere circostanze temporali, alla condizione temporanea di minoranza.
Questa consapevolezza esiste anche dall’altra parte. Pur essendo chiaramente maggioritari, gli ebrei in quanto tali sono caratterizzati in un certo senso a priori da una coscienza basata su un’esperienza di minoranza storica. Ed è proprio questa coscienza di una permanente o esistenziale condizione di minoranza che li spinge a escludere fermamente e una volta per tutte la disastrosa scelta di un ritorno a quella condizione storica così familiare. Le prospettive di una diversa identità e le conseguenti dinamiche dell’azione politica legate a tale identità, associate all’aspettativa e alla proiezione demografica, tendono a esacerbare lo scontro.
Analizziamo brevemente le scelte palestinesi in materia di appartenenza e identità. Esistono evidentemente tre possibili varianti di identità per la gran parte dei palestinesi: l’identità palestinese, quella araba e, più in generale, quella musulmana. Come palestinesi, dovrebbero essere accettabili in linea di principio un’interpretazione nazionale del conflitto e un adeguato compromesso e insediamento territoriale. Ma come arabi, quindi come facenti parte di una popolazione, di una cultura e di una civiltà che oltrepassa di gran lunga i confini della Palestina, sono probabilmente meno disposti a una soluzione di compromesso.
In ogni caso, la maggiore estensione territoriale della dimensione araba va di pari passo con una parallela estensione dell’orizzonte temporale. Per quanto illusoria possa essere, questa prospettiva tende a rimandare la disponibilità per una soluzione amichevole del conflitto sulla base di due stati a un lontano futuro, chiudendo di fatto la porta all’azione politica, al negoziato e al compromesso nel presente. E come musulmani, la stragrande maggioranza della popolazione, i palestinesi fanno parte di una popolazione talmente vasta e potente al di là della loro terra e regione da allargare praticamente all’infinito l’orizzonte temporale mobilitato nel conflitto. Una soluzione politica legata solo al presente nella forma di un compromesso si dissolve in un tempo sacro.
L’evidente realtà di un conflitto nazionale a carattere coloniale corrode il tenue tessuto delle consuete analisi sulla legittimità e sull’identità. Il fatto che nel conflitto queste analisi sembrino imposte principalmente (se non esclusivamente) a Israele può dipendere dalla notoria tendenza degli ebrei a riflettere sulla loro identità. Ma nelle sue radici più profonde il continuo discorso sulla legittimità e sull’identità può essere scaturito dai meandri di un dubbio umano fondamentale sulla legalità delle proprie azioni. Dopo tutto, sono stati gli ebrei, assolutamente maggioritari, a prendere il controllo, totale o parziale, della terra. Questo progetto ha necessariamente comportato un cambiamento dello status quo esistente, sul piano demografico, economico, politico e culturale. Infatti, l’obiettivo era un cambiamento fondamentale dello status quo nazionale ed etnico del paese. E chi cerca di cambiare, di trasformare uno status quo è costretto a giustificarlo sia a se stesso che agli altri. È una costante umana fondamentale, antropologica, al di sopra e al di là di ogni specifica situazione storica. Specialmente quando, in seguito, appare chiaramente l’impossibilità di effettuare l’auspicato cambiamento con la benedizione e l’acquiescenza della popolazione indigena, ma solo contro la sua volontà e, all’occorrenza, con la forza.
La storia ha distribuito alla parte ebraica e israeliana le carte più deboli. E questo prevalentemente a causa della scomoda questione dello status quo esistente in loco, una realtà che non si poteva esorcizzare o semplicemente negare. Ciò appare chiaramente dai tempi storici cui si fa riferimento nell’analisi e per l’analisi. Riguardo alla colonizzazione e all’appropriazione della terra, gli ebrei disponevano solo di due tempi per legittimare la loro pretesa: il passato e il futuro. Diversamente dal presente, questi due tempi sono caratterizzati dalla loro specifica virtualità. In definitiva, solo il presente è un tempo reale. E il presente era rappresentato dalla popolazione araba indigena. Al loro arrivo, gli ebrei non potevano fare altro che riferirsi al passato e al futuro contro il recalcitrante presente. Evocare il tempo biblico, risalire molto indietro nel passato; o parlare di un’era utopica di felicità umana in un lontano futuro, quando tutte le contraddizioni esistenti sarebbero svanite come per incanto nell’aria rarefatta. I due tempi virtuali, il passato e il futuro, potevano fare molto, ma non erano in grado di revocare e invalidare il presente, lo status quo esistente in loco.
Legittimità e identità
Tutto questo delinea un’immagine del conflitto che ha – come abbiamo detto – dei tratti fondamentali indubbiamente poco piacevoli. Le sue componenti fondamentali, poco adatte al compromesso, si riducono alla questione dell’effettiva legittimità dello stato ebraico. Tale questione preoccupa continuamente gli stessi israeliani, fino a escludere praticamente altre preoccupazioni. In ultima analisi, tutti i conflitti politici essenziali che scuotono la società israeliana sono fondamentalmente dei conflitti sulla legittimità della loro politica. Il dramma di un discorso sulla legittimità che ruota attorno a se stesso è alla base della situazione che viene estesa da entrambe le parti nel nocciolo più interno del conflitto. Sul versante israeliano, l’insediamento costituisce l’argomento materiale nel discorso sulla legittimità. Esso rappresenta una concreta, pratica incarnazione territoriale della rivendicazione della terra. Sul versante palestinese, la rivendicazione di un «diritto al ritorno» assume un’analoga importanza nel discorso. Entrambe sono componenti costitutive dell’identità dei due popoli, israeliani e palestinesi. E questo anche quando, nell’arena politica, vengono esposte solo da specifici segmenti influenti sui due versanti dello spartiacque.
Bisogna prendere in considerazione la Shoah per comprendere questo hiatus nell’argomentazione sulla legittimità e l’identità. A causa di quell’Evento catastrofico, perlomeno l’Occidente, come cristianità secolarizzata, prova un senso di colpa nei riguardi degli ebrei; e giustamente. A causa di questo senso di colpa l’Occidente ritiene impossibile negare agli ebrei il diritto a una propria patria, alla sovranità. Non si tratta tanto di un diritto codificato e universalmente riconosciuto quanto piuttosto di un privilegio dovuto alla situazione particolare, anzi eccezionale, che riflette la distruzione dell’ebraismo europeo nella coscienza occidentale. E questo privilegio differisce fondamentalmente dalla legittimità basata unicamente su una promessa divina fatta al popolo di Israele, ma peraltro priva di forza vincolante. E questo privilegio, quale bonus di legittimità derivante dalla Shoah, si è tradotto nel riconoscimento dei confini del 1948 di Israele come diretta conseguenza del 1945, accettato universalmente come l’anno convenzionale della fine della guerra, mentre è improbabile il riconoscimento dell’espansione oltre quei «confini di Auschwitz», oltre la linea di confine legittimata unicamente dalla Shoah. Così il definitivo genocidio degli ebrei sembra giustificare una minaccia di distruzione definitiva mediante l’arma definitiva che lo stato ebraico possiede. E tuttavia questa è – anche se affermata con riluttanza – una legittimità che vale solo per lo stato ebraico entro i «confini di Auschwitz», i confini del 1948. Perciò, per l’Occidente, Israele si basa su una legittimità unica nel suo genere, una legittimità giustificata negativamente. È in questo contesto del tabù di Auschwitz che si dovrebbe comprendere il tacito condono dell’arsenale nucleare di Israele.
A differenza dell’Occidente, cioè della cristianità secolarizzata, gli arabi e i musulmani non hanno alcun obbligo riguardo ad Auschwitz. Essi non hanno avuto nulla a che vedere con quegli avvenimenti europei e con quel genocidio. E non appartengono neppure alla tradizione anti-ebraica dell’Occidente legata alla religione che si è in seguito secolarizzata nel moderno anti-semitismo. Tutt’al più possono prendere in considerazione la Shoah nel suo significato più generale e universale, cioè nel suo significato per tutta l’umanità, al di sopra e al di là degli ebrei che ne sono state le vittime. Ma anche il riconoscimento della Shoah come avvenimento universale presuppone una visione degli avvenimenti in gran parte (se non esclusivamente) occidentale; una visione della Shoah come frattura nella civiltà nel suo complesso, una frattura nella quale sono stati gravemente danneggiati i fondamenti della razionalità che, pur umanamente universali, hanno assunto storicamente una forma sostanzialmente occidentale. A causa di quest’enorme barriera cognitiva, è molto improbabile un cambiamento in questa direzione in tempi brevi.
Favorire uno sviluppo culturale
Ritorniamo al nostro punto di partenza: la supposta interrelazione fra la crisi nella regione in rapporto alla modernità e all’ipermodernità e il conflitto arabo-israeliano. Possiamo concludere che è molto improbabile che questo conflitto sia la causa che sottende l’attuale crisi nel contesto della civiltà dell’islam in generale e del mondo arabo in particolare. Piuttosto queste violente mutazioni e distorsioni che lacerano il tessuto della vita quotidiana sono la drammatica espressione di un blocco della modernità che affonda per lo più le radici in un lontano passato, con un’origine in parte esterna, ma principalmente endogena.
La Guerra fredda ha contribuito a mascherare la percezione della lunga suppurazione della crisi. La fine del confronto Est-Ovest e la scomparsa della camicia di forza delle regole del potere che controllavano internamente ed esternamente gli abitanti del luogo e della regione hanno permesso alla crisi di esplodere come un geyser ed essere percepita da tutti. Si può difficilmente negare che le deplorevoli conseguenze del conflitto arabo-israeliano abbiano contribuito a rafforzare il senso di umiliazione nel mondo arabo-musulmano di fronte alla superiorità occidentale. In questa misura esso è realmente parte del suo contesto. Ma è difficile affermare che il conflitto sia la causa di quel sentimento di inferiorità.
Le società musulmane, specialmente nei paesi arabi, sono alle soglie di enormi convulsioni e sollevazioni. Sarebbe una tragedia se l’Occidente dovesse accettare la sfida islamistica di una lotta fra culture, fra civiltà, e via dicendo. Invece di uno scontro fra civiltà, fra culture, è importante promuovere una battaglia culturale nel mondo arabo-islamico. Si tratta in pratica di sostenere tutti coloro che cercano d’introdurre in quel mondo la secolarizzazione, la modernità e la libertà istituzionalizzata. Ciò comprende gli sforzi per spianare la strada a un’interpretazione storico-critica del Corano, introdurre ed estendere la separazione fra lo stato e la religione, raggiungere l’uguaglianza delle donne e promuovere la separazione dei poteri nella vita politica.
Non possiamo non ricordare le intuizioni di Rifaa at-Tahtawi formulate già nel 1830: la ricchezza scaturisce dalla libertà. Alcuni stati arabi e musulmani possiedono un’enorme ricchezza basata sul petrolio. Ma la ricchezza che scaturisce dalla terra e quindi dalla natura, e non dal lavoro, non conduce allo sviluppo. Così la benedizione del petrolio si rivela, in ultima analisi, in certe condizioni politiche, una vera e propria maledizione sociale. Lo stato o i suoi governanti controllano il suolo e quindi il petrolio che esso contiene. Essi lo estraggono e lo vendono, rendendosi conto del suo valore sul mercato mondiale. In tal modo sono in grado di concedere benefici ai loro sudditi, ma anche di non concederli o di revocarli in base alla loro personale e soggettiva volontà. Quindi sono despoti, per quanto esteriormente possano presentarsi illuminati e liberali. Gli arabi e i musulmani hanno certamente un diritto naturale alle benedizioni della democrazia, della libertà, dei diritti umani e della prosperità, allo stesso modo dei membri di altre civiltà e culture.
Ma si deve ancora scoprire ed esplorare che cosa può significare un’autentica democrazia indigena nello specifico contesto culturale dell’Oriente arabo e musulmano. Non ha molto senso trasferire le nozioni e i concetti occidentali di democrazia, sia essa di stampo europeo o americano. Nelle politiche europee, il governo della maggioranza si è sviluppato principalmente lungo le linee della distinzione sociale e degli interessi sociali. Nei parlamenti di stati nazionali relativamente omogenei, i vari schieramenti politici hanno espresso intenzioni per lo più di natura quantitativa. Solo la discussione e il tira-e-molla ha permesso di trovare un equilibrio e di giungere a una legislazione generale. I paesi del mondo culturale arabo-islamico sono tutt’altro che omogenei. Sono formati da gruppi, raggruppamenti e collegamenti etnici e religiosi molto diversi. Il governo basato unicamente sulla maggioranza numerica assicurerebbe il potere al gruppo etnico o religioso più consistente. Questa è una base impossibile per la stabilità e la tranquillità nazionale interna.
L’identità collettiva nell’Oriente arabo sta cambiando rapidamente e profondamente. Per quasi un secolo, l’arabismo ha cercato di presentarsi come una base unitaria d’identità. Era un arabismo caratterizzato, perlomeno nella sua agenda, da un orientamento secolare mirante a unire tutti gli arabi. Perciò il nazionalismo arabo, con la sua natura estremamente nazionalistica, è ricorso a forme di governo basate semplicemente sulla collettività. E queste forme, a causa della loro natura nazionalistica, tendevano internamente al governo dittatoriale, se non totalitario. Si può dire che il regime di Saddam Hussein avesse realizzato questo progetto con somma distorsione dispotica. Ne è risultata una situazione paradossale: l’odio del popolo iracheno per il suo regime era pari all’ammirazione degli altri popoli arabi al di fuori dei suoi confini.
La democrazia nell’Oriente arabo e musulmano significa anzitutto e soprattutto pluralismo e buon governo. Se questo fosse posto in testa alle agende locali emergerebbe una tendenza in linea con le realtà della regione. La regione non verrebbe più denominata Medio Oriente arabo, bensì più correttamente Medio Oriente arabico; arabico, in contrapposizione ad arabo, sottolineerebbe maggiormente gli elementi della lingua e della cultura, come punti di riferimento per l’appartenenza e l’esclusione, analogamente in qualche modo alla tradizione del latino in Europa. E tutto questo in contrasto con la costruzione etnica di un’arabità nel senso di nazione etnica e di concezione collettivistica di un nazionalismo orientato unicamente all’unità, non alla libertà. Il concetto di un mondo arabico, non arabo, servirebbe a porre in primo piano la cultura, la lingua e la civiltà, come nel periodo classico della sua grande fioritura durante il Medioevo. Questo concetto culturale di un’area culturale arabica permetterebbe di includervi maggiormente i cristiani e gli ebrei e di forgiare una concezione regionale di appartenenza in un quadro pluralistico, universalistico e realmente più cosmopolitico.
Ciò che resta è la ben nota questione palestinese. Che dire riguardo al suo impatto sullo sviluppo della regione in una direzione migliore?
Come già osservato, Israele può essere in qualche misura una componente di un contesto deplorevole, ma difficilmente può essere incolpato della profonda crisi della civiltà arabo-islamica. Non c’è evidentemente alcun collegamento causale fra questa sfortunata e deplorevole situazione degli arabi e dei musulmani e l’esistenza dello stato ebraico. Chi potrebbe pensare, ad esempio, di addebitare i guasti della modernizzazione in Pakistan all’esistenza di Israele? Esiste comunque un collegamento su un punto saliente: lo Stato d’Israele rivela, anzi illumina, la debolezza arabo-musulmana. In questo senso, Israele sarebbe una sorta di cartina di tornasole per rilevare la civiltà o la sua mancanza. L’esecuzione di un tale test corrisponderebbe grosso modo alla punizione del messaggero che porta cattive notizie. In questa misura è incontestabile che Israele sia una spina nel fianco del mondo arabo. Un sistema politico percepito come estraneo nella regione, un sistema che sfida ripetutamente gli arabi nella loro identità ferita e nell’immagine eccessiva della loro importanza.
È incontestabile anche che gli arabi palestinesi siano stati le vittime del progetto dello Stato d’Israele fin dal suo inizio. E riguardo alla questione della giustizia, la creazione di uno stato ebraico in Palestina può essere dipesa da un’Europa antisemita e genocida; ma dal punto di vista degli abitanti arabi della Palestina la sua legittimità è estremamente debole. Ma la questione della giustizia non è una buona consigliera in fatto di pace. La pace e la giustizia possono persino escludersi a vicenda, come spesso accade. La giustizia può realizzarsi quando si è raggiunta la pace, anche se sotto forma di giustizia compensativa. Dopo tutto, ciò che importa è assicurare il godimento dei propri diritti e non semplicemente essere dalla parte del diritto.
Nel conflitto profondamente asimmetrico fra ebrei e arabi, israeliani e palestinesi – asimmetrico nel senso di percezioni della giustizia non compatibili – si può raggiungere la pace solo in termini di simmetria funzionale: la divisione del paese in uno stato principalmente, ma non esclusivamente, ebraico, fianco a fianco con un ordinamento politico arabo: Israele e una Palestina indipendente. Naturalmente, in un mondo ideale, sarebbero preferibili altre soluzioni: soluzioni al di sopra e al di là del principio dello stato nazionale. Proposte del genere possono avere molti meriti. Ma non possono realizzare la pace e porre fine al conflitto, relegandolo fra le controversie dimenticate. Una volta conclusa la pace sulla base di due stati separati e sicuri, tutto è realmente possibile. Specialmente se il Medio Oriente pluralistico arabico – e non più semplicemente arabo – si trasformerà in un commonwealth di tutti coloro che vivono nella regione, al di sopra e al di là del nazionalismo e della collettività totalitaria. Allora i confini che assicurano la pace diventeranno permeabili. Il principio dell’individualità soppianterà sempre più quello dell’appartenenza collettiva. E porrà le basi per una modernità qualitativa, culturalmente adeguata e pluralistica nell’Oriente di lingua araba.
Riconosco che si tratta di un orizzonte molto vasto e impegnativo. Ma è comunque un orizzonte che potrebbe fornire un obiettivo e una direzione agli imminenti necessari cambiamenti nella regione, come un universale progetto di sviluppo rivolto all’ampiezza e alla profondità di un’intera civiltà e ai suoi scontenti, offrendo alle persone che vivono in quei luoghi ciò di cui sentono maggiormente la mancanza: la speranza in un futuro migliore.
Dan Diner, Università ebraica, Gerusalemme; Università di Lipsia. Relazione tenuta al VII Incontro di studio organizzato da Il Regno su «Dove dimora il tuo Nome, Gerusalemme? Conflitti, dolore, riconoscimento in nome della religione» (Camaldoli [AR], 10-12.9.2004).