Senza più simboli. Dopo la morte di Arafat
In un suo recente pamphlet, il celebre scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua affronta l’impresa, non piccola, di misurarsi con i temi legati all’antisemitismo e al sionismo. In particolare egli vede nella paura legata a identità incerte di loro stesse una causa costante dell’antisemitismo. Inoltre assegna ancora delle chance al sionismo come via per contribuire alla normalizzazione della condizione ebraica. Ciò però potrà avvenire solo a patto di riuscire a compiere una separazione, o almeno un lento distacco, tra identità religiosa e identità nazionale (e non solo tra stato e religione).
Non è il caso di discutere la globalità delle prospettive indicate da Yehoshua; appare invece opportuno riprendere l’osservazione da lui proposta secondo cui le dinamiche connesse all’incertezza coinvolgano, per più aspetti, l’attuale società israeliana: «Anche Israele, i cui confini sono tornati vaghi dopo la guerra dei Sei giorni e che ha ristabilito un complesso di rapporti torbidi e simbiotici con il popolo palestinese – e di conseguenza con tutto il mondo arabo e musulmano – ha compiuto una regressione rispetto ai suoi primi importanti successi nel definire i limiti della sua identità nazionale al tempo della fondazione dello stato».1
A distanza di quasi quattro decenni, gli eventi del 1967 (guerra dei Sei giorni) si confermano come uno dei fattori di lungo periodo della storia del Novecento. Di fronte alla perenne inquietudine suscitata da «rapporti torbidi e simbiotici» le soluzioni sono sostanzialmente tre: inglobare dentro di sé l’altro dopo averlo reso inoffensivo, stipulare un accordo bilaterale con lui, attuare una separazione unilaterale. La prima opzione, in genere non concretamente perseguibile, può svolgere una funzione retorica nella costruzione di identità aggressive; la seconda è percorribile, ma deve lottare duramente contro le azioni non solo politiche dei sostenitori delle altre due ipotesi; la terza può essere perseguita solo dalla componente più forte, vale a dire, nella fattispecie, dalla parte israeliana, mentre resta per definizione preclusa a quella palestinese.
La drammatica impasse che caratterizza gli attuali rapporti israelo-palestinesi trova riscontro nel fatto che il cammino negoziale è bloccato anche a causa della retorica intransigente legata a identità fragili che pensano, sull’uno e sull’altro fronte, di potersi autodefinire in chiave nazionalistica, mentre, in realtà, la loro consistenza dipende sempre più dalla presenza del nemico.
Le tre fasi di una leadership
La complessa e irrisolta figura di Yasser Arafat ha, oggettivamente, contribuito più di ogni altra a creare e a dare una connotazione politica all’identità nazionale palestinese. I mezzi con cui l’ha fatto non sono indifferenti e qui si affaccia il capitolo, indubbiamente grave, della sua collusione con il terrorismo. Tuttavia è fuorviante liquidare quel leader qualificandolo semplicemente come un terrorista. In effetti la lunga e ondivaga carriera politica di Arafat passa attraverso almeno tre snodi cruciali che restano tali al di là del giudizio riservato alla persona.
La prima fase è quella con cui egli, attraverso l’azione dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), ha suscitato una coscienza nazionale politica palestinese. Lo scopo è stato conseguito ricorrendo al mito della liquidazione dell’«entità sionista» e della creazione di uno stato laico in cui potessero vivere musulmani, ebrei e cristiani. Questo disegno, per essere anche solo retoricamente credibile, aveva bisogno di molte condizioni, tra le quali la presenza di una generale ostilità degli stati arabi laico-nazionalisti nei confronti di Israele e la divisione del mondo in due blocchi (poiché gli USA erano schierati a favore degli israeliani, gli arabi potevano godere dell’appoggio dell’URSS). In questa fase la lotta terroristica era praticata (vedi attentati, dirottamenti aerei ecc.).
Tale linea cominciò a ricevere i primi sostanziali colpi allo scadere degli anni settanta in virtù di due fenomeni di segno opposto: il trattato di pace tra Israele e l’Egitto di Sadat e la rivoluzione iraniana che avviò la tumultuosa crescita, in tutto il Vicino Oriente, dell’islam politico. I successivi anni ottanta si incaricarono di privarla di ogni credibilità. I principali fattori che cooperarono a quest’esito furono la liquidazione della forza militare dell’OLP nel Libano, lo scoppio dell’Intifada delle pietre, non programmata da Arafat, la comparsa di processi di islamizzazione all’interno della lotta palestinese (nascita di Hamas) e il crollo del sistema dei due blocchi. Questa fase giunse a compimento con la prima guerra del Golfo. Dopo di allora fu giocoforza mutare modello.
Già nel 1988, dopo una forte pressione americana, l’OLP aveva accettato la risoluzione delle Nazioni Unite che chiedeva il riconoscimento d’Israele e la rinuncia al terrorismo. È stato però solo negli anni novanta, attraverso i passaggi di Madrid, Oslo e Camp David, che prese inizio l’epoca nuova del riconoscimento reciproco. Mutamento di primaria grandezza sancito dal conferimento ad Arafat, Rabin e Peres del premio Nobel per la pace. Dal punto di vista giuridico-istituzionale l’atto più significativo fu però la trionfale elezione popolare di Arafat a primo presidente della Autorità nazionale palestinese nel 1996.
Questa fase all’interno dei due campi ebbe forti oppositori e avversari spietati, indicabili simbolicamente nell’assassinio di Rabin e nell’avvio del terrorismo suicida. Nel giro di qualche anno vari fattori avrebbero portato al suo drammatico blocco. Tra essi vi fu la constatazione che il riconoscimento come interlocutore di un avversario presentato fino a poco prima con nemico assoluto non ebbe quale contropartita un significativo miglioramento delle condizioni di vita palestinese. Inoltre le rigide scadenze previste dagli accordi di pace venivano sistematicamente disattese. L’intero processo di Oslo subì una grave crisi a opera del governo Netanyahu. Si aggiunga che gli insediamenti dei coloni israeliani continuavano a moltiplicarsi, mentre cresceva in maniera impetuosa la presenza ebraica a Gerusalemme est. In particolare, nelle zone nelle quali la situazione era più disagiata (Gaza), il radicamento di Hamas nella società palestinese diventava sempre più forte. Divenuta forza di governo, al-Fatah (il partito di Arafat) mostrò infine di essere incapace di sottrarsi alla spirale della corruzione e dei favoritismi personali. Il credito del loro leader presso i palestinesi entrò in fase calante.
Il rais decise di non decidere
Queste considerazioni possono far meglio comprendere perché Arafat nel 2000 a Camp David, nonostante il tenace impegno profuso da Bill Clinton, respinse le più favorevoli, per quanto ovviamente ancora limitate, condizioni di pace prospettategli dal premier israeliano Ehud Barak. Nel 1993 il capo dell’OLP aveva sottoscritto clausole meno vantaggiose, sette anni dopo il clima era però mutato. A distanza di quattro anni si può affermare con sicurezza che quel gesto segnò l’ingresso di Arafat nella terza e conclusiva fase della sua carriera, quella dell’impotenza politica. Secondo il diplomatico americano Dennis B. Ross, impegnato per dodici anni (sotto amministrazione sia democratica, sia repubblicana) nei colloqui di pace israelo-palestinesi, Arafat non era disposto a chiudere la sua esistenza passando alla storia come colui che aveva stabilito che i palestinesi dovessero rinunciare per sempre a molte delle loro rivendicazioni.
Fin dal suo inizio (settembre 2000), la seconda Intifada fu caratterizzata da un tasso di violenza di gran lunga superiore alla prima (a tutt’oggi si calcola che abbia fatto circa 900 vittime tra gli israeliani e 3.000 tra i palestinesi). Essa ha mutato radicalmente da ambo le parti strategie e prospettive: solo nei primi diciassette mesi della rivolta si sono registrati una sessantina di attentati suicidi.
Le elezioni di Sharon e il crescente consenso da lui goduto vanno compresi su questo sfondo. Anche se nei primi mesi del suo governo gli attentati, in luogo di diminuire, crescevano, porzioni sempre più rilevanti dell’opinione pubblica israeliana davano credito al nuovo premier. Egli appariva l’uomo capace di conseguire quello che, da sempre, era stato lo scopo della sua vita pubblica prima da militare e poi da politico: la sicurezza d’Israele. Questa opzione si è resa manifesta nelle pesanti azioni militari compiute da Israele in Cisgiordania all’inizio del 2002 che hanno, tra l’altro, costretto Arafat a non muoversi più dal suo semidiroccato quartier generale di Ramallah (luogo che ora ne custodisce le spoglie).
In quel frangente Gaza non fu soggetta ad attacchi israeliani. In una fase successiva invece gli interventi si sono concentrati proprio in quest’ultima zona e, attraverso la tecnica delle uccisioni mirate, hanno provocato la decapitazione dei vertici di Hamas. Con la costruzione del Muro che in Cisgiordania ridefinisce a vantaggio di Israele il confine del 1967 e con il programmato abbandono di Gaza, la strategia di Sharon è diventata inequivocabile: la sua ricetta per ridare sicurezza a Israele è la separazione unilaterale. L’uomo che sembrava contrario a ogni concessione prospetta in tal modo la rinuncia a un intero territorio: estrema destra e sinistra, per ragioni opposte, restano spiazzate. Tuttavia un ritiro unilaterale è tutt’altra cosa da un processo negoziale. Si aggiunga anche che l’appoggio dato da Sharon ai coloni non comportò mai l’accettazione dell’ipotesi del Grande Israele. Esso rappresentava solo un’ipotesi difensiva dello stato che poteva contare su quegli avamposti. Tale opzione è ancora parzialmente in piedi in Cisgiordania mentre è definitivamente tramontata a Gaza.
In questo quadro ogni iniziativa di accordi bilaterali appare impraticabile: la Road map non ha mai avuto effettive carte da giocare. Questa debolezza è imputabile anche al tiepido impegno profuso nello scacchiere dall’amministrazione Bush, a lungo convinta che la risoluzione del contenzioso mediorientale passasse tutta per Baghdad. Quanto è invece certo è che l’esito immediatamente riscontrabile della seconda Intifada è il peggioramento verticale delle condizioni di vita nei Territori. Secondo statistiche delle Nazioni Unite, il 50% dei 2,2 milioni di palestinesi che abitano in Cisgiordania vivono al di sotto del livello di povertà (nel 2001 erano il 22%), percentuale che sale al 68% per i 1.300.000 abitanti di Gaza. Si aggiunga che nella società israeliana il tasso di disoccupazione ha toccato livelli senza precedenti.
La formazione di una nuova leadership palestinese
Arafat è morto senza indicare un successore. A detta di qualche osservatore ciò è avvenuto perché egli non era psicologicamente capace di farlo, è lui e nessun altro ad aver forgiato e incarnato il movimento nazionale palestinese. Il candidato che attualmente sembra avere più possibilità è Abu Mazen, l’ex primo ministro che si dovette dimettere proprio per contrasti con Arafat sulla determinazione della sua autonomia decisionale. Si tratta dell’uomo forse più gradito a Israele; preferenza che, peraltro, non può essere dichiarata senza che ciò si trasformi in un gravissimo handicap all’elezione dello stesso Abu Mazen. Il radicamento di Hamas tra le file palestinesi è fortissimo. Dato non sorprendente per un gruppo che, lungi dall’essere solo terroristico, è anche un’organizzazione socio-assistenziale all’interno di una società disastrata (condizione in parte imputabile alla sua stessa politica terroristica). Tuttavia Hamas, sulla scorta dei Fratelli musulmani egiziani a cui si ispira, cerca più di penetrare nella società che di conquistare direttamente il potere. Va aggiunto che i suoi leader storici sono stati praticamente tutti eliminati dagli israeliani. Nelle elezioni di gennaio essa avrà comunque un ruolo significativo. Resta infatti vero che nei Territori si fronteggiano in pratica orami solo due schieramenti: al-Fatah e Hamas.
A Gilles Paris, corrispondente da Israele del quotidiano Le Monde, è stata posta la domanda se la morte di Arafat rappresenti un’opportunità o piuttosto una controindicazione al processo di pace. La risposta è stata articolata: da un lato con Arafat gli israeliani avrebbero potuto contare su una firma vincolante, poiché nessun palestinese avrebbe mai contestato un accordo da lui sottoscritto; dall’altro lato però per gli israeliani egli era diventato un ostacolo alla conclusione di un trattato. Così egli suggeriva ai palestinesi di prendere in parola i moniti israeliani stando ai quali Arafat costituiva un impedimento alla ripresa dei negoziati. Che cosa impedisce dunque ora di riprendere le trattative? Vi è da dubitare sull’efficacia pratica di questo consiglio. Per quanto è dato vedere, al giorno d’oggi la volontà di separazione sembra aver la meglio su quella negoziale. Per firmare un accordo, non basta condividerlo e neppure semplicemente volerlo. Occorre anche avere la forza per esserne garanti. Chi può garantire e vincolare oggi i palestinesi? Tutto è in gioco senza e dopo il rais.
1 A.B. Yehoshua, Antisemitismo e sionismo. Una discussione, Einaudi, Torino 2004, 58.