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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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Piero Stefani

Rischiare la pace

"Il Regno" n. 2 del 2005

Due eventi diversi, ma entrambi di portata storica, avvenuti nel corso del 2004, la decisione israeliana di sgombrare la striscia di Gaza e la morte di Arafat (cf. Regno-att. 20,2004,662), costituiscono lo sfondo decisivo per la comprensione di due mutamenti che nelle ultime settimane hanno contraddistinto lo scacchiere israelo-palestinese: l’elezione di Abu Mazen a presidente dell’Autorità nazionale palestinese e la formazione di un nuovo governo israeliano.

Mahmud Abbas – vero nome di Abu Mazen – uomo di dialogo e non di lotta armata, ha costituito il proprio destino all’ombra di Yasser Arafat, a cui succede dopo aver raggiunto un’età ormai piuttosto avanzata. Nato nel 1935 a Safed in Galilea, che lasciò nel 1948 all’atto della creazione dello Stato d’Israele, Abu Mazen si stabilì prima a Damasco, poi al Cairo e infine a Mosca; in seguito s’impegnò a lungo in un dialogo con la sinistra e i movimenti pacifisti israeliani. Dal 1980 fa parte dell’esecutivo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, di cui divenne segretario generale nel 1996, accreditandosi ufficialmente in tal modo come delfino di Arafat. È stato il principale artefice da parte palestinese degli Accordi di Oslo nel 1993, e uno dei firmatari dei successivi accordi di Camp David.

Politicamente debole, ma autorevole e determinato
Chiamato da Arafat alla carica di primo ministro palestinese e accreditato da parte di Israele e Stati Uniti della qualifica di unico interlocutore palestinese potenzialmente credibile, Abu Mazen fu costretto a dimettersi nel 2003, pochi mesi dopo, per contrasti con Arafat (cf. Regno-att. 16,2003,505). Essi per la massima parte riguardavano il controllo della pletora di organismi creati per vigilare sulla sicurezza interna (tema chiave per stroncare o tollerare componenti terroristiche). Questa tensione, avvenuta a poca distanza dalla morte del raìs, appare ora un fattore che ha reso meno condizionante il cono d’ombra di Arafat, entro cui si è svolta la lunga militanza politica dell’attuale presidente palestinese.

Abu Mazen non è un leader forte; reduce da un successo elettorale chiaro ma non trionfale, si è trovato, per via delle due circostanze evocate in apertura, nella situazione, irripetibile, di poter dare una nuova chance di rilancio a un processo di pace che sembrava ormai definitivamente compromesso. All’atto del suo insediamento il neo presidente ha dichiarato che l’Autorità palestinese «è pronta a realizzare i suoi obblighi previsti dalla Road map e a concertare gli sforzi fino al suo compimento; siamo destinati a vivere fianco a fianco e a condividere questa terra. La sola alternativa alla pace è la prosecuzione dell’occupazione e del conflitto». L’evocazione della Road map, un documento che non ha mai effettivamente inciso sugli sviluppi dei rapporti israelo-palestinesi, in questo contesto sta a significare una semplice quanto importante volontà di riprendere la via negoziale. Perché questa strada sia effettivamente percorribile occorre che Abu Mazen cresca come leader. Ciò può avvenire solo se lo si fa crescere. Da questo punto di vista il ruolo di Israele e Stati Uniti è primario.

In particolare appaiono due i fronti su cui operare. Il primo consiste nell’assicurazione che la volontà negoziale non può essere esposta a revoca ogniqualvolta compaiano azioni terroristiche. Per quanto possa suonare sgradevole, percorrere la via della pace significa mettere in campo la concreta possibilità di attentati, peraltro già verificatisi nel nodale valico di Kharni, la porta di accesso a Gaza. Dichiarare anticipatamente che si continuerà a negoziare nonostante il terrorismo toglierebbe ai movimenti radicali una formidabile arma di ricatto e dimostrerebbe la saldissima volontà, da entrambe le parti, di giungere a un accordo. Per fare ciò occorrerebbe ipotizzare concrete forme di collaborazione israelo-palestinese nella lotta contro gli estremisti. Eventualità quest’ultima opposta a quella percorsa negli ultimi anni. Questa ipotetica azione congiunta sarebbe però tollerata dalla società palestinese solo a fronte di precise contropartite.

Qui si apre il secondo fronte lungo il quale può crescere la statura di leader di Abu Mazen: il miglioramento delle condizioni di vita della società palestinese. Questa prospettiva comporta non solo la volontà di continuare a fornire aiuti internazionali, ma anche quella di compiere controlli severi affinché essi giungano effettivamente alla destinazione prevista. Dopo quattro anni e mezzo di Intifada la condizione attuale non consente mezze misure: il 53% della forza lavoro è disoccupato, fra il 64 e il 70% della popolazione vive sotto il livello di povertà (400 dollari al mese per una famiglia di 4 persone), a Gaza il 40% dell’acqua usata dalla popolazione è inquinato, in Cisgiordania il 20% degli abitanti è senza energia elettrica.

Sharon, Peres e la storia
In occasione della fiducia assegnata al terzo governo Sharon, contrassegnato dal ritorno dei laburisti nella compagine ministeriale, il quotidiano israeliano Haaretz ha osservato che «il primo ministro ha un paese, ma non ha più un partito». Allo stato attuale si tratta di un cambio politicamente vantaggioso. La risicatissima maggioranza parlamentare di cui gode il governo (58 voti a favore, 56 contrari e 6 astenuti) costringerà a compiere alcune concessioni per ottenere qualche voto indispensabile nel caso dell’approvazione di leggi particolari (come quella del bilancio), ma non intaccherà la forza del leader il quale, godendo di un crescente consenso nel paese, può sempre minacciare il ricorso a elezioni anticipate (la scadenza naturale della legislatura è prevista per il novembre 2006). Sui deputati ribelli del suo partito grava dunque una minaccia non di poco conto.

Ciò non significa che il governo sia esonerato dal cercare di conseguire una maggioranza meno precaria. Sharon è perciò intenzionato a far rientrare nella maggioranza il partito religioso sefardita Shass. La fiducia dell’attuale governo è stata infatti resa possibile solo dall’appoggio di cinque deputati di un altro gruppo religioso, il Partito dell’ebraismo unificato della Torah, che si è messo in una posizione di attesa di tre mesi alla fine della quale deciderà se entrare al governo o passare all’opposizione.

Un ruolo cruciale a proposito di questa scelta è stato svolto da rabbi Shalom Elyashiv, il leader spirituale del Degel ha-Torah («bandiera della Torah»), una delle due anime del partito. Alcuni osservatori hanno ipotizzato che questa decisione segni un’inversione di tendenza dei partiti religiosi ultra-ortodossi. Essi sembrano infatti volti a recuperare il precedente interesse, concentrato su una presenza interna alla società israeliana, e a voltare le spalle all’ideologia messianicheggiante che nello scorso decennio fece da collante tra loro e gli aderenti alla linea ultra-ortodossa presenti in particolare tra i coloni. Se fosse così la novità consisterebbe nel fare un passo indietro e tornare a posizioni preoccupate soprattutto di tutelare pubblicamente che gli ebrei si presentino davvero come popolo della Torah.

Il nuovo governo israeliano, composto da 22 ministri, ha riservato un posto di prestigio all’ultraottuagenario esponente laburista Shimon Peres, a cui è stato affidato il delicatissimo incarico di supervisionare il piano di sgombero, entro l’anno corrente, dalla striscia di Gaza. Peraltro il precedente vice primo ministro Ehud Olmert conserva ancora le proprie mansioni, così come fanno altri «colonnelli» del Likud: Sylvan Shalom (Esteri), Shaul Mofaz (Difesa), Benyamin Netanyahu (Finanze). A Ophir Pines, rappresentante della giovane guardia laburista, è stata affidata la carica di ministro degli Interni; mentre Benyamin Ben Eliezer, già ministro della Difesa in un precedente governo di coalizione, eredita il Ministero delle infrastrutture, posto di rilievo che ha in carico i lavori di costruzione nelle colonie.

Nel corso del 2004 gli abitanti degli insediamenti ebraici sono aumentati, passando da 236.381 a 250.179; in particolare nella striscia di Gaza l’incremento è stato dell’11% (molto più alto di quello della media nazionale, 1,7%). Anche rispetto a questa indicazione di minor conto, lo sgombero dei coloni da Gaza segna una vera e propria inversione di una tendenza ancora ben salda all’interno della società israeliana. Allo sgombero della striscia di Gaza va quindi affidato il ruolo di effettivo banco di prova. Sulla stampa ebraica progressista del nostro paese sono apparsi commenti entusiasti alla nomina di Yonathan Bassi, israeliano di origine italiana, a coordinatore delle operazioni di evacuazione. A tal proposito ci si è richiamati anche alle tradizionali capacità moderatrici dell’ebraismo italico; si tratta di considerazioni forse anche plausibili ma certo del tutto marginali per un avvenimento che va commentato con un respiro più ampio di queste note cultural-nazionali.

articolo tratto da Il Regno logo

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