Vuoto politico. La Palestina di Hamas e l’Israele del dopo-Sharon
Lo spessore a suo modo paradigmatico di cui, almeno da quarant’anni a questa parte (vale a dire dalla guerra dei sei giorni), è dotata la questione israelo-palestinese sta nell’aver anticipato su molti fronti situazioni che, con le debite differenze, trovano parziale riscontro anche altrove. Il primo fattore che salta agli occhi è la consapevolezza di questa terra di essere un luogo di contatto fisico tra l’Occidente e un mondo «altro» che non può né ignorare l’Occidente né identificarvisi. In questo quadro gli ultimi decenni hanno visto sempre più ampliarsi, nella composita società palestinese, gli influssi islamici. La tendenza è aumentata in ragione inversa all’impotenza e all’umiliazione sociale e politica in cui si trovavano i palestinesi.
La crescente presa dell’islam deriva dal fatto di essersi imposto come un’ideologia, diventando un fattore di mobilitazione e di identificazione collettive. Si tratta di un movimento volto a operare nella storia e a dare forza e motivazione a un gruppo che altrimenti avrebbe da mettere sul proprio conto tratti quasi solo perdenti. Non per nulla, fin dalla sua nascita, l’islam ha portato con sé una visione rassicurante rispetto al destino storico dell’umma musulmana.
La trasformazione ideologica dell’islam
In ambito palestinese, le tendenze islamizzanti sono diventate vincenti a livello popolare solo quando, accanto al tema della contrapposizione violenta nei confronti di Israele, hanno potuto innescare due altri fattori tipici dell’azione dell’islamismo radicale all’interno delle società musulmane: la moralizzazione pubblica e la solidarietà-fraternità musulmana. La denuncia della corruzione e degli stili di vita personali della classe dirigente prima dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) e poi dell’Autorità nazionale palestinese (ANP) è diventata incontenibile nel momento in cui si è avviato un processo di riconoscimento e di parziale pacificazione con la controparte israeliana. Questo compromesso ha portato con sé una crescita di riconoscimenti e di aiuti internazionali senza che a ciò corrispondesse un sostanziale e diffuso miglioramento delle condizioni di vita della popolazione palestinese.
Il nuovo corso rendeva più visibili solo le sperequazioni. I funzionari laici dell’ANP e tutto il sottobosco a loro collegato risultavano, perciò, sempre più in contraddizione con l’ideale musulmano della solidarietà interna che, per quanto non possa vantare molti esempi storici concreti, può idealmente appoggiarsi sul terzo dei cinque pilastri dell’islam (la cosiddetta decima o elemosina legale).
Sul «certificato di nascita» di Hamas si legge: «Gaza 9 dicembre 1987 per iniziativa di sei Fratelli musulmani di ascendenza giordana». Scegliendo fin dal principio la lotta armata, Hamas ha seguito le orme della Jihad islamica (fondata nel 1980). Per i Fratelli musulmani palestinesi di osservanza egiziana il punto chiave stava nell’attuare la re-islamizzazione della società; alla fine proprio questa via avrebbe condotto alla liberazione della Palestina. Per la Jihad islamica era invece prioritaria la lotta armata. Hamas compie una sintesi fra le due tendenze. Questa scelta è apparsa vincente. Così facendo la lotta contro il nemico sionista si coniugava con la denuncia della dirigenza palestinese.
La scelta ha consentito ad Hamas di restare una formazione nazionalista religiosa imperniata su una questione territoriale. Inoltre per un certo lasso di tempo la contrapposizione all’OLP gli ha consentito addirittura di essere segretamente finanziato persino da Israele. Emarginato dopo Oslo (1993), combattuto dai servizi segreti dell’ANP, Hamas ha tratto vantaggio dagli errori israeliani, primo fra tutti la distruzione parziale dell’Autorità palestinese all’inizio della seconda Intifada. L’opzione israeliana di eliminare i capi di Hamas – a cominciare dallo sceicco Yassin – attraverso omicidi mirati e la stagione più intensa del «martirio» dei terroristi suicidi hanno fatto rapidamente aumentare il consenso da esso goduto all’interno della società palestinese.
Per quanto le sue manchevolezze divenissero ogni giorno più palesi, Arafat rimase fino alla morte un simbolo vivente della causa palestinese. Dal punto di vista politico restava un riferimento nazionale inattaccabile. Hamas ha iniziato quindi a conquistare spazi soprattutto nella società, a cominciare dalle aree più periferiche (Gaza). La legittimazione politica dell’ANP, compiuta attraverso processi elettorali internazionalmente riconosciuti, è frutto degli Accordi di Oslo il cui rifiuto costituisce, fino a oggi, un punto ideologico indiscutibile di Hamas. Il rifiuto radicale era incompatibile con la partecipazione alle elezioni. Su questo fronte si è assistito però a una progressiva evoluzione.
Come sempre il primo terreno su cui trova riscontro politico una forza socialmente radicata sono le elezioni amministrative. Così è stato anche per Hamas. La più precoce affermazione è stata la conquista di molte municipalità. Dopo la morte di Arafat, ha deciso di non partecipare alle elezioni presidenziali, vinte da Abu Mazen. Tuttavia nel gennaio 2006 – forte anche di quello che poteva presentare come un suo successo politico, ossia lo sgombero israeliano da Gaza – Hamas è sceso in campo nelle elezioni politiche ottenendo un successo travolgente. Per valutare meglio gli esiti elettorali bisogna tener conto del fatto che l’attuale consiglio nazionale palestinese è composto per metà da rappresentanti nazionali presentati da undici liste e per metà da candidati locali eletti in sedici circoscrizioni.
Nelle elezioni legislative del 25 gennaio scorso Hamas ha conquistato, nel complesso, 76 seggi contro i 43 della formazione Al Fatah di Abu Mazen. La sconfitta severissima del gruppo dirigenziale storico assume la dimensione di una vera e propria catastrofe se si tengono in considerazione i risultati delle liste locali. In quest’ambito sia a Gaza sia in Cisgiordania la vittoria di Hamas è stata schiacciante: 46 seggi contro 16 (altri partiti 4 seggi); molto meno netto il divario sulla lista nazionale (30 seggi contro 27, altri partiti 9). Il radicamento locale di Hamas appare fuori discussione.
Il più triviale antisemitismo europeo
Se si prende alla lettera la Carta di Hamas approvata nel giugno 1988, gli spazi di manovra per un’apertura di trattive con Israele sono nulli. Il suo articolo 8 indica che per il militante «Dio è il suo scopo, il Profeta è il suo capo, il Corano è la sua costituzione, il jihad il suo metodo e morire in nome di Dio è il suo più caro desiderio». L’obiettivo è «liberare la Palestina», che appartiene tutta ai musulmani. Gli articoli 22 e 29 rispolverano vecchi armamentari del più triviale antisemitismo europeo, ivi compresi i Protocolli dei savi di Sion e il riferimento alle congiure giudaico-massoniche a cui sarebbero imputabili lo scoppio delle guerre mondiali, la creazione dell’ONU e del diritto internazionale «per governare il mondo».
Questo linguaggio non va sottovalutato. La sua applicabilità è in effetti nulla; tuttavia esso è spia tanto di un drammatico ritardo culturale quanto del consenso di cui gode. D’altra parte tali riferimenti confermano l’esistenza da parte degli islamisti di un debito, quanto meno retorico, nei confronti dei più foschi tratti della (in)civiltà europea (osservazione che, a suo modo, confuta la versione ingenua dello scontro tra civiltà). Le parole scritte sulle carte dicono però qualcosa, non tutto.
Nel settembre 2003, forse l’ultimo frangente in cui Arafat si trovò al centro della scena politica, l’ex direttore del Mossad, Efraim Halevy, nel corso di un’intervista espresse delle prese di posizione riprese due anni e mezzo più tardi da altri. Halevy, dopo aver ricordato il radicamento di Hamas presso l’opinione pubblica palestinese e dopo aver sottolineato che il suo essere un gruppo attivo e cosciente rende il suo peso politico più rilevante, dichiarava illusione ipotizzarne un rapido declino: «La strategia di fronte ad Hamas dovrebbe essere costituita tanto dall’uso di una forza brutale contro i suoi apparati terroristici quanto da un messaggio alla sua direzione politica e religiosa». Secondo l’ex direttore dei servizi segreti israeliani «non c’è altra via di uscita che la partecipazione di Hamas a un governo palestinese». Se si fosse realizzata quest’eventualità Hamas avrebbe forse ammorbidito il suo radicalismo e ridotto la sua componente distruttiva (cf. Regno-att. 16,2003,506). L’ipotesi di favorire la scelta territoriale e politica di Hamas, corredata dal corrispettivo abbandono del terrorismo, non è dunque di oggi.
Senza illusioni
La stessa partecipazione di Hamas alle elezioni, conseguenza diretta degli accordi internazionali stipulati dall’ANP, significa di per sé un’accettazione pratica dell’esistenza d’Israele. Del resto, attualmente i suoi dirigenti parlano con regolarità del ritiro d’Israele entro i confini del 1967 in cambio di una «lunga tregua». Su questo sfondo la questione dei finanziamenti internazionali ai palestinesi è rilevante. La loro drastica abolizione perorata dal segretario di stato americano – finora respinta sia dall’Egitto sia dall’Arabia Saudita – rafforzerebbe inevitabilmente l’ala radicale sensibile alle lusinghe iraniane. In realtà, proprio come a suo tempo avvenne nel caso dell’OLP, anche all’interno di Hamas si nota una polarizzazione tra la componente meno estrema operante nei territori e quella più intransigente costituita dai leader in esilio.
La scelta di affidare a Ismail Hanyeh l’incarico di formare il nuovo governo va letta in questa direzione. Capolista alle elezioni legislative, Hanyeh è in genere considerato un pragmatico, ma forse sarebbe meglio qualificarlo come una voce profondamente radicata nella società palestinese e in particolare a Gaza. Come insegnano le vicende precedenti, le trattative si fanno con chi rappresenta effettivamente i palestinesi. Anche l’OLP in passato è stata considerata solo un’organizzazione terrorista con cui non si poteva trattare; Arafat non poteva neppure mettere piede negli Stati Uniti reaganiani. Poi, non si è stati costretti a sceglierla come interlocutrice. Si possono chiedere precondizioni rigorose solo alla controparte con cui si è disposti a trattare. Per questa via si può anche allargare il varco formato dalle spinte divaricanti presenti nella stessa Hamas.
Senza illusioni: i retaggi della stagione terroristica e della retorica martiriale sono senza dubbio potenti e non di breve durata. Lo stesso può dirsi per la presenza di sentimenti e azioni anti-israeliani e antioccidentali in seno a buona parte della popolazione palestinese. Sono nodi con cui in ogni caso bisogna dapprima convivere e poi cercare lentamente di allentare.
Israele: manca ancora il leader
Sull’altra sponda vi è l’Israele del dopo Sharon. Quest’uomo d’azione ridotto a un’impotente sopravvivenza lascia un vuoto difficile da colmare. Salito al potere nel 2001, con la sua azione di governo ha lasciato il segno nella storia israeliana soprattutto in relazione a quattro punti: l’operazione «Scudo difensivo» del 2002, la costruzione del muro di separazione e d’inglobamento che divide i territori israeliani da quelli palestinesi, lo sgombero di Gaza e, da ultimo, lo sconvolgimento del sistema politico israeliano con la nascita di un nuovo partito, Kadima. Le ripetute irruzioni nei territori palestinesi, l’assedio di Arafat nel suo semidistrutto quartier generale di Ramallah, i successivi assassinii mirati dei capi di Hamas a Gaza voluti da Sharon si sarebbero rivelati via senza sbocco se avessero rappresentato una scelta di lungo periodo. Si è trattato di atti che hanno lasciato retaggi pesanti; tuttavia essi rientravano nell’operazione di rassicurare l’opinione pubblica israeliana di essere guidata da un uomo energico capace d’intervenire con decisione.
Con questa sua prima fase di governo, Sharon ha definitivamente convinto la maggior parte della popolazione israeliana di avere un capo deciso e sicuro. La conquista di questo credito ha consentito, passando per l’erezione del muro, di effettuare lo sgombero di Gaza in modo sostanzialmente pacifico (cf. Regno-att. 16,2005,523). Il vecchio motto della sinistra «Pace in cambio di territori» veniva così ridefinito in modo da essere condotto all’insegna della decisione autonoma e della sicurezza d’Israele. Su questo fronte Sharon non lascia per ora eredi.
La creazione di un partito che occupa il centro dello schieramento politico emarginando i due grandi protagonisti dell’intera storia politica dello Stato d’Israele, Partito laburista e Likud, è stata l’ultima operazione vincente condotta da Sharon. Il vero problema di Kadima non saranno le elezioni – l’esito sembra assicurato – quanto far crescere il livello di leadership dell’attuale capo del governo ad interim, Ehud Olmert. Si potrebbe dire: «Il partito è fatto, ora bisogna fare il leader». La massima difficoltà, ma anche la più grande opportunità che si presenta a Olmert per diventare un capo all’altezza di quanto la storia gli chiede, è costituita dal formidabile mutamento avvenuto dopo l’uscita di scena di Sharon: la vittoria di Hamas. Le prime reazioni di Olmert sono state finora comprensibilmente interlocutorie. Se, dopo le elezioni di fine marzo, saprà far fronte con efficacia a quest’inedita situazione, l’ex sindaco di Gerusalemme potrà diventare un leader nazionale non schiacciato dall’ombra massiccia del suo grande predecessore.