LA NOSTRA ARMA SI CHIAMA NON VIOLENZA
I pastori di Hebron
"LA NOSTRA ARMA SI CHIAMA VIOLENZA"
di Michelangelo Cocco
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/13-Dicembre-2008/art39.html
Hafez Huraini è il leader del comitato di pastori delle colline a sud di Hebron, una delle zone della Cisgiordania occupata (area C secondo gli accordi di Oslo: sotto completo controllo israeliano) maggiormente funestata dalla presenza dei coloni. Operazione colomba, l'ong d'ispirazione cattolica con una presenza permanente in Palestina, la settimana scorsa ha portato Huraini in Italia, per una serie d'incontri che ci ha dato modo di discutere di quella "pressione continua che - denuncia il palestinese - dagli anni '80 ha portato a uno spopolamento (il 20% in meno) dei villaggi dell'area, nei quali sono rimaste circa 3.000 persone".
Qual è la particolarità di at-Tuwani?
Il mio villaggio, at-Tuwani, e gli altri centri a sud di Hebron, sono abitati
da gente semplice, quasi tutti pastori o agricoltori: la terra rappresenta la
nostra unica fonte di sostentamento. Dal 1967 in poi, l'occupazione israeliana
ha perseguito una "strategia di espulsione" dei palestinesi da quest'area,
vicina alla Linea verde. L'esercito - che ci confisca le terre dopo averle dichiarate
zone militari - e i coloni sono gli strumenti attraverso i quali viene messa
in pratica questa strategia.
Come avvengono le demolizioni che denunciate?
L'esercito distrugge case, abitazioni ricavate in grotte, sistemi d'irrigazione:
secondo le leggi dell'occupazione per costruire qualsiasi cosa dobbiamo ottenere
un permesso, che però non ci viene mai accordato. Quindi tutto può
essere demolito. Abitiamo un'area in cui le colonie più importanti (Karmel,
Maon, Susia, beit Atir) sono popolate da settler tra i più estremisti,
molti dei quali immigrati dagli Usa: provano a cacciarci picchiandoci, distruggendo
le nostre proprietà, avvelenando le nostre pecore, tagliando i nostri
ulivi.
Come nasce il vostro comitato?
Siamo quasi tutti pastori. Dopo anni d'occupazione, ci siamo posti il problema
di come resistere alle violazioni del diritto umanitario da parte di Israele:
abbiamo scelto la lotta nonviolenta, da praticare assieme ai nostri amici israeliani,
singoli individui o pacifisti di organizzazioni come Rabbis for human rights,
B'tselem, Taiush e altri. Agiamo nell'ambito legale, con i ricorsi alla Corte
suprema e ai tribunali, e in quello mediatico.
Quando i palestinesi si sono rivolti alla "giustizia" dell'occupante,
come nel caso del comitato popolare di Bilin contro il Muro, hanno ottenuto
successi parziali. Non temete inoltre di legittimare il "sistema giuridico"
che è alla base delle vostre sofferenze?
Noi intendiamo mostrare ai cittadini israeliani che il loro esercito non rispetta
le loro stesse leggi. Le decisioni emesse dalla Corte suprema a volte sono in
favore dei palestinesi, come quando nel 2000 stabilì che gli abitanti
espulsi da 11 villaggi della nostra area dovessero far rientro nelle loro case.
Semplicemente non vengono implementate.
Crede che a guidare la resistenza palestinese saranno lotte non-violente e
di base come la vostra?
Ritengo che la questione palestinese sia una profonda ingiustizia e che per
vincere dobbiamo creare una cultura di riconciliazione e pace tra palestinesi
e israeliani. Attraverso la nostra battaglia (resistere alle violenze dei coloni,
impedire la distruzione dei campi, etc.) alcuni israeliani vengono a conoscenza
dei nostri diritti. L'occupazione vuole creare la massima tensione, affinché
i palestinesi reagiscano con la violenza ai suoi crimini, dandosi così
la scusa per ulteriori repressioni e per rubarci sempre più terra. Noi
l'abbiamo capito e per questo abbiamo adottato un modello non-violento.