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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Il reportage. Tra le macerie del campo profughi

Bilancio di 22 giorni di fuoco

«Con gli estremisti al potere, solo guai». Rabbia, carcasse e case rase al suolo. Ritorno a Jabalya

JABALYA (Gaza settentrionale) - In un groviglio di lamiere di ferro, terriccio e tubi di plastica si intravedono le carcasse in putrefazione delle 380 mucche da latte di Mohammad Al Fayumi. I carri armati israeliani prima hanno sparato contro la stalla, poi ci sono passati sopra, triturando sotto i loro cingoli bestie e cose. Poco lontano, la seconda stalla con altre 450 carcasse di animali sparse tutto attorno è stata parzialmente risparmiata. Il danno per lui è gigantesco: «Ho perso circa un milione di dollari. Ho già licenziato i miei 15 dipendenti. Dovrò cominciare tutto dal nulla». Non è il solo. A un centinaio di metri i membri della «hamula» (il clan familiare) Dardona stanno stimando i danni. «Avevamo oltre tremila ulivi e aranci. Sono tutti divelti.

Raccogliamo i resti, ci serviranno almeno come legna da ardere per il futuro, visto che non abbiamo neppure i soldi per le bombole del gas», dice Amna Dardona, 68 anni, china tra i resti dei rami a cercare di individuare i legni migliori. Figli, cugini e nipoti fanno la spola tra la terra arata dai tank ed uno spiazzo tra le macerie dove stanno accatastando tutto ciò che resta di un qualche valore. Tutte le loro sei villette di due o tre piani sono state colpite in modo irreparabile. «Dovremo abbatterle e ricostruirle», spiega Kamal Dardona, il figlio quarantenne, impegnato a rimuovere dalle abitazioni ciò che ancora funziona: un vecchio frigorifero, un tavolo, qualche coperta, piatti, secchi di plastica.

Le truppe scelte israeliane hanno bivaccato in una delle abitazioni, prima di evacuarla hanno distrutto a mazzate gabinetti, lavandini, infissi, poi si sono accanite sui mobili accatastandoli in mezzo alle stanze e appiccando il fuoco. I soffitti sono tutti anneriti. In giardino hanno preso a fucilate il cane, galline, oche e tre capre. I resti di alcuni degli animali sono stati gettati nel pozzo a inquinare l' acqua. La lista delle devastazioni potrebbe continuare all' infinito. Tra le rovine delle zone nord-orientali di Jabalya, migliaia di abitazioni abbattute o da abbattere, la distruzione metodica eletta a sistema, un deserto di macerie. E un nome che ha in sé una lunga scia di ricordi per chiunque abbia seguito la storia recente del conflitto israelo-palestinese. Questo è infatti il più popoloso campo profughi palestinese della «striscia della disperazione». Ci vivono oltre 80 mila persone, comprese le zone delle piccole industrie alla periferia orientale e i quartieri nuovi costruiti dopo l' arrivo di Yasser Arafat nel 1994.

E qui, il 7 dicembre 1987, scoccò la scintilla della prima intifada. Nove abitanti di Jabalya rimasero uccisi in un incidente d' auto contro un mezzo militare mentre tornavano dal loro lavoro di operai pendolari in Israele. Due giorni dopo i loro funerali dettero fuoco alla rivolta. Per la prima volta gli slogan tradizionali dell' Olp furono affiancati a quelli fondamentalisti-religiosi inneggianti alla «guerra santa». Ieri verso mezzogiorno, per la prima volta dall' inizio dell' operazione di terra israeliana, migliaia di abitanti della zona stavano tornando alle loro case per verificare i danni. E con loro abbiamo cercato di capire quali fossero le conseguenze.

Davvero Hamas è stata indebolita, davvero ha perso consensi come affermano a Gerusalemme? Molto difficile dire. Tanti tra i più giovani, e non solo loro, gridano vendetta. «Hamas ci vendicherà, nonostante tutto abbiamo vinto», dicono rabbiosi. Ma tanti altri tacciono e lavorano tra le rovine. «Siamo tutti sotto shock. Non avremmo mai pensato che Israele potesse arrivare a tanta barbarie. Solo tra qualche settimana vedremo se davvero questa azione rafforzerà Fatah ai danni di Hamas», sostiene Nabil Hassan Nasser, proprietario di una grande azienda che sino a un mese fa produceva olio. Adesso è ridotta a un cumulo di macerie.

Poco lontano si trova anche l' abitazione di Ezzedin Abu Al-Aysh, il ginecologo di Tel Aviv che ha perso le tre figlie di 13, 14 e 20 anni «in diretta». Quando un proiettile di tank ha colpito la sua casa lui stava parlando alla tv israeliana e ha continuato in lacrime a descrivere la scena. Ora si trova in Israele. Per lui parla il fratello Atta. «Tutti noi crediamo alla pace. Con gli israeliani vogliamo negoziare. Hamas sta perdendo consensi. Pochi lo ammettono ad alta voce. Ma da quando è salita al potere non ci ha procurato che guai», afferma. «Questa è stata una gigantesca punizione collettiva. Volevano terrorizzarci, ucciderci. Qui si è consumato un grave crimine di guerra. Non è vero che gli israeliani tiravano solo contro Hamas. Li ho visti sparare su donne e bambini, su vecchi e animali, senza pietà».

(Lorenzo Cremonesi, Corriere della sera, 20 gennaio 2009)

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