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Guida del mondo 2007/2008. Il mondo visto dal Sud - Ed. EMI (Editrice Missionaria Italiana)
Trovandosi
in una zona ad alta conflittualità, all’inizio della guerra fredda
l’Afghanistan cercò di mantenersi equidistante tra Stati Uniti e Unione
Sovietica, ma si vide a poco a poco costretto a dipendere sempre più
dall’URSS a causa dell’appoggio dato dagli USA al Pakistan. A partire dal
1955, migliaia di afghani furono regolarmente inviati a studiare in Unione
Sovietica, dove ricevevano una formazione soprattutto militare.
Le
ambizioni indipendentiste dei pashtun spinsero Daud a ricorrere a misure
repressive. Nel 1961 il Pakistan chiuse le frontiere con l’Afghanistan.
L’influenza sovietica cominciò a farsi sentire con alcune tendenze marxiste
nella stampa e anche nel governo. Nel marzo 1963 il re Zahir “accettò
le dimissioni” di Daud e, due mesi dopo, il Pakistan riaprì le frontiere. Muhammad
Yusuf fu nominato primo ministro. Egli propose un gabinetto di tecnocrati e
intellettuali e approntò una nuova Costituzione basata sui principi della
libertà individuale che preservava, al tempo stesso, i valori dell’islam e la
monarchia.
Venne
fondato in clandestinità il Partito Democratico del Popolo Afghano (PDPA),
che nel 1965 organizzò le prime manifestazioni antimonarchiche. In breve il
PDPA si divise tra il gruppo Jalq (composto dall’etnia tagik o afghanopersiana),
che mirava a una rivoluzione basata esclusivamente sull’alleanza tra operai e
contadini, e gli aderenti al Parcham o “bandiera” (dell’etnia pashtun),
che cercavano un’ampia unione popolare con la partecipazione degli
intellettuali, della borghesia nazionale, delle classi medie urbane e dei
militari.
Lavoratori
e studenti cominciarono a organizzarsi attivamente nelle zone industriali del
paese. Poiché le manifestazioni diventavano sempre più frequenti, anche le
critiche al re si fecero più aperte. Mosca, che non aveva apprezzato la
sostituzione di Daud, sostenne nel 1973 la nomina dello stesso a
presidente, mentre il re Zahir Ahas si trovava all’estero. Con l’appoggio
del PDPA fu proclamata la repubblica e venne abrogata la Costituzione del 1964.
Daud
propose un programma basato sulla democrazia e sul socialismo, soprattutto
riguardo a riforma agraria, nazionalizzazione delle banche, sviluppo industriale
e giustizia sociale. La nuova Costituzione a partito unico, basata sul modello
dell’Algeria e dell’Egitto di Nasser, fu approvata nell’aprile del 1977 e
Daud, che aveva deposto i ministri comunisti perdendo l’appoggio di Mosca, fu
eletto presidente per un periodo di 10 anni.
Daud
cercò di riallacciare i legami con il mondo islamico. Si recò in Kuwait,
Arabia Saudita ed Egitto e cercò di riconciliarsi con lo shah di Persia nel
1978, riuscendo solo ad anticipare la propria caduta. I militari organizzati dal
Parcham lo assassinarono con tutta la sua famiglia e designarono al suo posto Nur
Mohamed Taraki, che fu anche nominato segretario del PDPA. Hafizullah Amin,
dirigente di una fazione comunista rivale, e Babrak Karmal, leader del Parcham,
furono nominati vice primi ministri. Il conflitto tra questi ultimi si risolse a
favore di Amin, che nell’aprile del 1979 ricoprì la carica di primo
ministro e a settembre depose e fece uccidere il suo ex alleato Taraki.
Amin
rivoluzionò i modelli culturali del paese introducendo cambiamenti come
l’eliminazione della “dote”, l’alfabetizzazione secondo valori laici e
la riforma agraria. Benché Amin avesse assicurato che l’Afghanistan si
considerava un paese non allineato, i contadini, a conoscenza delle trasmissioni
di Radio Mosca, ritennero che il nuovo governo fosse marxista, filosovietico e
quindi ateo. Nel febbraio 1979 l’ambasciatore nordamericano a Kabul fu
sequestrato e assassinato. Gli Stati Uniti congelarono gli aiuti economici e
aumentarono la loro ostilità verso un governo che qualificarono come
filosovietico.
Amin fu
ucciso durante un colpo di stato che, con l’appoggio delle truppe
sovietiche penetrate nel paese “per motivi strategici” nel dicembre 1979,
finì per portare Babrak Karmal alle cariche di primo ministro,
presidente del Consiglio Rivoluzionario e Segretario Generale del PDPA. In varie
parti del paese cominciò a crescere la resistenza contro gli invasori sovietici
e si organizzarono i guerriglieri mujaheddin (combattenti per la fede).
Musulmani fondamentalisti giunsero nei territori afghani con spedizioni di
volontari finanziate dall’Arabia Saudita. Nello stesso tempo, milioni di
contadini afgani si rifugiarono nei vicini Pakistan e Iran.
La
guerriglia dei mujaheddin, divisi in diverse fazioni sostenute da
altrettanti paesi (Stati Uniti, Iran, Pakistan, Arabia Saudita), coincideva con
l’aumento dei contrasti a Kabul. Nel maggio 1986 Karmal fu sostituito come
segretario del PDPA da Mohammed Najibullah, un giovane medico pashtun,
che nel gennaio 1987 annunciò un cessate il fuoco unilaterale, accompagnato da
garanzie per i capi dell’opposizione disposti a trattare con il governo, da
un’amnistia per i ribelli prigionieri e dalla promessa di un prossimo ritiro
delle truppe sovietiche. I mujaheddin, tuttavia, continuarono a combattere.
Dopo sei
anni di trattative, fu firmato a Ginevra un accordo afghano-pakistano,
sotto il patrocinio di Stati Uniti e Unione Sovietica. Tale accordo garantiva il
rientro volontario dei profughi, che erano allora 4 milioni. Un altro documento,
firmato da Afghanistan e URSS, disponeva il ritiro delle truppe sovietiche. Il
PDPA cambiò il suo nome in Partito Watan (Partito della Patria).
Nel
settembre 1991 gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica decisero
congiuntamente di sospendere l’invio di armi al governo e alla guerriglia
afghana. Il patto lasciò aperto lo scontro tra Arabia Saudita e Iran e i gruppi
di mujaheddin finanziati dai due paesi. Il regime di Kabul, una volta scomparsa
l’URSS, restò senza appoggi esterni e, dopo che il presidente Najibullah si
fu rifugiato nella sede dell’ONU a Kabul, nell’aprile del 1992 il governo
passò nelle mani dei quattro vicepresidenti.
Le autorità annunciarono la volontà di negoziare con i gruppi ribelli, ma il loro incontro con il comandante Ahmed Shah Massud, del Jamiat-i-Islami, provocò le proteste dei gruppi di mujaheddin di maggioranza pashtun del sud e dell’est del paese. Dal Pakistan, Gulbuddin Hekmatyar, capo del gruppo fondamentalista Hezb-i-Islami, minacciò di iniziare il bombardamento della capitale se il governo non si fosse dimesso. Nei giorni seguenti, forze di Massud e di Hekmatyar iniziarono i combattimenti all’interno della stessa Kabul.
L’alleanza
dei gruppi islamici moderati capeggiati da Ahmed Shah Massud, il nuovo ministro
della Difesa, ottenne il controllo della capitale, espellendo gli integralisti
guidati da Gulbuddin Hekmatyar. In maggio, il Consiglio Interno dissolse
formalmente il Partito Watan (ex PDPA). Furono disciolti anche la KHAD, polizia
segreta, e l’Assemblea Nazionale.
Alcuni
cambiamenti mostrarono l’intenzione del governo di reintrodurre nel paese la legge
islamica: fu proibita la vendita di alcolici e si cercò di imporre nuove
regolamentazioni per obbligare le donne a coprirsi il capo e a indossare gli
abiti tradizionali. Hekmatyar continuò la lotta contro Kabul, esigendo il
ritiro di Massud e delle milizie di Abdel Rashid Dostam. Quest’ultimo era
stato membro del governo comunista, che aveva abbandonato per unirsi ai
guerriglieri musulmani che avevano preso il potere.
In quel
periodo l’economia del paese era paralizzata e il 60% dell’apparato
produttivo distrutto. L’Afghanistan diventò il maggiore produttore di oppio
del mondo. Il governo pakistano decise di bloccare il contrabbando di alimentari
e di armi attraverso la sua frontiera con l’Afghanistan per indebolire
Hekmatyar, che lo accusò di compromettere le relazioni tra i due paesi.
A
partire dal 1993, il presidente a Kabul e capo del Jamiat-i-Islami,
Buranuddin Rabbani, Hekhmatyar e Dostam furono i principali leader in un
conflitto contrassegnato da accordi e tradimenti finché, nel 1995, la nascita
del gruppo armato dei Taliban (“studiosi del Corano”) nel sud
dell’Afghanistan modificò il corso della guerra. Questi guerriglieri,
addestrati in Pakistan, avevano l’obiettivo di creare un governo islamico
unito in Afghanistan. Secondo il loro proclama, i leader prima menzionati
costituivano una “alleanza integralista-comunista” che minacciava l’islam.
Oltre al
Pakistan, l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti appoggiarono l’intervento
dell’esercito taliban che nel settembre del 1996 conquistò Kabul,
mentre il governo si dirigeva verso il nord del paese. Il capo dei taliban era
Mohammed Omar Akhunzada (il Mullah Omar), eletto nell’aprile del 1996
“comandante dei credenti” (amir ol-momumin). Nel giugno del 1997 si
formò il Fronte Islamico Nazionale Unito per la Salvezza dell’Afghanistan, più
noto come Alleanza del Nord (AN) o Fronte Unico, composto in maggioranza da
gruppi tagichi, uzbechi e hazari.
Presa
Kabul, seguendo le norme di governo derivate da un’interpretazione rigida del
Corano, i taliban eliminarono le donne dalla scena pubblica e dal sistema
educativo, restaurando il purdah. Proibirono anche la musica e il canto
(tranne gli inni religiosi), il cinema, il teatro e le bevande alcoliche,
dichiarandoli “non islamici”. Alla fine del 2000, l’esercito
taliban controllava più del 95% del territorio afghano.
Il 3
settembre del 2001 Massud, leader dell’AN, fu assassinato – si suppone su
istigazione del Mullah Omar – e ciò rappresentò un colpo mortale per le
aspirazioni dell’opposizione afghana. Circa una settimana dopo, l’11
settembre 2001, si verificò l’attacco terroristico contro New York e
Washington. Gli Stati Uniti ne attribuirono la responsabilità
all’organizzazione terroristica al-Qaeda, diretta dal saudita Osama Bin
Laden, ex mujaheddin che viveva in Afghanistan con migliaia dei suoi uomini,
protetto dai taliban.
Nel
settembre del 2001 il Consiglio degli anziani, riunitosi a Kabul, chiese al
governo taliban di persuadere Bin Laden ad abbandonare volontariamente il paese.
Il Consiglio risolse anche di proclamare un jihad (guerra santa) qualora
gli Stati Uniti avessero attaccato l’Afghanistan.
Il 7
ottobre cominciarono i bombardamenti aerei dell’Afghanistan, nell’ambito
della campagna denominata inizialmente “Giustizia Infinita” e in seguito
“Libertà Duratura” dal presidente George W. Bush. La coalizione contro
l’Afghanistan contò sulla partecipazione diretta di Regno Unito, Australia e
Canada, e sull’appoggio della UE e della Nato (inclusa la Turchia), di Cina,
Russia, Israele, India, Arabia Saudita e Pakistan, ex alleato dei taliban.
L’Iran e l’Iraq condannarono gli attacchi. Rabbani non solo diede il
benvenuto all’intervento militare occidentale, ma dichiarò che il futuro
dell’Afghanistan dipendeva dalla “distruzione” dei taliban.
In
seguito ai bombardamenti, che durarono diverse settimane, l’AN recuperò due
terzi del paese e il 13 novembre fece ingresso a Kabul. Buona parte della
popolazione accolse favorevolmente l’arrivo dell’AN, che poneva fine sia al
regime dei taliban, sia ai bombardamenti statunitensi.
La
caduta dei taliban era imminente quando si svolse la Conferenza Interafghana
a Bonn. Per la prima volta due donne parteciparono alla discussione. Venne
firmato un accordo in base al quale si creava un’Amministrazione ad interim di
30 membri, alla cui presidenza fu nominato il pashtun filomonarchico Hamid
Karzai. Si concordò un programma di due anni e mezzo fino alla celebrazione
di elezioni generali, prima delle quali si sarebbero formate una Loya Jirga (Assemblea)
d’Emergenza, una Autorità di transizione e una Loya Jirga Costituzionale,
assistite da una Forza di sicurezza internazionale dell’ONU. Abdullah, Qanuni
e Fahim furono confermati nelle funzioni che già svolgevano nel governo
dell’Alleanza, mentre l’ex re Mohamed Zahir Shah inaugurò la Loya Jirga.
Rabbani accettò le decisioni adottate il 12 dicembre, anche se, secondo lui,
Karzai era un presidente “imposto dall’esterno”. Il 22 dicembre assunse il
potere Karzai.
Nel
febbraio del 2002 Bush diede ordine di riallacciare le relazioni
commerciali con l’Afghanistan, dopo 16 anni di interruzione. La lotta tra le
fazioni proseguiva e, nonostante la caccia globale ai terroristi capeggiata
dagli Stati Uniti, Osama Bin Laden e il Mullah Omar non erano ancora stati
catturati.
Nonostante
la fine ufficiale della guerra, l’Afghanistan era ancora soggetto ad attacchi.
Nel luglio del 2002, nel villaggio meridionale di Deh Rawud, un aereo militare
USA uccise circa 50 civili afghani e ne ferì oltre 100. Alcuni giorni dopo il
vicepresidente Haji Abdul Qadir fu assassinato con il suo autista.
Un certo
Abdul Rahman, sospettato di appartenere ad al-Qaeda, sparò quattro raffiche di
mitra contro la vettura su cui viaggiava Karzai uccidendo il governatore di
Kandahar Gul Agha Sherzai e una guardia del corpo.
Dopo
oltre due decenni di conflitti armati, alla fine del 2002 il territorio afghano
risultava uno dei più minati del mondo.
Gran
parte del paese era controllato da potenti signori della guerra sostenuti dagli
Stati Uniti che facevano i propri comodi senza alcuna interferenza da parte del
governo centrale. L’autorità del presidente Karzai era circoscritta quasi
esclusivamente alla capitale.
Nell’ambito
di un’apertura virtuale al mondo, nel marzo 2003 l’Afghanistan attivò
il suo dominio su Internet; durante il regime talebano chiunque tentasse di
accedere a Internet, eccezion fatta per i membri del governo, rischiava la
condanna a morte.
Nonostante
la caduta del regime talebano, la condizione femminile rimase difficile: a parte
Kabul, nelle altre zone del paese le donne che esprimevano il desiderio di
studiare o lavorare venivano perseguitate e obbligate a sposarsi e un gran
numero di bambini in tenera età (anche di quattro anni) venivano rapiti e
venduti all’estero, destinati al mercato del lavoro o della prostituzione.
Nell’agosto
del 2003 la NATO lanciò una missione di pace in Afghanistan, la prima a
varcare i confini europei sin dalla nascita dell’organizzazione (1949). Alla
NATO venne affidata la programmazione, la supervisione, il comando e il
controllo delle Forze di Sicurezza Internazionali in Afghanistan sotto gli
auspici dell’ONU.
In vista
delle prime elezioni nazionali dopo trent’anni di regime fissate per il giugno
del 2004, nell’agosto del 2003 l’ONU e il governo afghano firmarono un
accordo che prevedeva la compilazione dei registri elettorali. Il censimento
venne effettuato sia da funzionari uomini che da donne in modo da agevolare la
registrazione delle elettrici.
Nel mese
di novembre la Commissione per le Riforme Costituzionali inviò al presidente
Karzai e all’inviato speciale dell’ONU Lakhdar Brahimi una bozza
della nuova Costituzione che prevedeva la creazione di una repubblica islamica
in cui fosse garantita a tutti i cittadini la parità dei diritti. Questa
Costituzione non fa riferimento esplicito alla sharia, ma è chiaro che
le leggi di un paese musulmano non possono contraddire la legge islamica.
Amnesty International avverte infatti che questo testo costituzionale non tutela
fino in fondo i diritti delle donne, in quanto non condanna esplicitamente la
discriminazione sessuale e non riconosce completamente la parità dei sessi.
Nel
maggio del 2004 l’Ong Human Rights Watch (HRW) ha denunciato i
“maltrattamenti sistematici” inflitti dai soldati americani ai prigionieri
afghani e ha richiesto un’indagine su 3 decessi. Secondo questa Ong che si
occupa di tutela dei diritti umani, i prigionieri afghani avrebbero subito gli
stessi maltrattamenti riservati dai militari statunitensi ai soldati iracheni,
ossia sarebbero stati privati del sonno, esposti a temperature gelide,
malmenati, denudati, umiliati e fotografati senza indumenti. A conferma di ciò,
anche il portavoce dell’ONU Manoel de Almeida e Silva ha affermato di aver
ricevuto negli ultimi due anni diverse denunce di violazioni dei diritti umani.
Si ritiene che nella principale base americana di Bagram a nord di Kabul
siano detenuti 300 soldati afghani e che gli americani tengano prigionieri un
numero imprecisato di militari in altre basi segrete.
Il 3
novembre 2004 Karzai vinse le prime elezioni presidenziali con il 55%
delle preferenze. L’opposizione denunciò brogli elettorali, ma una
commissione formata da tre funzionari dell’ONU sancì che i problemi
riscontrati nel sistema elettorale non avevano comunque influito sul risultato
finale, che confermò Karzai presidente dell’Afghanistan. Nel
tentativo di instaurare negoziati di pace con i taliban, nel gennaio 2005
l’esercito degli Stati Uniti liberò 80 prigionieri detenuti nella base aerea
americana di Bagram perché sospettati di far parte del movimento. Il primo
rapporto sullo sviluppo del paese, pubblicato dall’ONU nel febbraio del 2005,
segnalò che tre anni dopo la caduta del regime taliban l’Afghanistan
continuava a essere uno degli stati più poveri del pianeta e che ciò rischiava
di farlo precipitare nuovamente nel caos. Secondo il rapporto c’era stata una
certa crescita economica, ma questa non aveva portato alcun beneficio alle
classi povere. Le donne rappresentavano ancora la parte più penalizzata della
società, condannate a essere denutrite, escluse dalla vita pubblica, vittime di
violenze, stupri e matrimoni forzati. Nel rapporto si affermava che il sistema
di istruzione afghano era il peggiore del mondo e che il tasso di
alfabetizzazione fra gli adulti raggiungeva appena il 28,7%. Un quarto della
popolazione era rifugiata nei paesi vicini. Secondo il rapporto dell’ONU, se
questi problemi non saranno affrontati, il paese – ancora in preda alla
violenza tra fazioni diverse – collasserà e si trasformerà in una minaccia
non solo per se stesso, ma per tutta la comunità internazionale.
A fine luglio 2006, la NATO si prese carico del controllo della regione sud del paese
tradizionalmente dominata da talebani e narcotrafficanti. Il numero di civili vittime delle
forze afghane e della colaizione USA risultò in forte aumento rispetto all’anno precedente.
In tutto il 2006 erano stati dichiarati 230 morti civili, mentre solo nei primi quattro mesi
del 2007 ve ne furono 300.
2008 Con un aumento del 31% degli attacchi militari, il settennale conflitto in Afghanistan ha raggiunto nel 2008 il suo apice di violenza. Nello corso dello stesso anno le forze della coalizione hanno subito il numero più elevato di vittime dall’inizio del conflitto (quasi 270 soldati uccisi), ed è stata registrata la perdita più elevata di vita umane a carico di una specifica forza armata straniera: si tratta di 10 soldati francesi uccisi nel mese di agosto nel corso di un agguato alla periferia di Kabul. L’aumento dei morti tra le forze della colazione è anche dovuto all’incremento del 31% (rispetto al 2007) nell’utilizzo delle cosiddette bombe “roadside”.
Il numero di perdite civili varia notevolmente seconda della fonte statistica. In genere, le stime militari parlano di centinaia di vittime, mentre le stime fornite dalle organizzazioni internazionali e dalle agenzie che si occupando di diritti umani parlano di migliaia di vittime.
La UN Assistance Mission to Afghanistan (UNAMA) riferisce di 2.118 perdite civili nel corso del 2008, pari ad un aumento percentuale del 39% nei confronti del 2007. Il conteggio totale dei morti del 2008 si colloca su valori pari a 6.340 unità, molto simile al dato del 2007 (6.500 morti).