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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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tratto da:
Guida del mondo 2007/2008. Il mondo visto dal Sud - Ed. EMI (Editrice Missionaria Italiana)

Dopo la prima guerra mondiale, il Belgio si incaricò di governare la colonia e separò nuovamente il Burundi dal Ruanda; in seguito annesse il Burundi allo Zaire. Il sistema di amministrazione indiretta attuato dai belgi, che si appoggiarono all’oligarchia tutsi, stimolò la nascita di movimenti nazionalisti negli anni ’50. Nacque così il Partito dell’Unità e Progresso Nazionale (UPRONA) sotto la direzione di Louis Rwagasore, nominato primo ministro nel 1960 e in seguito assassinato. Il 1° luglio 1962 il paese raggiunse l’indipendenza sotto il governo di un re tutsi docile alla volontà belga.

I primi quattro anni di indipendenza furono contrassegnati dalla violenza e si susseguirono cinque primi ministri. Nel novembre 1966 il primo ministro, il capitano Michael Micombero, con un colpo di stato proclamò la repubblica. Il nuovo presidente eliminò tutti i funzionari hutu. Nel 1971, 350 mila hutu vennero uccisi dalla repressione governativa e altri 70 mila andarono in esilio.

Nel 1976 prese il potere il tenente colonnello Jean-Baptiste Bagaza, con la promessa di far cessare le persecuzioni razziali e dare vita a un governo riformista. Bagaza democratizzò l’UPRONA; attuò un progetto di ridistribuzione delle terre, sfidando la borghesia tutsi, e legalizzò i sindacati. In politica estera il nuovo governo si avvicinò alla Tanzania e ricevette aiuti dalla Cina per lo sfruttamento delle miniere.

Nel 1979 al congresso dell’UPRONA venne preparata una nuova Costituzione - entrata in vigore nel 1981 - destinata a porre fine allo sfruttamento della maggioranza hutu da parte della minoranza tutsi, a rendere più moderna la struttura politica e ad adottare una politica socialista. Le donne ottennero gli stessi diritti degli uomini. Le riforme provocarono contrasti con la Chiesa cattolica, al punto che 63 missionari vennero espulsi e il governo decretò la confisca dei beni della Chiesa.

Le elezioni del 1982, le prime a suffragio universale, legalizzarono la politica del presidente Bagaza accelerando il programma di normalizzazione politica.

Nel settembre 1987, mentre partecipava a un vertice dei paesi francofoni in Québec, Bagaza venne destituito da un colpo di stato incruento diretto dal maggiore Pierre Buyoya.

Nell’agosto 1988 gli scontri tra le due etnie nel nord provocarono migliaia di morti, per la maggior parte hutu, la cui rivolta contro i possidenti tutsi venne brutalmente repressa dall’esercito, comandato dai tutsi. Circa 60 mila hutu cercarono rifugio in Ruanda. Per reazione al massacro, il governo nominò un primo ministro hutu, Adrien Sibomana, e venne formato un esecutivo in cui la metà dei ministri erano hutu.

Nel 1989 fece ritorno la maggior parte dei rifugiati. Il governo militare si riconciliò con la Chiesa cattolica e le restituì i beni. Ebbe inizio un programma di aggiustamento strutturale che includeva la privatizzazione delle imprese pubbliche e la creazione di un tribunale per combattere la corruzione.

Il Burundi, l’ottavo paese più povero del mondo, dipende in gran parte dall’esportazione del caffè, ed è quindi sottoposto all’incertezza derivante dall’oscillazione dei prezzi. La povertà e l’alta densità di popolazione hanno contribuito al degrado ambientale: l’alto indice di disboscamento è dovuto almeno in parte alla necessità di reperire nuove terre per i contadini.

Nel 1992 Buyoya promulgò una Costituzione multipartitica e indisse le elezioni per il 1993. Vinse Melchior Ndadaye, del Fronte per la Democrazia in Burundi (FRODEBU), di opposizione, composto in maggioranza da hutu.

Tre mesi dopo, il 24 ottobre 1993, Ndadaye venne assassinato durante un tentativo di colpo di stato militare. Il primo ministro, la signora Sylvie Kinigi,rifugiata nell’ambasciata francese, cercò di mantenere il controllo della situazione. I capi della rivolta vennero arrestati o fuggirono in Zaire; il Parlamento elesse presidente Cyprien Ntaryamira, hutu come Ndadaye.

I sostenitori del presidente ucciso fecero strage dei membri dell’UPRONA, hutu o tutsi che fossero, uccidendo centinaia di migliaia di persone e provocando la fuga di altre 700 mila.

Il 6 aprile 1994 Ntaryamira, insieme al presidente ruandese Juvénal Habyarimana, morì in un attentato contro l’aereo sul quale viaggiavano, avvenuto a Kigali, capitale del Ruanda. Un altro hutu, Sylvestre Ntibantunganya, sostituì il presidente ucciso. La violenza crebbe, in particolare tra le milizie hutu e l’esercito, controllato da ufficiali tutsi.

Nel febbraio 1995, l’UPRONA abbandonò il governo, costringendo alle dimissioni il primo ministro Anatole Kanyenkiko. Fu nominato il tutsi Antoine Nduwayo e l’UPRONA ritornò al governo in coalizione con il FRODEBU.

Di fronte alla possibilità di un’estensione del conflitto ai paesi vicini, l’ONU e l’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) decisero di agire. Prendendo a pretesto la necessità di evitare un intervento delle forze interafricane, Buyoya portò a termine un nuovo colpo di stato nel luglio 1996, diventando presidente. Dopo il golpe, Kenya, Ruanda, Tanzania, Uganda, Etiopia e Zaire imposero sanzioni a Bujumbura. A metà settembre, i ribelli hutu sostennero che almeno 10 mila civili erano stati uccisi per mano dell’esercito dopo il golpe. Un numero non inferiore di persone venne assassinato l’anno dopo, anche se Amnesty International riferì che era difficile distinguere, nei massacri, tra le responsabilità del governo e quelle dei gruppi armati ribelli.

Alla fine del 1997, l’osservatore speciale dell’ONU, Sergio Pinheiro, dichiarò che le sanzioni internazionali avevano ottenuto effetti devastanti, peggiorando le condizioni di vita della parte più povera della popolazione, e sollecitò una revisione dell’embargo. I negoziati di pace, guidati da Julius Nyerere – ex presidente della Tanzania - erano a un punto morto.

Il 16 luglio del 1998 il Parlamento si costituì in Assemblea Nazionale di Transizione (ANT) con l’introduzione di 40 nuovi rappresentanti dei partiti politici e della società civile. Il FRODEBU aveva 65 seggi e l’UPRONA 16.

Nel gennaio del 2000 l’ex presidente sudafricano Nelson Mandela fu scelto come mediatore per i negoziati di pace tra Burundi e Tanzania avviati nel 1998 ad Arusha (Tanzania) e ancora in corso. Mandela ebbe l’appoggio personale del presidente statunitense Bill Clinton. Purtroppo gli accordi raggiunti nell’ambito di questi negoziati furono violati diverse volte da entrambi i paesi e gli scontri proseguirono. Nel 2001, sempre in occasione di questi colloqui, fu fissata per il 2003 la nomina di un nuovo governo transitorio.

Nel dicembre 2001 Buyoya ricevette un prestito di 764 milioni di dollari da parte delle istituzioni finanziarie internazionali per la ricostruzione del paese. Nel marzo 2002 circa 45.000 rifugiati burundesi che vivevano in campi di raccolta in Tanzania (paragonati a campi di concentramento per la durezza delle condizioni di vita) concordarono con le Nazioni Unite un piano per rientrare nel loro paese.

Nel gennaio 2002 la Tanzania protestò per il bombardamento di numerosi villaggi tanzaniani da parte dell’artiglieria burundese. Con una lettera ufficiale, richiese al Burundi di mantenere il conflitto entro i propri confini.

In visita in Uganda, Buyoya ammise con la stampa di non aver raggiunto un cessate il fuoco. Ciò significava che gli accordi di Arusha non potevano ancora essere realizzati. Buyoya aveva chiesto il sostegno del presidente Museveni per raggiungere questo obiettivo. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU invocò la cessazione immediata delle ostilità, esortando i gruppi armati a scendere a trattative “in buona fede e senza rinviare”. Nel marzo 2002 il Fronte di Liberazione Nazionale Hutu (Palipehutu-FNL), che non aveva mai partecipato a negoziati di pace, decise di parteciparvi con l’aiuto di alcuni mediatori.

Domitien Ndayizeye, quarto presidente hutu del paese, si insediò nell’aprile del 2003 alla presidenza del governo transitorio previsto dagli accordi di Arusha del 2001.

Nel luglio del 2003 i ribelli attaccarono Bujumbura. Negli scontri morirono circa 300 ribelli e 15 soldati dell’esercito. Più di 40.000 civili dovettero sfollare.

In novembre, al vertice dei leader africani ad Arusha, Ndayizeye e il capo del FDD Pierre Nkurunziza firmarono un accordo di pace, respinto dal FNL.

Nel giugno del 2004, 5.000 soldati dell’ONU raggiunsero in Burundi i già presenti 2.700 caschi blu di Sudafrica, Mozambico ed Etiopia. Ribelli hutu massacrarono oltre 160 rifugiati tutsi del campo Gatumba, presso il confine con il Congo. In novembre, Ndayizeye sostituì il suo vice Kadege con Frederic Ngenzebuhoro.

Nel febbraio del 2005, con un referendum, il 90% dei burundesi approvò la nuova Costituzione, che stabilisce le proporzioni della rappresentanza etnica in tutte le istituzioni. Nell’ottobre 2005, i governi del Burundi, della Repubblica Democratica del Congo, del Ruanda e dell’Uganda (riuniti a Kampala) hanno deciso di adottare ulteriori misure contro i vari gruppi armati, in particolare contro le FNL. La strategia adottata è quella di cercare di catturare i dirigenti di queste milizie, senza i quali i gruppi non riuscirebbero più ad organizzarsi.

Nel dicembre dello stesso anno il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite proroga il mandato della missione di pace fino al primo luglio 2006. Nella stessa risoluzione (1650/2005) si chiede al Segretario Generale di continuare le consultazioni col Governo burundese per definire le modalità di un progressivo ritiro dei contingenti ONU e quindi di un’eventuale modifica del suo mandato.

Nel marzo 2006, durante una conferenza stampa tenutasi a Dar-es-Salaam, il capo delle FNL, Agathon Rwasa, ha annunciato che il suo gruppo armato è disposto a negoziare col Governo senza condizioni preliminari e ad interrompere i combattimenti.

Nell’aprile il Governo impone, su tutto il territorio nazionale, il copri-fuoco, per cercare di affrontare il continuo aumentare della recrudescenza degli scontri, in particolare tra il FNL e le FDN. Inoltre ha deciso di cominciare ad utilizzare il centro di smobilitazione di Randa, come centro di detenzione provvisoria per i miliziani delle FNL catturati ed arrestati. Il presidente Nkurunziza ha inviato una lettera al Segretario Generale dell’ ONU, chiedendo la presenza nel paese della missione ONUB almeno fino a gennaio 2007, affinché sostenga il Burundi nel focalizzare i propri interventi nei progetti di ricostruzione e sviluppo.

Nel maggio 2006 il rapporto annuale di Amnesty International denuncia che, a quasi un anno dalle elezioni che hanno ufficializzato la fine del periodo di transizione, il conflitto tra il gruppo armato PALIPEHUTU-FNL, noto come FNL, e le forze armate governative (FDN) nelle province di Bujumbura rurale e di Bubanza è proseguito ininterrottamente, nonostante la presenza di 5.634 soldati del contingente di peacekeeping delle Nazioni Unite, impegnato nell’Operazione delle Nazioni Unite in Burundi (ONUB). Le FNL hanno continuato a rifiutarsi di negoziare con il Governo.

Il 18 giugno 2006 dopo 13 anni di guerra civile, il Governo burundese ha firmato un accordo di cessate il fuoco a Dar-es-Salam (in Tanzania) con le Forze Nazionali di Liberazione, l’ultimo gruppo ribelle ancora attivo nel paese. Il documento è stato firmato dal comandante delle FNL, Agathon Rwasa, e dal Ministro degli Interni e della Sicurezza Pubblica del Burundi, Evariste Ndayishimiye, davanti al Presidente della Tanzania, Jakaya Kikwete. Quest’ultimo ha dichiarato ufficialmente che questo accordo è un passo importante per il Burundi e permette di fermare le ostilità durante il periodo di negoziazione di un vero e proprio trattato di pace.

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