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Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

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tratto da:
Guida del mondo 2005/2006. Il mondo visto dal Sud - Ed. EMI (Editrice Missionaria Italiana)

Nel 1947 l’Assemblea generale dell’ONU approvò un nuovo piano di ripartizione del territorio palestinese fra arabi ed ebrei. A quella data, nella metà che sarebbe diventata lo stato arabo vivevano 749.000 arabi e 9.250 ebrei, mentre nella parte corrispondente allo stato ebraico risiedevano 497.000 arabi e 498.000 ebrei.

Per costringere i palestinesi ad abbandonare le proprie terre, alcuni gruppi sionisti decisero di ricorrere ad azioni terroristiche. Il 9 aprile 1948 un commando dell’organizzazione sionista Irgun, guidato da Menahem Begin, penetrò nel villaggio di Deir Yassin uccidendo 254 civili. La paura generò l’esodo di 10.000 profughi palestinesi.

Il 14 maggio del 1948 Israele si proclamò unilateralmente stato indipendente. Gli eserciti dei paesi arabi vicini invasero Israele, ma non riuscirono ad impedire il consolidamento dello stato ebraico, che si ritrovò infatti nel 1949 con un territorio più ampio di quello previsto dal piano di spartizione proposto dalle Nazioni Unite. Intanto, più della metà degli arabi palestinesi avevano abbandonato le loro case. La maggioranza di questi profughi trovò rifugio in Cisgiordania - regione della Palestina annessa al regno hascemita della Transgiordania nel 1948 -, e nella striscia di Gaza, che passò invece sotto amministrazione egiziana.

Secondo le Nazioni Unite e, quindi, anche per il diritto internazionale, i palestinesi non costituivano una vera e propria nazione: si trattava di semplici profughi.

Le decisioni politiche prese in merito alla questione palestinese vennero accettate dai governi arabi, che nominarono persino un rappresentante palestinese presso la Lega Araba. Su istanza presentata dal presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, nel 1964 una conferenza al vertice dei paesi arabi incaricò quest’ultimo di costituire un’organizzazione palestinese unificata. Il Consiglio nazionale palestinese riunitosi per la prima volta a Gerusalemme il 22 maggio del 1964 e formato da 422 membri sancì la nascita dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP).

I gruppi palestinesi già attivi in clandestinità, come ad esempio Al-Fatah, diffidavano di questa organizzazione promossa dai governi arabi né approvavano la politica diplomatica dell’OLP. Questi gruppi erano infatti convinti che solamente mediante interventi militari sarebbe stato possibile rimpossessarsi del territorio palestinese. Il 1° gennaio 1965 fu portata a termine la prima azione armata in Israele. Nei mesi successivi, le azioni andarono intensificandosi fino a sfociare nella cosiddetta Guerra dei Sei Giorni, scoppiata nel 1967, durante la quale Israele occupò Gerusalemme Est, il Golan siriano, il Sinai egiziano e i territori palestinesi di Cisgiordania e Gaza. La vittoria riportata sugli eserciti regolari degli stati arabi coinvolti nel blitz rafforzò la convinzione che l’unica strada percorribile era la guerriglia.

Grazie al prestigio così conquistato, i gruppi armati poterono entrare a far parte dell’OLP, ottenendo inoltre l’appoggio dei governi arabi. Nel febbraio 1969 Yasser Arafat venne eletto presidente dell’OLP.

Il rafforzamento politico e militare palestinese fu avvertito come una minaccia dal re Hussein di Giordania, che fino a quel momento ne era stato rappresentante e portavoce. La tensione fra re Hussein e i palestinesi crebbe al punto da portare, nel settembre 1970 e solo dopo una serie di cruenti combattimenti, all’espulsione dalla Giordania dell’OLP, che stabilì il proprio quartier generale a Beirut.

Il nuovo esilio dell’OLP ridusse la possibilità di realizzare altre azioni armate in territorio israeliano. Intanto nacquero altri gruppi radicali, fra cui “Settembre Nero”. A partire dal 1968 vi furono numerosi gravi attentati contro obiettivi israeliani o considerati filoisraeliani in Europa e nel resto del mondo. Questo diede notorietà alla lotta armata ma accrebbe l’isolamento politico palestinese sia nei confronti dei paesi occidentali, sia di parte del mondo arabo.

La direzione dell’OLP intuì allora la necessità di un cambiamento nella propria tattica: senza abbandonare la lotta armata, diede contemporaneamente avvio ad una vasta operazione diplomatica e iniziò a dedicare la maggior parte dei propri sforzi al processo di consolidamento dell’unità e dell’identità palestinese.

Nel 1974 un summit della Lega Araba riconobbe ufficialmente l’OLP quale “unico rappresentante legittimo del popolo palestinese”. Nell’ottobre del medesimo anno, l’OLP venne ammessa in veste di osservatore all’Assemblea generale dell’ONU, che riconobbe il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione e all’indipendenza, condannando al contempo il sionismo come “una forma di razzismo”.

La nuova proposta dell’OLP prevedeva “l’istituzione di uno stato laico e indipendente comprendente l’intero territorio palestinese, in cui musulmani, cristiani ed ebrei possano vivere in pace, godendo degli stessi diritti e doveri”. Si trattava di un obiettivo che implicava necessariamente la fine dell’attuale stato d’Israele. Senza rinunciare a questa meta finale, tuttavia, l’OLP ammise quale “soluzione temporanea” la costituzione di uno stato palestinese indipendente “in qualsiasi parte del territorio eventualmente liberato attraverso la forza o dal quale Israele si ritiri volontariamente”.

Nel 1980, il primo ministro israeliano, Menahem Begin, leader del partito di destra Likud, e il presidente egiziano Anwar Sadat firmarono un accordo di pace a Camp David, reso possibile grazie alla mediazione statunitense. Poco dopo, Begin procedette all’annessione formale della zona araba di Gerusalemme, proclamandola “capitale unica e indivisibile” di Israele.

Nel luglio del 1982 le truppe israeliane invasero il Libano. L’obiettivo era quello di annientare la struttura militare dell’OLP, procedendo quindi all’annessione del Libano meridionale e provvedendo all’insediamento a Beirut di un governo facilmente manovrabile da Israele. Asserragliate all’interno di Beirut, le forze palestinesi accettarono di ritirarsi solo dopo aver ottenuto precise garanzie in merito alla protezione dei civili da parte di una Forza internazionale di pace, la cui totale inefficacia sarebbe però stata dimostrata dai successivi massacri perpetrati nei campi profughi di Sabra e Shatila. In ogni caso, l’OLP riuscì a trasformare quella che sembrava una completa sconfitta in una vittoria politica e diplomatica. La sede dell’Organizzazione venne trasferita a Tunisi, mentre il suo capo Yasser Arafat si recò in numerosi paesi europei, dove venne ricevuto con gli onori dovuti a un capo di stato.

L’invasione del Libano favorì la nascita di gruppi pacifisti attivi in Israele che invocavano un dialogo con l’OLP. Alcuni gruppi palestinesi di tendenze radicali manifestarono il proprio dissenso nei confronti della linea politica di Yasser Arafat.

Davanti alle proteste arabe, il governo israeliano rispose con una repressione ancor più dura. A differenza però di quanto era avvenuto in precedenti occasioni, quello che decise a favore dell’intervento militare fu l’aumento del numero di donne, anziani e bambini che prendevano parte alle manifestazioni. Quanto più numerose erano le vittime fra i civili, tanto più forte diventava l’odio. Fu così che in Cisgiordania e Gaza ebbe inizio l’Intifada (in arabo sollevazione).

Nel luglio 1988 re Hussein di Giordania annunciò la rottura dei rapporti commerciali e delle relazioni politiche con la Cisgiordania. A partire da tale data, l’OLP diventava quindi l’unica organizzazione responsabile per la popolazione di questo territorio.

Riunitosi ad Algeri il 14 novembre 1988, il Consiglio nazionale palestinese proclamò la nascita di uno stato palestinese indipendente comprendente i territori occupati da Israele nel 1967, rivendicando al contempo per Gerusalemme il ruolo di capitale del nuovo stato. Il CNP approvò inoltre le risoluzioni 181 e 242 dell’ONU, accettando il diritto all’esistenza dello stato d’Israele. Dieci giorni dopo ben 54 paesi del mondo riconobbero il nuovo stato palestinese.

Arafat, dopo essere stato nominato presidente del nuovo stato, venne ricevuto a Ginevra dall’Assemblea generale dell’ONU, appositamente riunitasi per ascoltarne le dichiarazioni. Il leader palestinese ripudiò il terrorismo, accettò l’esistenza dello stato d’Israele e sollecitò l’invio di una forza internazionale nei territori occupati. Successivamente il presidente Reagan decise di dare avvio ai negoziati con l’OLP.

All’emergere delle tensioni fra Iraq e Kuwait, intorno alla metà del1990, Arafat tentò invano di aprire dei negoziati fra i due paesi. Dopo l’invasione irachena, i palestinesi affermarono che se l’Iraq era obbligato ad adeguarsi alle risoluzioni dell’ONU, altrettanto doveva fare Israele.

Allo scoppio della guerra il popolo palestinese espresse apertamente le proprie simpatie filoirachene, privando in questo modo l’OLP del sostegno finanziario delle ricche monarchie del Golfo, contrarie al regime di Baghdad.

Nel settembre 1991, in chiusura del Consiglio nazionale palestinese, Yasser Arafat venne riconfermato presidente della Palestina nonché dell’OLP. In questa occasione fra l’altro l’OLP accettò le dimissioni di Abu Abbas, leader del Fronte per la liberazione della Palestina. Abbas venne condannato in contumacia da un tribunale italiano all’ergastolo in quanto colpevole del sequestro del transatlantico “Achille Lauro”, avvenuto nel 1985.

La prima Conferenza di pace per il Medio Oriente si celebrò a Madrid dal 30 ottobre al 4 novembre del 1991 con il patrocinio degli Stati Uniti e della Russia. Le delegazioni arabe chiesero all’unanimità che i negoziati si sviluppassero sulla base delle risoluzioni numero 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, in cui si rifiutava l’annessione dei territori attraverso la forza e si auspicava la loro cessione esclusivamente dietro la promessa di un concreto impegno di pace.

La Conferenza per il Medio Oriente proseguì poi in dicembre, a Washington, senza registrare concreti passi avanti nella questione palestinese.

Dopo le elezioni israeliane del giugno del 1992, il nuovo premier, il laburista Yitzhak Rabin, decise di bloccare l’insediamento dei coloni nella striscia di Gaza e in Cisgiordania. Ciononostante, la ripresa dei negoziati, restava di difficile attuazione.

Le trattative segrete fra l’OLP e il governo israeliano, con l’attiva partecipazione della diplomazia norvegese, approdarono allo storico mutuo riconoscimento fra i due stati del 13 settembre 1993, avvenuto a Washington. In quella circostanza, inoltre, Arafat e Rabin firmarono una dichiarazione di principio sull’autonomia dei territori occupati che fu il primo documento di pace approvato congiuntamente dallo stato d’Israele e dall’OLP. L’accordo raggiunto prevedeva un’autonomia limitata con autogoverno palestinese per la striscia di Gaza e la città di Gerico per un periodo di cinque anni, trascorsi i quali l’autonomia si sarebbe estesa anche alla Cisgiordania.

Pochi giorni dopo il Parlamento israeliano ratificò il riconoscimento dell’OLP e la dichiarazione di principio sottoscritta a Washington. Da parte sua, il Consiglio centrale dell’OLP approvò il testo sull’autonomia.

Hamas e Hezbollah, da parte palestinese, così come i coloni insediatisi nei territori occupati e l’estrema destra, sul versante israeliano, si opposero energicamente all’accordo. La ritirata militare israeliana da Gaza e da Gerico, inizialmente fissata per il 13 dicembre, venne posticipata.

Nel maggio del 1994 Rabin ed Arafat apposero la propria firma all’accordo d’autonomia definito “Prima di tutto Gaza e Gerico”, mentre nel frattempo continuava la ritirata israeliana, rendendo possibile il ritorno di contingenti militari appartenenti all’Esercito di liberazione della Palestina dall’esilio in Egitto, Yemen, Libia, Giordania o Algeria.

Arafat giunse a Gaza nel luglio del 1994, e assunse l’incarico di presidente dell’Autorità nazionale palestinese (AP). Lo scontro fra il leader dell’OLP e i suoi avversari dell’ala più radicale, contrari a qualsiasi accordo con Israele, divenne sempre più aspro.

Gaza si ritrovò sull’orlo di una nuova guerra civile nell’aprile del 1995, quando, nel crollo di un edificio, raso al suolo da un attentato, rimasero uccise sette persone, fra cui Kamal Kaheil, uno dei leader delle brigate terroristiche Ezzedin-El-Kassam.

Arafat voleva che Hamas prendesse parte alle elezioni politiche palestinesi del gennaio del 1996, intuendo che la partecipazione di Hamas avrebbe dato maggiore legittimità alla propria leadership. Dopo varie indecisioni, i fondamentalisti decisero di boicottare il voto. Arafat venne eletto presidente con l’87% dei voti e i candidati filogovernativi ottennero 66 seggi sugli 88 contesi.

L’elezione di Benjamin Netanyahu a primo ministro d’Israele nel maggio del 1996 acuì la tensione fra i due paesi.

Le difficili trattative conclusesi col ritiro delle truppe israeliane dalla città di Hebron rappresentarono un ulteriore riconoscimento per il governo guidato da Yasser Arafat. Nel gennaio del 1997 il presidente palestinese ricordò nuovamente che rimaneva ancora da definire lo status di Gerusalemme che, insieme al tema della formazione dello stato palestinese, avrebbe costituito il principale punto di discussione al prossimo incontro.

Le manovre dilatorie israeliane fecero sì che Arafat suggerisse una maggiore partecipazione degli Stati Uniti nella mediazione. Nell’aprile del 2000, Ehud Barak, il nuovo primo ministro israeliano, accolse tale richiesta, cercando tuttavia di costringere Arafat a rimandare la proclamazione dello Stato Palestinese. Gerusalemme divenne il maggiore ostacolo ai negoziati, poiché entrambe le parti esigevano di farne la capitale dei rispettivi stati.

La violenza esplose nuovamente nel settembre del 2000 quando l’esponente della destra Ariel Sharon si recò in visita a un tempio nella spianata delle moschee, luogo sacro per i musulmani e gli ebrei. Quella visita fu considerata dai palestinesi una provocazione intollerabile. Negli scontri delle settimane seguenti morirono circa cento persone, per lo più palestinesi. Arafat, Barak e Clinton, insieme ad autorità di altri paesi, si riunirono in Egitto in ottobre per cercare di salvare il processo di pace, Lo scoppio della nuova Intifada fece sì che il governo di Barak finisse in minoranza, perciò furono indette nuove elezioni.

La vittoria di Sharon alle elezioni israeliane del febbraio 2001 fu percepita come un colpo in più contro il deteriorato processo di pace. Nello stesso mese la segreteria generale delle Nazioni Unite pubblicò un documento secondo il quale il blocco economico imposto da Israele in Cisgiordania e nella striscia di Gaza spingeva il governo di Arafat sull’orlo del collasso per mancanza di fondi.

Durante i mesi successivi gli scontri si aggravarono. Gli attacchi israeliani e l’esaurimento dei negoziati fecero crescere la resistenza contro l’occupazione. Sharon reagì con uccisioni selettive di presunti terroristi e ampliò la sua offensiva attaccando con elicotteri e navi da guerra nuclei e villaggi palestinesi. Seguirono incursioni notturne nelle città palestinesi con distruzione di case, aeroporti e ospedali. Centinaia di palestinesi morirono durante la ribellione e le azioni militari proseguirono con l’occupazione di quei territori che erano sotto un relativo controllo palestinese.

In seguito all’attacco dell’11 settembre 2001 contro il World Trade Center di New York e il Pentagono, Sharon credette che l’opinione pubblica internazionale e l’atteggiamento dei governi occidentali potesse volgersi a suo favore, contando sull’appoggio degli Stati Uniti, e intensificò la sua offensiva contro la rivolta dei palestinesi.

Molti attentati suicidi compiuti da militanti radicali palestinesi segnarono una nuova fase del conflitto. Hamas e la Jihad islamica, tra altri gruppi islamisti, sceglievano i luoghi più frequentati da giovani israeliani per immolarsi provocando il maggior danno possibile. Per rafforzare la sicurezza, Sharon limitò il passaggio di beni e persone attraverso la frontiera con la Cisgiordania e con la striscia di Gaza. Questa misura danneggiò sia gli operai, sia le imprese palestinesi.

In dicembre Sharon troncò ogni rapporto con Arafat. La nuova strategia israeliana consisteva nel rifiutare di considerare il leader palestinese un interlocutore valido. La rottura pose fine a qualunque tentativo di negoziazione. All’inizio del 2002, in vista dell’arrivo di un nuovo mediatore statunitense, Sharon tolse le restrizioni imposte ai palestinesi di Cisgiordania e Gaza, che tuttavia restavano occupate dall’esercito israeliano.

Dopo 18 mesi di rivolta, le restrizioni al movimento di beni e persone in Israele e nei territori occupati spinsero l’economia palestinese sull’orlo del fallimento. La chiusura continuata dei passaggi di frontiera causò danni irreparabili. La disoccupazione triplicò, colpendo quasi il 30% della manodopera palestinese. L’ANP registrò un deficit di bilancio di 430 milioni di dollari e il PIL stimato a Gaza e in Cisgiordania scese del 12% nel primo trimestre del 2002.

In marzo si celebrò a Beirut il vertice dei paesi arabi, a cui Arafat non poté partecipare perché Sharon lo stringeva d’assedio nel suo bunker di Ramallah. Un gruppo di 40 pacifisti, tra cui 11 occidentali, sfidò l’accerchiamento israeliano e formò uno “scudo umano” per proteggere il leader palestinese da un possibile attacco.

Il vertice si concluse con l’approvazione di un piano di pace che includeva una decisione storica: i firmatari si impegnavano a riconoscere lo Stato di Israele, purché questo si ritirasse entro le frontiere che aveva prima del 1967 e permettesse il rientro di tre milioni di rifugiati palestinesi, la formazione di uno Stato palestinese con una parte di Gerusalemme come capitale. Israele definì “inaccettabile” la proposta.

In aprile Al Fatah, Hamas, la Jihad islamica, il Fronte Popolare e il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina concordarono per la prima volta un piano di lotta comune.

Nello stesso mese il campo profughi di Jenin fu bersaglio di sanguinosi bombardamenti israeliani.

Il 10 maggio, dopo quasi 40 giorni di assedio, 126 palestinesi asserragliati nella Chiesa della Natività di Betlemme abbandonarono a uno a uno il santuario. I primi a uscire – 13 uomini considerati terroristi da Israele – vennero trasferiti a bordo di un aereo britannico a Cipro, dove rimasero finché l’Unione Europea non ebbe deciso la loro destinazione in differenti paesi. Altri 26 palestinesi, che Israele accusava di delitti minori, furono inviati nella striscia di Gaza, mentre il resto venne rimesso in libertà.

Nel maggio 2002 Arafat dichiarò che era giunto il momento di cambiare e ammise di aver commesso errori nella sua gestione del potere. In giugno, attraverso il suo ministro Saeb Erekat, il leader palestinese indisse le elezioni presidenziali, parlamentari e amministrative per il gennaio 2003.

Nel giugno 2002 il presidente statunitense George W. Bush invitò i palestinesi a respingere la leadership di Arafat e a scegliersi un leader che non fosse “legato al terrorismo”. In dicembre Arafat rimandò le elezioni, attribuendo a Israele la colpa del ritardo.

Nel marzo 2003, Mahmoud Abbas (un politico moderato noto anche come Abu Mazen) fu eletto primo ministro dell’Autorità palestinese. In aprile, Bush presentò a Sharon e Abbas un nuovo piano di pace noto come Road Map, sponsorizzato dal cosiddetto Quartetto del Medio Oriente (Stati Uniti, Unione Europea, ONU e Federazione Russa). Il piano proponeva la creazione di uno Stato palestinese e la risoluzione di tutte le questioni aperte entro il 2005. Abbas si dimise a luglio, accusato dai radicali di fare troppe concessioni a Israele.

La violenza aumentò. Per la prima volta una giovane donna, madre di due bambini, effettuò un attacco suicida. Il primo ministro Sharon ordinò nuovamente attacchi e distruzioni dei villaggi palestinesi. Iniziò, inoltre, la costruzione di un muro di separazione in Cisgiordania. La reazione della comunità internazionale fu, alla meglio, permissiva. La barriera priva migliaia di palestinesi dell’accesso a servizi fondamentali come acqua, sanità e istruzione, oltre che ad altre fonti di sussistenza, come l’agricoltura e altre opportunità di lavoro. La decisione israeliana diede vita a un movimento internazionale contro il “muro della vergogna”.

Nel marzo 2004, Hamas compì un duplice attacco suicida nel porto di Ashdod. Israele rispose con una serie di attacchi, consistenti in “uccisioni mirate” di leader politici palestinesi. In un’operazione diretta da Sharon, Israele uccise il leader spirituale sceicco Ahmed Yassin, sessantasettenne e paralitico, mentre usciva da una moschea a Sabra (Gaza). Sebbene l’omicidio fosse stato unanimemente condannato dalla comunità internazionale, gli Stati Uniti opposero il veto alla mozione di condanna avanzata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

Nell’aprile 2004, Sharon annunciò un “Piano di ritiro unilaterale dalle aree palestinesi” che comprendeva l’evacuazione degli insediamenti nella Striscia di Gaza e lo smantellamento di sei colonie in Cisgiordania. In cambio, Israele chiedeva l’appoggio degli Stati Uniti per mantenere blocchi di insediamenti in Cisgiordania e una dichiarazione del presidente Bush che negava ai profughi palestinesi il diritto di tornare in patria.

L'11 novembre del 2004, dopo essere rimasto in coma all'ospedale militare di Percy, in Francia, morì Yasser Arafat. Il primo ministro francese Raffarin guidò la cerimonia di saluto ad Arafat; fra i pochi capi di stato non musulmani, parteciparono il presidente sudafricano Thabo Mbeki e il primo ministro svedese Goran Persson. Il funerale di stato fu celebrato vicino all'aereoporto de Il Cairo, in Egitto. Arafat fu seppellito nella sede dell'ANP a Ramallah, perché Israele non permise che fosse seppellito a Gerusalemme, com'era suo desiderio.

Rauhi Fatuh fu nominato presidente ad interim in attesa delle elezioni.

Nel gennaio 2005 le elezioni presidenziali indette per nominare il successore di Arafat coinvolsero centinaia di migliaia di palestinesi, e centinaia di osservatori internazionali. Le elezioni videro la vittoria di Mahmoud Abbas (Abu Mazen), che ottenne il 62% dei voti. Abbas iniziò subito le trattative con gruppi militanti come Hamas e la Jihad islamica affinché cessassero gli attacchi contro Israele.

A dicembre il primo ministro Ariel Sharon fu colpito da ictus e ricoverato in stato vegetativo, senza possibilità di ripresa. I suoi poteri furono assegnati al suo vice Ehud Olmert.

Nel gennaio 2006, inaspettatamente, Hamas vinse le elezioni dell’Autorità Nazionale Palestinese, mettendo in difficoltà il presidente Abbas. Questi voleva proseguire i negoziati di pace, ma Israele non era disposto a negoziare con Hamas fino a quando il gruppo non avesse abbandonato le armi e riconosciuto lo Stato di Israele.

A marzo il primo ministro Olmert vinse le elezioni e si impegnò ad andare avanti con la definizione dei confini finali si Israele.

Nel giugno 2007 il Parlamento elegge presidente Shimon Peres dopo aver sollevato il precedente Moshe Katzav, accusato di violenza sessuale da sette donne. Nello stesso periodo, dopo una serie di scontri e molte vittime tra le fazioni palestinesi in lotta fra loro, Hamas prende il sopravvento nella Striscia di Gaza.

Nel novembre 2007, si tiene il vertice di Annapolis nel Meryland (Stati Uniti) tra il presidente Usa Bush, il premier israeliano Olmert e il presidente palestinese Mazen, dove le parti si impegnano a compiere "tutti gli sforzi possibili per concludere un accordo prima della fine del 2008".

Nel settembre 2008, le dimissioni del primo ministro Olmert, indagato dalla magistratura per motivi finanziari, portano alla crisi di governo. Il ministro degli esteri Tzipi Livni a capo del governo provvisorio, ma si va verso nuove elezioni previste nel febbraio 2009.

Il 27 dicembre 2008, terminata la tregua durata circa un anno con Hamas, che aveva ripreso il lancio di missili verso le cittadine israeliane, Israele inizia una serie di bombardamenti sulle città della Striscia di Gaza.

La situazione nella striscia di Gaza è progressivamente peggiorata lungo il corso dell’anno, fino ad assumere i connotati di una vera e propria emergenza umanitaria. Alla fine di gennaio 2009, dopo l'ingresso delle truppe di Israele nella Striscia di Gaza durante l'operazione "piombo fuso", il numero totale di vittime aveva raggiunto le 1.800 unità, anche a causa della recrudescenza del conflitto registrata dopo il 19 dicembre 2008. I primi sei mesi del 2008 avevano visto un aumento degli scontri tra le forze israeliane e i ribelli di Hamas. Un cessate il fuoco di circa sei mesi è stato raggiunto nel mese di giugno, ma successivamente, nel corso dei mesi estivi, è stato registrato un aumento della violenza interna tra i gruppi palestinesi di Hamas e Fatah. A metà del mese di gennaio 2008, Israele aveva chiuso i passaggi di frontiera tra la striscia di Gaza e Israele, interrompendo la fornitura di gas ed energia elettrica a Gaza. La fornitura è poi ripresa, anche se occasionali interruzioni si sono verificate nuovamente nel corso dei mesi successivi. Il blocco dei passaggi di frontiera è stato più volte sospeso durante l’anno, allo scopo di lasciar passare un minimo di aiuto umanitario. Ciò nonostante, per quasi tutti i mesi dell’anno, gli abitanti di Gaza (oltre 1 milione mezzo di persone), inclusi coloro che necessitano di un aiuto medico, erano intrappolati nella striscia con pochissime risorse a disposizione. Alla fine del mese di gennaio 2009, Israele ha condiviso i principi generali di una proposta di cessate il fuoco, ma non è possibile sapere se le parti in lotta giungeranno ad un accordo per una pace duratura entro il 2009.

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