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Guida del mondo 2005/2006. Il mondo visto dal Sud - Ed. EMI (Editrice Missionaria Italiana)
Nonostante le obiezioni dell’Egitto, nel 1953 il Sudan ottenne un regime di autogoverno.
Nel 1955 si tennero le elezioni parlamentari e il Partito Nazionale Unionista, sostenuto dal presidente egiziano Nasser, vinse con un ampio margine sulla Umma. A ciò fece seguito, nel 1956, una dichiarazione di indipendenza da parte di Azhari e della sua maggioranza parlamentare. La costituzione provvisoria rafforzò il nord respingendo la proposta di una federazione.
I
cristiani e gli animisti cristiani, le cui speranze di essere rappresentati
nell’Assemblea furono annullate dalla Costituzione, avviarono una guerra
civile che continuò fino al 1972.
Nel 1958, il generale Ibrahim Abbud prese il potere con un colpo di Stato. Dopo aver liberalizzato il prezzo del cotone e sciolto i partiti politici, instaurò un Concilio Supremo che garantiva l’osservanza delle leggi dell’islam ortodosso in tutto il territorio sudanese, imponendo, tra l’altro, la lingua araba. Nel 1962, espulse i missionari cristiani dalle scuole del Sudan meridionale.
Tali
misure provocarono una ribellione al sud. Numerosi gruppi di opposizione a
Khartoum aderirono alla mobilitazione per rivendicare la democrazia e protestare contro la liberalizzazione dei prezzi del cotone.
Nell’ottobre del 1964, Abbud fu costretto a dimettersi e fu costituito un governo di transizione.
Le
elezioni del 1965 portarono alla presidenza Muhammed Mahjud, il
leader del Partito Umma. Nei suoi quattro anni in carica, non riuscì a migliorare la situazione economica del Sudan. Inoltre, le varie fazioni del
parlamento rimasero su posizioni inconciliabili e il sud lanciò nuove offensive, a causa delle mancate promesse di partecipazioni politica.
Nel 1969, il generale Gaafar al- Nimeiry prese il potere con un colpo di Stato.
Nel 1971, anno in cui Anya Nya (gruppo di ribelli del sud) controllava la maggior parte delle zone rurali, i suoi leader militari costituirono un’organizzazione politica, il Movimento di Liberazione del Sudan Meridionale (SSLM).
Il
regime di Nimeiry riconobbe che l’escalation della guerra civile al sud stava
debilitando le risorse del paese e impediva lo sviluppo economico del Sudan. Nel 1971 Nimeiry accettò di negoziare un compromesso con il SSLM. Varie sessioni di mediazioni culminarono nei trattati di pace di Addis Abeba, Etiopia, nel febbraio e marzo 1972. In base agli accordi di Addis Abeba, il governo centrale e il SSLM concordarono un cessate il fuoco e Khartoum riconobbe l’autonomia regionale delle tre province meridionali.
La pace
del 1972 e il conseguente aumento del prezzo del petrolio attrasse investimenti
da vari paesi arabi, finalizzati alla coltivazione di aree ben irrigate e allo
sviluppo di infrastrutture. Nel 1977, Nimeiry fu rieletto, ma
l’incompetenza e la corruzione del suo governo avevano sommerso il Sudan nei
debiti. Il debito estero, che ammontava quell’anno a otto miliardi di dollari,
causò la bancarotta del paese nel 1978, dopo la sospensione di tutti i crediti
da parte del FMI.
Nel 1983, mentre esperti della compagnia Americana Chevron scoprivano giacimenti di petrolio nel sud, Nimeiry revocò il trattato di Addis Abeba e, sotto l’influenza dei Fratelli Musulmani (Sunniti) del Fronte Nazionale Islamico (FNI), impose la Sharia (legge islamica). Lo stesso anno, Nimeiry fu rieletto nonostante numerose accuse di brogli.
Queste
misure riaccesero i combattimenti al sud. Un’offensiva dell’Esercito di
liberazione del popolo sudanese (SPLA) di John Garang, la più potente
delle 12 organizzazioni nella regione, costrinse al ritiro tutte le compagnie
interessate ai giacimenti petroliferi.
Il FNI
con gli altri partiti settentrionali di opposizione, da un lato, e gli organismi finanziari internazionali, dall’altro, criticarono aspramente la decisione di Nimeiry di applicare la Sharia, con i suoi conseguenti limiti sulla libertà politica ed effetti collaterali sui sistemi finanziari.
Nell’aprile 1985, mentre Nimeiry si trovava negli USA, il suo ministro della difesa ecomandante generale dell’esercito, Abdul al- Dahab, prese il potere e convocò le elezioni per l’anno seguente.
Il
Partito popolare (Umma) vinse le elezioni dell’aprile 1986 e il suo
capo, Sadiq al-Mahdi, fu eletto primo ministro.
Lo SPLA
chiese le dimissioni di Mahdi e la
formazione di un governo provvisorio, mentre i suoi 12 mila guerriglieri
circondavano le guarnigioni del sud fedeli al governo. Presero il controllo
della regione, bloccando spesso gli aiuti alla popolazione colpita dalla
violenza e bisognosa di cibo e medicinali.
Nel
giugno 1989, nel pieno della guerra tra il Movimento popolare di
liberazione sudanese (SPLM) (l’ala armata dello SPLA) e l’esercito governativo, il generale Omar al-Bashir estromise il regime al potere,
sciogliendo i partiti politici e creando una giunta militare con la
partecipazione del Fronte Nazionale Islamico (FNI), rinominato Partito del
Congresso Nazionale (PCN).
Nel 1995, quando la guerra civile aveva ormai causato un milione di morti e costretto tremilioni di persone a fuggire nei paesi vicini, le organizzazioni africane per i diritti umani accusarono Khartoum del genocidio dei nubiani.
Nell’elezioni del marzo 1996, al-Bashir fu rieletto con il 76% dei voti.
Nel
gennaio 1998, dopo aver dimostrato che il Sudan aveva dato rifugio al
leader della rete terroristica di al-Qaeda, Osama bin Laden, agli inizi degli
anni ’90, gli USA annunciarono un embargo economico contro il Sudan.
Dopo il bombardamento delle ambasciate americane in Tanzania e Kenya, gli USA
accusarono Khartoum di aver sostenuto il terrorismo internazionale e, pochi mesi dopo, bombardarono un presunto obiettivo terroristico (di fatto un impianto chimico) vicino alla capitale.
Nel 1999, al-Bashir dichiarò lo stato d’emergenza e rinnovò il suo gabinetto.
Nello
stesso anno la Cina, che importava il 55% di tutte le esportazioni
sudanesi nel 2004, insieme a una compagnia malaysiana e a una canadese,
acconsentì a finanziare la realizzazione di un condotto petrolifero fino al Mar
Rosso. In base a questo accordo il Sudan dovrebbe percepire un'entrata annua
netta di 500 milioni di dollari a partire dal 2003.
Tra il 1998 e il 2002, la fame e la guerra causarono ogni giorno lo sfollamento di centinaia di persone, dirette verso i centri di aiuti umanitari.
Nel
febbraio 2001, al-Bashir assunse nuovamente l'incarico, avendo ottenuto
l'86,5% dei voti nelle elezioni del dicembre 2000, boicottate dalla maggioranza
dei partiti di opposizione.
Nel
dicembre 2001, dopo una campagna di sei mesi condotta dalle organizzazioni per i diritti umani, le autorità di Khartoum annunciarono di aver rilasciato oltre
14.500 schiavi.
Un mese
dopo, lo SPLA firmò un'alleanza con il suo rivale meridionale, la Forza sudanese di difesa popolare (FSDP), formando un fronte comune contro il governo.
In
ottobre, l'avvio delle trattative di pace in Kenya tra il governo
sudanese e lo SPLA segnò la fine di 19 anni di guerra civile che erano costati
la vita a circa due milioni di persone. In quell'occasione, il Segretario di
Stato americano Colin Powell, i cui funzionari avevano dichiarato che l'accesso
al petrolio africano era una "questione di interesse nazionale", minacciò di triplicare il contributo USA allo SPLA, per un totale di 300 milioni di dollari, nonché di mantenere l'embargo contro il Sudan, se non fosse stata raggiunta la pace entro il marzo 2003. Principalmente a causa della guerra, nel 2003 il 92% dei sudanesi vivevano al di sotto della soglia di povertà.
Da parte sua, il capo dello SPLA, colonnello John Garang, pretendeva la vicepresidenza del Sudan al posto di Osman Ali Taha. Reclamava inoltre le province meridionali di Nuba, Abyei e Nilo Azzurro, cadute sotto la giurisdizione settentrionale nel 1972. Ma la questione rimase irrisolta.
Tra
l'aprile e il dicembre 2003, il governo sudanese e lo SPLA strinsero un
patto per: riunire le loro truppe in un esercito di 39 mila uomini; dividere i
profitti del petrolio al gennaio 2004; approntare una nuova costituzione entro
il 2004; concedere l'autonomia amministrativa al sud nello stesso anno e indire
un referendum nel 2010 sull'indipendenza del sud. Hassan al-Turabi, leader del
FNI, che era stato incarcerato diversi anni prima, fu rilasciato nell'ottobre
2003, mentre veniva annullata la proscrizione contro il suo partito.
Mentre
si trattava la pace fra nord e sud, le truppe governative lanciarono un'offensiva nel gennaio 2004 a Darfur, nel Sudan occidentale, area posta sotto le due giurisdizioni del nord e del sud. Attaccarono l'Esercito/Movimento di liberazione sudanese (SLA/M, ex Movimento di liberazione di Darfur).
Lo SLA/M era stato fondato l'anno prima, in risposta agli attacchi sistematici contro la regione di Fur da parte di gruppi di nomadi arabi appartenenti alla popolazione Janjawid, che aveva lasciato il Sahel (sua regione d'origine) a causa della desertificazione e voleva sfrattare i gruppi etnici neri musulmani (Masaalit, Fur e Zaghawa) dalle loro terre ben irrigate.
I Janjawid erano armati e addestrati dal governo sudanese per perseguire una politica di "terra bruciata". Entro il maggio 2004, quest'operazione era costata diecimila vite umane, la distruzione di enormi tratti di terra e l'esodo di un milione di persone. Molti di questi profughi si rifugiarono nel Ciad e moltissimi furono picchiati, stuprati e torturati lungo la strada. L'Organizzazione mondiale contro la tortura denunciò le torture compiute contro bambini profughi di Darfur.
Nel
marzo 2004, al-Turabi e i suoi seguaci politici e militari furono nuovamente
arrestati da al-Bashir.
Nel
maggio 2004, l'esercito del Ciad fu attaccato sul confine dalle forze governative sudanesi.
Lo
stesso mese, osservatori politici lanciarono l'allarme circa una possibile
alleanza antigovernativa tra i gruppi armati di Darfur e quelli di Nuba, Abyei e Nilo Azzurro, con il conseguente prevedibile scoppio di conflitti in tutto il
Sudan.
Nell'aprile 2004, la Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite si astenne dall'applicare sanzioni contro il governo sudanese. Tuttavia, il mese seguente, il Programma Alimentare Mondiale (PAM) dell'ONU annunciò che tre milioni di persone erano vittime di fame e malattie in conseguenza della guerra.
In
giugno, gli scontri nella regione del Darfur avevano assunto proporzioni
drammatiche. Il segretario di stato USA Colin Powell si recò in Sudan e
cercò di fare pressione affinché terminassero gli attacchi contro la
popolazione civile in Darfur. Il segretario generale dell'ONU Kofi Annan
sottolineò la necessità, da parte della comunità internazionale, di agire in
difesa della popolazione del Darfur se il governo di Khartoum non fosse intervenuto. L'ONU descrisse il conflitto nel Darfur come la peggiore crisi umanitaria del mondo.
Al marzo del 2005 si stimava che 180.000 persone fossero morte nel conflitto in Darfur negli ultimi 18 mesi e che 2 milioni avessero abbandonato le proprie case, cercando rifugio nelle città principali. 200.000 persone erano fuggite in Ciad. La Commissione dell'ONU per il Darfur concluse che il governo non era responsabile di genocidio - cosa che avrebbe obbligato la comunità internazionale a intervenire - ma di “gravi violazioni dei diritti umani e della legge internazionale”, che potrebbero essere perseguiti come crimini contro l'umanità.
Il riacutizzarsi del conflitto tra il Governo del Sudan, l’Esercito Popolare di Liberazione del Sudan (SPLA/M) e vari gruppi etnici ha prodotto circa 200 morti nel corso del 2008. Un violento scontro armato nella città contesa di Abyei ha provocato lo spostamento forzato di decine di migliaia di persone. Alla fine di giugno, è stato raggiunto un accordo per il posizionamento di una forma militare congiunta nella regione. Nonostante vari tentativi interni ed esterni di una mediazione per la pace in Sudan, si è registrato un sostanziale stallo nei progressi verso la firma di un accordo di pace. Le difficoltà sono dovute alla crescente frammentazione tra le truppe ribelli e l’incertezza derivante dalle voci riguardo un possibile mandato di cattura internazionale a carico del presidente sudanese Bashir, da parte della Corte Penale Internazionale.