Ecco perché internet resta in mano a Bush
Un altro documento, altre pagine scritte. Addirittura stampate su carta, che suona un po' grottesco qui a Tunisi, dove sta concludendosi il forum mondiale delle nuove comunicazioni - il Wsis - voluto dall'Onu. Centotrenta pagine distribuite nel modo più antico ai delegati e ai leader che in questi giorni affollano il summit. Tante pagine. Uguali - almeno nell'aspetto - a tanti altri documenti. Anche questo studio poi, ha avuto l'autorevole presentazione del direttore del MediaLab del Mit di Boston, Nicholas Negroponte. Un altro documento che formalmente arricchisce di poco un vertice concluso con la vittoria degli Usa - che continueranno a governare la rete - ma segnato soprattutto dalla denuncia delle violenze a cui sono stati costretti i pochi che in Tunisia si battono per la libertà d'espressione.
Aggiunge poco dal punto di vista formale ma forse può servire a capire cosa è avvenuto davvero a Tunisi. Perché quelle pagine descrivono quel che accadrà di qui a qualche tempo. Il documento s'intitola e descrive l'"Internet of things", le rete delle cose. E' uno studio senza apparenti pretese politiche, che indica dove e come sta andando il settore delle tecnologie, che già oggi è il venti per cento del pil mondiale. Parla di telefonini che dovranno connettersi ai computer portatili, parla di connessione senza fili, bluetooth, ad apparecchi eletrodomestici, parla di macchine fotografiche che trasferiranno immagini a televisioni lontane. Parla di registratori audio che si connetteranno direttamente alle radio.
Si connetteranno. Già, ma come? Con quale protocollo, con quale linguaggio saranno spediti in rete quei dati? E per farla più breve: quanti linguaggi ci saranno? Uno, più d'uno? E chi li controllerà?
Per capire Tunisi, forse si può partire da qui. Da quel che è accaduto ieri mattina, dalla presentazione a summit già bello e concluso, di quello studio. Marginale, forse, ma esplicativo. Perchè anche l'"Internet delle cose" rimanda alla domanda su cui ha girato tutto il Wsis: cosa accade se c'è un solo controllore? Se c'è uno solo che decide? In questo caso, basta che chi decide adotti uno standard invece di un altro e fa fuori mezzo mondo dalla possibilità di connettere fra di loro strumenti diversi. E può permettere all'altro mezzo mondo, a chi domina l'altro mezzo mondo, di far crescere ancora i propri profitti. Ed è esattamente quello che è avvenuto anche sul tema caldo della conferenza, la questione dei domini.
Tutto già detto, tutto già discusso. L'Icann, una società privata con sede in California, controllata dal governo americano, e dove sono fortemente rappresentate le grandi imprese del settore, da sempre, da quando è nata Internet, distribuisce i domini: le parti finali degli indirizzi web (. usa, da poco . eu o . org). Se un paese vuole costruire un proprio dominio (nel caso dell'Italia: . it) deve chiedere l'autorizzazione alla Icann. Che può metterci da qualche giorno a qualche anno per soddisfare quella richiesta. Come è avvenuto per la Palestina, che pure è il paese che ha più utenti di tutto il Medio Oriente.
E questo assegna all'organismo, agli States, un potere enorme. E forse sarà anche per questo che su quattro miliardi di indirizzi esistenti nell'universo Web - stando almeno agli ultimi calcoli l'ottanta per cento, viene proprio da lì, dall'America. Non solo, ma l'Icann, questo strumento di controllo, permette anche il controllo dei giganteschi megaserver - chiamiamoli così anche se il termine non è esatto - su cui transita tutto il traffico in rete. E se il superorganismo vuole blocca la posta ad un intero paese. E' accaduto per quasi una settimana l'anno scorso. Agli utenti libici. L'Icann aveva semplicemente cancellato dal mondo virtuale tutti gli indirizzi col suffisso . ly.
Una situazione insopportabile. Per tanti. A cominciare da paesi come il Brasile, che rivendicano maggiore libertà, a paesi come la Cina, che vorrebbero tenere per sè e non delegare all'America, il controllo sui propri utenti. A finire all'Europa che ha esigenze di dinamismo economico che mal si conciliano col monopolio statunitense. Da qui i progetti di riforma dell'Icann, di cui si parla da tre anni. Finiti nel nulla. Il summit di Tunisi s'è concluso esattamente com'era iniziato: con la riaffermazione del predominio americano. Mitigato dalla creazione di un forum, un'assemblea insomma, dove imprese, nazioni, e società civile discuteranno se e come si potrà superare l'attuale assetto. Senza vincoli, soprattutto per gli americani.
E' finito così. Qualcuno, anche nella delegazione italiana, anche nella sinistra, parla di piccolo risultato. Piccolo ma risultato. Si dice che almeno ci sarà una tribuna, uno spazio dove discutere.
Ma non conta. Perché le previsioni (non quelle di esperti dell'ultima ora ma quelle presentate qui al Wsis) dicono che gli indirizzi Web sono destinati a diventare sessanta, ottanta miliardi. Nel giro di pochi anni. E dove cresceranno lo deciderà un consorzio fatto dal dicastero americano del commercio, dalla Microsoft e dai suoi alleati. Dall'Icann appunto. Gli altri potranno discutere ma non decidere. Perché la possibilità di decisione è esplicitamente esclusa dal documento che istituisce questa mega tribuna.
Ha vinto Bush (appena due mesi fa diceva che voleva mantenere una «supervisione a tempo illimitato sull'Icann»), ha perso l'Europa - stanca è stata fra i promotori di quel documento finale che lascia tutto com'è. E ha perso l'Onu, che alla fine dell'estate aveva varato documenti altisonanti chiedendo «una gestione multipolare» della rete.
Di Tunisi restano così solo le immagini, le foto un po' tristi di Kofi Annan e di Nicholas Negroponte - sempre lui - che mostrano orgogliosi il nuovo computer da cento dollari. Più giocattolo che strumento, ha detto qualcuno. E' un prototipo ma dovrebbe servire a recuperare il digital divide. L'arretratezza per cui il sessantacinque per cento dei computer e l'ottanta per cento delle connessioni si trova in un quinto del mondo. Un'immagine. Ma niente di più. Perché anche qui, chi combatte davvero il digital divide, da tempo spiega che la distanza nelle conoscenze fra paesi ricchi e poveri ha poco, o quasi nulla, a che fare coi computer. Con l'hardware. Riguarda la capacità di usarli. Di più: la capacità di utilizzarli per le proprie esigenze, i propri bisogni. Nella propria lingua. E invece il summit di Tunisi ha annunciato l'arrivo del computer a basso prezzo (che comunque i governi dovranno pagarsi a proprie spese, di investimenti internazionali non se ne parla più) ma non ha spiegato chi insegnerà ai tecnici sudafricani o brasiliani come produrre da soli i propri software. E così il governo sudafricano, o brasiliano, o indiano, se volesse adattare quei computer per insegnare nelle proprie scuole o per scrivere i turni dei propri dipendenti, dovrebbe pagare altre migliaia di royalties. A chi è proprietario dei programmi. Che poi sono sempre gli stessi, ben rappresentati nell'Icann. No, neanche quel giocattolo, neanche quella foto con Annan che lo mostra, ha cambiato il senso di Tunisi: ha vinto l'America. Hanno perso tutti gli altri.