Strumenti di animazione

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Peacebuilding: un manuale formativo Caritas

Aggiornamento del "Manuale di formazione alla pace", pubblicato nel 2002 da Caritas Internationalis, traduzione in italiano a cura di Caritas diocesana di Roma - Servizio Educazione Pace e Mondialità (S.E.P.M.).

Ultime novita'

Sud Sudan, a 2 anni dall’indipendenza

La lenta transizione verso i due Stati dopo il referendum di due anni fa

Due anni fa, Il 9 luglio 2011, il Sud Sudan conquistava la sua indipendenza dopo decenni di guerra civile, un lungo periodo di transizione e finalmente un referendum, previsto dagli accordi di pace del 2005, tenutosi a gennaio del 2011. Un’indipendenza costata centinaia di migliaia di morti, sfollati, violenze di ogni tipo, distruzione praticamente di tutto (si stima che l’80% dell’attuale popolazione del Sud Sudan sia stata sfollata, a causa della guerra, dal luogo di nascita). Ma oggi, nonostante il clima di speranza che si respira tra la popolazione, la situazione del Sud Sudan è tutt’altro che confortante e la pace, quella vera, è ancora lontana.

Situazione politica e militare. I paradossi dell’aiuto umanitario

Nonostante i milioni di dollari che si sono riversati sul Paese a partire dalla firma degli accordi pace del 2005, e della nuova ondata di “aiuti umanitari” giunti all’indomani dell’indipendenza (ottenuta nel luglio 2011), si stenta ancora a riconoscere un effettivo impatto positivo sulla vita dei sud sudanesi. L’accesso ai servizi minimi essenziali, in particolare alle cure mediche e all’educazione, rimane estremamente precario. Si stima che oltre il 90 % della popolazione viva tuttora al di sotto della soglia di povertà (meno di 1 dollaro al giorno), mentre l’aspettativa di vita media è di 42 anni. Agenzie della Nazioni Unite riportano dati emblematici sulla possibilità di accesso alle cure: un infermiere serve circa 10.000 persone, un medico circa 100.000. Il tasso di analfabetismo è tra i più alti al mondo, soprattutto per le ragazze. Le vie di comunicazioni interne al Paese sono ancora pressoché inesistenti: strade sterrate che diventano impraticabili durante la stagione delle piogge, da maggio a ottobre. Accanto a questi problemi strutturali si affiancano nuove questioni sociali legate alla veloce urbanizzazione della capitale ed al ritorno di centinaia di migliaia di cittadini dal Nord: il fenomeno dei bambini di strada, in preoccupante crescita, e la veloce diffusione del virus HIV.

Volgendo lo sguardo sulle aree di confine tra Sudan e Sud Sudan viene poi da chiedersi: possiamo davvero parlare di pace raggiunta? In Nord Sudan, nella regione del Kordofan meridionale, sui Monti Nuba, continuano gli scontri ed i bombardamenti sulla popolazione, così come si continua a combattere in Darfur, che non ha mai trovato stabilità, e nello Stato del Blue Nile. Un assordante silenzio della comunità internazionale su questi come su altri conflitti nel continente africano, pervadono i media e le conferenze di tutto il mondo. Irrisolte questioni di confine, presenza di giacimenti petroliferi e disponibilità di immensi appezzamenti di terra fertile suscitano appetiti incrociati di Paesi stranieri e compagnie multinazionali, che alimentano dinamiche di violenza senza fine. Come spesso accade, la presenza di importanti risorse, che potrebbe generare un percorso virtuoso di sviluppo e miglioramento delle condizioni per la popolazione locale, è causa invece di corruzione, tensioni e guerre.

Uno scenario desolante e paradossale (se si pensa agli ingenti fondi messi a disposizione dalle Nazioni Unite), che emerge con fastidiosa evidenza passeggiando per le strade di Juba, la capitale del nuovo Paese. Un andirivieni di macchine luccicanti invade le strade, con le insegne delle più svariate ONG. Un susseguirsi di hotel in costruzione, di pubblicità, di nuove piscine per il personale espatriato delle agenzie umanitarie. Prezzi che volano alle stelle (una semplice stanza, in un albergo mediocre, può costare oltre 200 dollari per una notte). E quando si incrocia un bambino, con la cartella sporca di Unicef sulle spalle, e il viso sorridente, la sua reazione istintiva e immediata è allungare la mano e chiedere: “Kahwaja, give me 1 pound” (“Uomo bianco, dammi un soldo”). Quale sviluppo si sta portando a questo Paese?

Guerre tribali o interessi personali?

Tra la popolazione, da più parti, si punto il dito contro un altro male del Sud Sudan: il tribalismo. In particolare, contro il supposto tentativo della tribù dominante, i “dinka”, di estromettere dalle posizioni di potere tutte le tribù minoritarie, per arrivare ad un controllo assoluto sul Paese. In effetti, dopo l’euforia dell’indipendenza del 2011, sono riemerse in tutta la loro profonda e antica forza le divisioni etniche tra tribù, che in diverse circostanze sono sfociate in episodi di cruda violenza. È il caso di Wau, capitale del Western Bahr al Ghazal (Sud Sudan occidentale), che nel dicembre 2012 è diventata teatro di violenti scontri etnici, che hanno causato la morte di 24 persone e il ferimento di centinaia.

“È stato spaventoso” riportano testimoni oculari, “si vedevano fuoco e fiamme dappertutto, e questi giovani sconosciuti che avanzavano aggressivi, che si muovevano nella notte tra le nostre capanne, con torce accese e bastoni. Avevamo paura a uscire di casa, per timore che ci colpissero, o ci sparassero addosso, ma non potevamo stare dentro perché tutto bruciava”. (Cfr. Rapporto di Amnesty International, South Sudan: Civil Unrest and State Repression. Human Rights Violation in Wau, 2013).

Nei giorni prima di Natale Wau ha vissuto realmente giorni di terrore. Intorno al 10 di dicembre sono iniziate in città alcune manifestazioni pacifiche di protesta contro le autorità locali (a maggioranza dinka), e queste manifestazioni sono finite nel sangue, con una sparatoria delle forze dell’ordine sulla folla. Otto uomini sono morti in questi scontri, e decine sono rimaste ferite. Nei giorni seguenti si respirava una forte tensione, e si attendeva, con timore, il seguito degli eventi. Nella notte del 18 dicembre sono arrivati in città centinaia di giovani dinka, venuti da altri villaggi a bordo di camion, armati di pistole, bastoni e machete. Hanno iniziato a incendiare le capanne dei non dinka, aggredendo chiunque vi trovassero, compresi anziani, donne e bambini, senza che la polizia intervenisse per fermarli. Oltre 2.000 persone si sono rifugiate presso il compound delle Nazioni Unite (che a Wau ha una base di caschi blu); diverse migliaia sono fuggite dalla città.

Ma si tratta davvero di scontri puramente tribali?

L’avvocato Arkangelo Nyofo, Presidente della Commissione Giustizia e Pace di Wau e Presidente dell’ordine degli avvocati del Bahr al Ghazal, intervistato da Caritas Italiana, offre una spiegazione più approfondita dei fatti di Wau, ed in generale della situazione del Paese.
“Gli scontri etnici accaduti a Wau sono stati una sorpresa per tutti noi. Per decenni, anche durante gli anni della guerra civile, le diverse tribù hanno sempre convissuto pacificamente qui a Wau: i dinka, i balanda, i kreish, i Jur… non abbiamo mai assistito a violenze tribali, a parte alcuni contrasti per l’utilizzo delle risorse e l’accesso all’acqua, tra tribù di pastori e agricoltori. Ma mai violenze mirate, incendi e uccisioni. E difatti molti dinka di Wau sono rimasti scioccati da quanto accaduto. I giovani dinka che hanno compiuto questi atti di violenza, lo sottolineo, venivano da fuori: da altri villaggi… non erano di Wau! Perché allora è successo questo? Uno di questi giovani, interrogato in tribunale, ha confessato di aver ricevuto soldi da un politico, che ha messo a disposizione anche i camion per trasportarli a Wau, e le armi…”.

Dalle parole dell’avvocato Nyofo si intuisce che la questione etnica, probabilmente, è stata solo un pretesto, usata strumentalmente da persone di potere per il perseguimento di altri fini.
“Il problema, che riguarda tutto il nostro Paese, è che con l’indipendenza si sono concentrati in Sud Sudan interessi economici fortissimi. I prezzi delle terre sono andati alle stelle; gli immobili valgono una fortuna. La presenza di risorse, molte delle quali ancora inesplorate, e di immense terre coltivabili ancora libere, stanno attirando investitori da tutto il mondo. E la sensazione è che la nostra classe dirigente (a maggioranza dinka) voglia sfruttare questa fortuna per sé, controllando in maniera autoritaria l’estrazione del petrolio e delle altre risorse, e la gestione dei flussi di denaro, per il proprio personale tornaconto. La questione etnica è un pretesto, che viene utilizzata per consolidare la presenza di un gruppo dominante esclusivo alla guida del Paese: i milioni di dinka sud sudanesi, le gente comune, non ne vedranno i benefici, e continueranno a soffrire come le altre tribù. Ma è interesse dei potenti fomentare le divisioni, soffiare sul fuoco delle differenze etniche, per conservare i propri privilegi e i propri interessi economici”.

Speranze per un domani migliore

Tante sono le difficoltà che il giovane Sud Sudan si trova a dover affrontare, eppure tante sarebbero le risorse, e le potenzialità. Ne ricorda alcune P. Daniele Moschetti, Superiore Provinciale dei Missionari Comboniani. “Un uso delle risorse naturali finalizzato al bene comune. L’agricoltura, che potrebbe sfamare l’intera popolazione (se tutte le terre non saranno occupate dalle grandi multinazionali, già attive nella temibile attività del “land grabbing”).
Una consapevolezza da parte dei nuovi cittadini del Sud Sudan dei loro diritti fondamentali e della loro forza come società civile: loro che hanno lottato per l’indipendenza, devono ora lottare per la piena dignità di cittadini”.
I giovani, le nuove generazioni, sembrano interpretare al meglio questo ardente desiderio di cambiamento. La speranza è che ci sia spazio per i loro sogni e le loro ambizioni di cambiamento nel Sud Sudan di domani.

Footer

A cura di Caritas Italiana (tel. +39 06 66177001 - fax +39 06 66177602 - e-mail comunicazione@caritasitaliana.it) e Pax Christi (tel. +39 055 2020375 - fax +39 055 2020608 - e-mail info@paxchristi.it)