Bosnia Erzegovina: vent'anni di niente
Lo scorso 7 febbraio numerose proteste sono esplose in varie città della Bosnia-Erzegovina. La 'rivolta popolare' bosniaca giunge in un momento molto delicato per il paese. Alla crisi economica (il 40% della popolazione ufficialmente non ha lavoro, il 60% tra i giovani; la recessione economica, a partire dal 2009, si è cronicizzata) si sono sommati i difetti di una politica corrotta e nullafacente. La situazione è il risultato diretto della complicata architettura istituzionale del paese, decisa con gli accordi di Dayton firmati nel 1995. Un compromesso che “ha permesso la fine della guerra, ma non è servito alla pace”.
Come per molti altri paesi che hanno fatto l'esperienza della guerra, di Bosnia Erzegovina purtroppo si parla sempre in corrispondenza di notizie tragiche. Le ultime, ad arrivare dalla nazione che vent'anni fa fu teatro del più sanguinoso conflitto europeo dopo la seconda guerra mondiale, sono state quelle delle proteste esplose in numerose città nelle prime settimane del mese, culminate negli scontri dello scorso 7 febbraio. La 'rivolta popolare' bosniaca giunge in un momento molto delicato per il paese. Alla crisi economica (il 40% della popolazione ufficialmente non ha lavoro, il 60% tra i giovani; la recessione economica, a partire dal 2009, si è cronicizzata) si sono sommati i difetti di una politica corrotta e nullafacente.
La situazione è il risultato diretto della complicata architettura istituzionale del paese, decisa con gli accordi di Dayton firmati nel 1995. Un compromesso che, come si ripete spesso qui, “ha permesso la fine della guerra, ma non è servito alla pace”. Dayton ha sanzionato la spartizione etnica compiuta durante la guerra. La Bosnia Erzegovina è oggi divisa in due entità, quella serba (Republika Srpska) e quella croato-musulmana (FBiH), a sua volta ripartita in cantoni tracciati secondo principi etnici. Il risultato è un complesso sistema di amministrazione che di fatto crea dei monopoli territoriali organizzati su base etnica: laddove una delle tre 'nazioni costituenti' è maggioritaria, il rispettivo partito gestisce l'amministrazione delle risorse e il potere politico. La conseguenza è che i gruppi politici del paese, finora, hanno gestito il paese come un proprio feudo, alimentando corruzione e malaffare.
Da più parti, da anni, si reclama un 'Dayton 2': un nuovo accordo che permetta di normalizzare la vita del paese. Da vent'anni, però, il paese è fermo. In questo contesto molto problematico si è anche inserita Caritas, che ha cominciato la propria attività in Bosnia Erzegovina allo scoppio del conflitto nel 1992. Se, in un primo momento, essa si è principalmente occupata di fornire aiuti materiali e generi di immediata necessità alle popolazioni colpite dalla guerra, oggi l'intervento si è strutturato in una serie di impegni che, oltre a garantire la coesione sociale e la lotta alla povertà (come l'osservatorio delle povertà e delle risorse, il progetto di sviluppo agricolo nella diocesi di Banja Luka o quello delle cooperative per giovani affetti da disabilità a Mostar), si focalizzano proprio anche sul peace-building e la riappacificazione della società, sostenendo soprattutto le associazioni dedicate alle vittime civili e agli ex prigionieri dei campi di concentramento.
“Dal 2010”, spiega Suzana Bozic, responsabile di quest'area di intervento, “le singole Caritas nazionali di Bosnia Erzegovina e di Serbia collaborano inoltre in un progetto chiamato 'Scegliere la pace insieme', attraverso il quale delle persone che sono state vittime del conflitto oggi svolgono un ruolo attivo di promozione della riconciliazione”. Bozic spiega come avviene questo processo: “si tratta, fondamentalmente, di favorire il dialogo tra persone appartenenti alle diverse etnie, la comprensione e il perdono reciproco. Stando alle nostre valutazioni”, assicura Suzana, “è un progetto che sta dando ottimi risultati”.
Si tratta, naturalmente, di un processo molto lungo. La società bosniaca, a vent'anni dalla fine del conflitto, può essere ancora considerata in transizione. Nel momento in cui scriviamo questo articolo, i bosniaci non smettono di occupare le strade. Quotidianamente, soprattutto nella capitale, centinaia di persone continuano a protestare. E se la partecipazione sembra aver perso vigore è tuttavia degna di attenzione la creazione spontanea di assemblee popolari dove i cittadini si ritrovano a elaborare delle proposte che poi vengono sottoposte all'approvazione delle amministrazioni locali. In alcuni casi, come a Tuzla, Bihac e Sarajevo, i plenum sono perfino riusciti a fare abrogare le leggi che prevedevano il 'bijeli hljeb', il 'pane bianco', ovvero il diritto dei ministri dei governi cantonali di continuare a percepire il proprio stipendio per un anno dopo il termine del mandato. Una piccola vittoria e un piccolo esempio di cambiamento in un anno che, già otto mesi prima delle elezioni, si annuncia caldissimo.
Rodolfo Toè