Centrafrica, il massacro e le religioni si uniscono per la pace
Il 25 marzo 2014 al termine dell’udienza generale, Papa Francesco ha ricevuto i rappresentanti della "Piattaforma dei religiosi per la pace" in Centrafrica, composta da mons. Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, dal pastore Nicolas Grékoyamé-Gbangou, presidente delle Chiese Evangeliche, e dall'Imam di Bangui, Oumar Kobine Layama. Papa Francesco li ha incoraggiati a restare uniti, vicini al proprio popolo, continuando ad operare contro ogni divisione (leggi l’intervista a Marie Duhamel di Radio Vaticana).
Alle parole del Papa ha fatto eco, la dichiarazione di Caritas Internationalis a Ginevra in occasione della 25° sessione ordinaria del Consiglio dei diritti dell’Uomo tenutasi il 26 marzo 2014, in cui si è ribadito il carattere multidimensionale della crisi le cui vere cause sono di carattere politico-militare e socio-economiche unite ad un malgoverno cronico del paese che perdura da decenni.
Tutte le principali autorità religiose sono impegnate da mesi in un’incessante lavoro tra le comunità di promozione del dialogo e di condanna della lettura religiosa del conflitto. I principali esponenti, uniti nella “Piattaforma dei religiosi per la pace” di ogni confessione, insieme hanno visitato centinaia di comunità per portare parole di pace. Loro la proposta di creare delle “scuole di pace” dove far studiare bambini di religioni diverse. Allo stesso tempo, hanno chiesto la costituzione di centri sanitari misti che accolgano tutti, senza distinzione di religione o di etnia, come ha sottolineato padre Aurelio Gazzera, missionario carmelitano in una recente intervista a Radio vaticana.
La tormentata vicenda politica della Repubblica Centrafricana, nata dopo oltre 20 anni di instabilità e di colpi di stato, è diventata crisi violenta a marzo 2013 con l’arrivo al potere dei ribelli “Seleka” costringendo alla fuga l’ex presidente Bozizé. (vedi articolo da Italia Caritas 2/2014 per un’analisi del conflitto)
L’azione dei ribelli “Seleka”, in prevalenza mercenari da Sudan e Ciad, si è servita dell’elemento religioso per una serie di violenze nei confronti di cristiani e di animisti assolutamente nuova nel panorama del Centroafrica, dove tradizionalmente le diverse confessioni religiose hanno convissuto pacificamente. La crudeltà ha raggiunto abissi da “inferno dantesco” come afferma Peter Bouckaert di Human Right Watch, e “un’orgia di spargimento di sangue”. Alla violenze dei Seleka hanno risposto per autodifesa, ma con altrettanta ferocia, gli “Anti-Balaka” (anti-machete) nei confronti della comunità musulmana. Anche se dei musulmani e dei cristiani militano tra le fila rispettivamente dei Seleka e degli Anti-Balaka, la condanna delle violenze da parte delle autorità religiose dell’una e dell’altra parte è netta:
«Chi uccide, brucia e distrugge il suo fratello non può dirsi cristiano», ha tuonato l’arcivescovo di Bangui Dieudonne Nzapalainga. «Questi attacchi sono una battaglia per il potere. Chi li compie non può pensare di essere coerente con la sua fede. Gli adulti hanno ormai perso il senso di vivere insieme. Servono scuole che accolgano bambini di tutte le religioni per eliminare lo spirito di divisione e odio, perché la guerra lascia terribili ferite soprattutto nello spirito».
Similmente l’Imam Oumar Kobine Layama: ”Da mesi non ci stanchiamo di ripeterlo: seppur a maggioranza musulmana l’ex ribellione Seleka non è stata sostenuta dalla popolazione musulmana centrafricana. La stessa equazione vale per gli Anti-Balaka: non sono tutti cristiani e sono sempre più impopolari in seno alla comunità cristiana. Prima di allora abbiamo sempre convissuto nella fratellanza, nella serenità e nel rispetto reciproco”.
Le violenze sono state così gravi che quasi un quarto della popolazione, circa un milione di persone, sono fuggite dai loro villaggi. Nella città di Berberati, non lontano dal Camerun, il vescovo Dennis Agbenyadzi accoglie nelle strutture della Chiesa i musulmani in fuga: almeno 1500 persone hanno trovato protezione dal vescovo, che ha organizzato anche convogli per il loro trasporto in Camerun e a fine marzo c’erano ancora 200 musulmani rifugiati nel cortile della missione cattolica. Lo stesso è stato fatto nella vicina città di Carnot, e in altre località. Operare per la riconciliazione è difficile: dopo un anno di violenze volte a fomentare un conflitto fra cristiani e musulmani, significa correre seri rischi. Sempre a Berberati gli esponenti della Chiesa che lavorano in questo senso sono stati più volte minacciati a mano armata. La città è un triste scenario da film western.
Mentre l’ONU temporeggia e la presenza di truppe francesi non ha fermato le violenze, la Caritas Centroafricana ha organizzato un piano di assistenza e di protezione in tutte le nove diocesi del paese. Le persone da aiutare sono 21.400 e ci si prepara a un ennesimo lavoro di educazione alla pace nell’ennesima crisi della martoriata Africa.
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